I migranti continuano a bussare alle porte
articoli di Gian Andrea Franchi, Lorena Fornasir, Alessandro Luparello, Ciac onlus, Violetta Silvestri, Vittorio Lovera ripresi da Granello di Sabbia, Voci Globali e Comune-info
Schiavizzate, stuprate, umiliate: la vita buia di badanti e braccianti – Violetta Silvestri
Non sempre parlare di donne lavoratrici significa raccontare storie di emancipazione, diritti, conquiste sociali. Esistono ancora, anche in Italia, fenomeni vergognosi legati allo sfruttamento sul lavoro, dove la “femminilizzazione” dell’impiego è una prerogativa per violare la dignità personale, esercitare violenza e persino umiliare sessualmente le lavoratrici.
Sono soprattutto due i settori nei quali emergono testimonianze di tale forma di schiavitù al femminile: quello dell’assistenza e cura alle persone affidato a colf e badanti e il lavoro di bracciante agricola.
Solo nell’Unione europea lavorano 2,5 milioni persone come badanti, per lo più donne. Nel settore domestico la violazione dei diritti fondamentali è considerata una sorta di “area grigia”, nella quale è difficile intervenire per fermare le pratiche violente e di umiliazione.
Lo ha in parte testimoniato un lavoro di FRA (European Union Agency for Fundamental Rights), nel quale sono stati raccolti i punti di vista e le esperienze di 51 lavoratrici domestiche che, sebbene non siano rappresentative della situazione totale, “forniscono un’istantanea preziosa della realtà quotidiana… in termini di condizioni di vita e di lavoro. I loro resoconti includono esperienze con le più gravi forme di sfruttamento del lavoro: schiavitù e servitù. Le prove indicano anche che le lavoratrici domestiche con lo stato di irregolarità sono a maggior rischio di sfruttamento, poiché è particolarmente improbabile che si lamentino o denuncino la loro situazione per paura dell’espulsione”.
Le parole delle intervistate sono eloquenti: almeno un terzo ha sperimentato bullismo, molestie, abusi o violenze emotive e/o fisiche da parte di datori di lavoro e/o loro familiari; molte hanno raccontato di non avere accesso all’acqua o alla doccia, o in generale al bagno durante le ore di lavoro; altre di essere controllate con telecamere di sorveglianza attivate addirittura nella camera da letto.
Condizioni di evidente illegalità, nelle quali le donne rimangono intrappolate spesso per ignoranza su diritti e leggi a tutela, per necessità di lavorare, per l’invisibilità della loro situazione non regolare come lavoratrici straniere.
In Italia, secondo i dati Inps, colf e badanti sono lavori al femminile ormai da anni, tanto che nelle statistiche ufficiali – si considerano in questi casi i dati di lavoratrici regolari, ma il sommerso è molto diffuso – la percentuale di donne impiegate in questo settore supera sempre e di gran lunga l’80% negli ultmi anni. La “femminilizzazione” della professione è un aspetto fortemente legato allo sfruttamento. Lo ha spiegato, in un intervento, la dottoressa Chieragato, dottoranda in Diritto del Lavoro europeo all’Università di Verona:
La forte segregazione di genere nel settore dell’assistenza e della cura, così poco tutelato, ha avuto delle conseguenze negative rilevanti sulla persistenza del divario di genere in ambito lavorativo. Il retaggio, o meglio, gli stereotipi di genere secondo cui la cura sarebbe un’attività e un’attitudine “femminile” (e in particolare delle donne immigrate), che non richiede quindi alcuna competenza, qualifica o formazione, ha portato non solo a svalutare le competenze richieste per svolgere il lavoro domestico, ma a sminuire l’importanza, anche economica, di questa professione.
Meccanismi culturali e sociali simili si verificano nel settore agricolo, dove l’Italia può, purtroppo, fornire diverse prove degli illeciti e delle violenze inflitte alle donne.
Uno degli ultimi report in merito è di ActionAid, intitolato Cambia Terra. In questa inchiesta sul campo tra le lavoratrici agricole impiegate nelle campagne del Sud Italia, le storie narrate hanno tutte un unico filo conduttore: la violazione dei diritti e della dignità in modo silenzioso e impunito.
Stefania Prandi, giornalista, scrittrice e fotografa, che da anni si occupa di questioni di genere, lavoro, diritti umani, ambiente e cultura, ha partecipato a questo lavoro sulle braccianti agricole nel Meridione, oltre ad aver scritto il libro-inchiesta “Oro rosso. Fragole, pomodori, molestie e sfruttamento nel Mediterraneo”, nel quale racconta la vita e la situazione lavorativa di donne impiegate nelle campagne di Italia, Spagna, Marocco.
Questa dettagliata indagine è diventata ora una mostra fotografica itinerante. Voci Globali l’ha intervistata, per indagare, alla luce della sua esperienza, sul fenomeno di tale sfruttamento.
Il quadro riassuntivo è deprimente e, riprendendo le parole della giornalista, si viene a conoscenza, innanzitutto, che:
in generale, nei campi e nelle serre italiane, le donne rappresentano circa un terzo della forza lavoro, ma in alcune aree, dove ad esempio si raccolgono i pomodorini e le fragole, arrivano anche all’80%. Secondo sindacaliste e sindacalisti, operatrici e operatori di associazioni, ricercatrici e ricercatori accademici e indipendenti, le donne costano meno degli uomini, pur svolgendo le stesse mansioni, e spesso non riescono a ribellarsi perché hanno sulle spalle il carico familiare e le aspettative sociali.
Nel caso delle donne migranti il carico diventa ancora più pesante soprattutto se sono madri single, divorziate oppure hanno mariti disoccupati. Quando le donne si ribellano, rifiutando le violenze, allontanando fisicamente gli aggressori, difendendosi verbalmente, denunciando, lasciando il lavoro, hanno pochissime possibilità di ottenere giustizia.
Una lavoratrice nelle serre di Vittoria. L’operaia agricola ha raccontato di lavorare tra le 10 e le 12 ore al giorno per 600 euro al mese. “Il mio ex padrone arrivava la sera, quando i bambini andavano a letto, mi mostrava la pistola e io dovevo fare quello che voleva. L’ho denunciato, non è servito a niente, è ancora libero“. Foto di Stefania Prandi – Mostra Oro rosso
La lista dei diritti negati e dei soprusi subiti è lunga. Come ci ha spiegato Prandi:
alle donne viene negato il diritto a paghe dignitose dato che il reddito in genere si aggira, in Italia, tra i 600 e i 900 euro per giornate di lavoro estenuanti, che iniziano anche alle 2 o 3 di notte, per chi deve prendere i pullman. Se sono madri devono lasciare i propri bambini e bambine ai familiari, ma se non li hanno devono arrangiarsi con le vicine di casa, lasciandoli da soli oppure affidandoli ai cosiddetti asili nido irregolari, come mi è stato riferito da più fonti in Calabria.
Le donne raccontano che quando sono nei campi devono sgobbare senza protestare e in certi casi non hanno accesso ai servizi pubblici. Durante i lockdown e i periodi della pandemia la situazione chiaramente si è aggravata. Inoltre, le donne vivono un doppio sfruttamento legato appunto al genere.
Non ci sono dati a disposizione, ma dalle interviste che ho realizzato dal 2016 al 2021 emerge che le violenze sul lavoro – termine col quale intendo molestie sessuali verbali, fisiche, ricatti, tentati stupri e stupri – non sono eccezioni. I datori di lavoro, i caporali, i supervisori che commettono gli abusi sanno che hanno buone probabilità di restare impuniti. La violenza può arrivare alla fine di un’escalation di fatti apparentemente tollerabili come inviti a bere un caffè oppure a cena ed è difficile accumulare prove e testimonianze adeguate.
Un report del Parlamento Europeo sulla vulnerabilità delle braccianti agricole migranti in Europa – concentrato su casi studio in Spagna e in Italia – rimarca un concetto assai diffuso: le opportunità di lavoro per le donne straniere sono prevalentemente nei settori non regolamentati, come agricoltura, lavoro domestico, servizi e industria del sesso, perché qui le norme sono generalmente deboli o inesistenti e il rischio di discriminazione, sfruttamento e abusi è aggravato dall’assenza di accesso alla sicurezza sociale, alla copertura sanitaria e ad altre disposizioni di protezione, come quella per la maternità.
Inoltre, la maggior parte delle lavoratrici vive segregata all’interno di fattorie, spesso in rifugi abbandonati, nonostante gli agricoltori detraggano dal salario il costo di queste abitazioni. In alternativa, abitano in accampamenti vicini all’azienda, soprattutto in caso di lavoro stagionale, in una situazione di vera e propria ghettizzazione. Come nei casi dell’Italia e in Spagna, questo tipo di isolamento facilita abusi fisici e psicologici sulle donne.
Occorre poi considerare i fattori socio-culturali, che Stefania Prandi ha sottolineato, parlando di culture del Mediterraneo, inclusa quella italiana, in cui:
vige ancora un sistema patriarcale, cioè un sistema nel quale gli uomini detengono il potere. Il potere crea uno stato di dominio sui corpi. Esercitare il potere significa anche fondare un sistema di verità interiorizzate collettivamente. Penso ad esempio al fatto che le donne vengono cresciute fin da piccole con l’idea che sia doveroso ubbidire e sacrificarsi, che sia una prerogativa femminile essere mansuete e preoccuparsi per il benessere degli altri.
Il potere sfocia nella violenza quando opera sui corpi con la forza ed è ciò che accade quando allo sfruttamento lavorativo ed economico, inteso come assenza di contratti regolari, paghe inadeguate, impossibilità di avere accesso ai servizi igienici e ad abitazioni dignitose, si affiancano le molestie sessuali.
Nelle aree di Italia e Spagna, dove sono stata a più riprese dal 2016, quando si chiede agli abitanti del posto perché vengono scelte soprattutto le donne, in genere ci si sente rispondere che sono predisposte “per natura” alla raccolta di frutti rossi, pomodorini, uva da tavola, perché sono più delicate, attente ai dettagli e pazienti. Si tratta ovviamente di uno stereotipo culturale dato che anche gli uomini hanno dita delicate, pensiamo ai chirurghi, ad esempio, oppure agli artigiani o agli artisti.
C’è un terreno fertile nel quale riesce a crescere questa rigogliosa rete di abusi: “è quello della cultura sessista che consente le aggressioni e garantisce l’impunità a chi abusa delle lavoratrici e di un mercato del lavoro deregolarizzato, basato sul lavoro grigio e nero, con uno svuotamento della capacità di azione dei sindacati unitari, dove non ci sono diritti per i più deboli ma vige la legge del più forte“.
Il ragionamento di Stefania Prandi è chiaro: in Italia decenni di conquiste sul lavoro sono state spazzate via e le lotte che ci sono state – molte, in diverse aree – non sono riuscite a cambiare il sistema.
L’amara constatazione della reporter è che la violenza sul lavoro nei Paesi del Mediterraneo dove ha svolto le sue ricerche è ancora tabù, anche se…
le inchieste giornalistiche degli ultimi anni, anche a livello internazionale, stanno cambiando leggermente la sensibilità di una parte della popolazione. C’è più consapevolezza anche da parte delle lavoratrici, ma ovviamente chi detiene il potere non ha intenzione di modificare il sistema.
La complicità per il mantenimento dello status quo è diffusa. Mi sono sentita ripetere più volte, nel corso di questi anni, anche di recente, soprattutto da chi gestisce il potere economico, che lo sfruttamento e le violenze sarebbero eccezioni di un sistema che in realtà cerca di funzionare al meglio e in modo etico.
Come spiega una ricerca dell’Università di Palermo, nelle serre di Vittoria c’è una dinamica del ricatto: le donne migranti sanno che, presto o tardi, possono ricevere le avances dei capi e perdere il posto, se non le accettano. Foto di Stefania Prandi – Mostra Oro Rosso
Ma come si può, allora, cambiare il lavoro delle donne in agricoltura?
Prandi ha offerto una direzione: c’è bisogno di azioni condivise e che siano espressione di una collettività. In termini pratici, le soluzioni elencate comprendono la creazione di mappatura delle aziende che non sfruttano la manodopera; il collocamento “pubblico” in agricoltura; un sistema di trasporto pubblico che tolga potere ai caporali; più ispettori e ispettrici e più controlli sul rispetto reale dei contratti; una mappatura seria fatta dagli organismi di ricerca statali che indichi in base agli ettari coltivati quanti lavoratori e lavoratrici sono necessarie per le aziende e quante sono regolarmente assunte; aumento del salario.
E poi deve avvenire una sorta di rivoluzione culturale: “le molestie sessuali e i ricatti fanno parte del doppio sfruttamento del lavoro femminile e non si possono risolvere fino a quando non ci sarà un cambio di mentalità e una capacità della giustizia, non solo penale ma anche sociale, di agire in modo sistematico”, ha sottolineato Prandi.
Intanto, però, sullo sfondo continuano a riecheggiare le voci inascolate delle donne violentate. Se anche vogliono parlare e avere più giustizia poiché sono consapevoli della loro subalternità, non sanno come fare.
C’è chi si è ribellata fisicamente, scacciando via gli aggressori, insultandoli, chi pur di non sottostare agli abusi ha cambiato lavoro, chi ha denunciato. Tra le donne che ho intervistato e che hanno subito le violenze non ci sono però state esperienze di riscatto senza dolore: anche in seguito alla ribellione, le donne hanno comunque pagato un caro prezzo, e questo è quello che succede a tante, anche in altri settori.
La ribellione esiste, ma ha una dimensione spesso esclusivamente individuale. E da sole non si può incidere sul sistema, come ci insegnano le storie delle lotte e dei movimenti sindacali e civili.
Se tutto rimane in questo stallo, continueremo a sentire storie drammatiche di donne schiavizzate. Come quella di una bracciante agricola che lavorava e viveva in una piccola fattoria nella zona di Vittoria, Sicilia, con la figlia e il figlio e raccontata nell’inchiesta del Parlamento Europeo prima citata. Poiché la scuola si trovava lontano dall’alloggio, il datore di lavoro accompagnava i suoi figli in macchina alle lezioni. Ma, in cambio di questo favore, chiedeva prestazioni sessuali. La donna ha accettato al fine di proteggere i suoi figli e non perdere il lavoro e la casa. Quando, però, ha deciso di rifiutare tale ricatto, non ha più ricevuto acqua da bere dal datore di lavoro.
Oppure, avremo ancora l’eco delle parole di una raccoglitrice di fragole bulgara appena arrivata nell’azienda del Sud Italia, raccolte da un lavoro di ActionAid:
Ci portano subito all’azienda dove lavoreremo, non lo dimenticherò mai. Un casermone enorme con cancelli alti fino a 3 metri che si chiudono dietro di noi e non si aprono più. Ci ritirano i documenti, se li tengono, ci fanno vedere il dormitorio accanto all’impianto e da lì non possiamo uscire. Mai. Cosa sono diventata, una schiava? Una prigioniera? Lavoro e basta. Raccolgo fragole e mando i soldi a casa… Spesso piango, vorrei andare via… ma dove, senza documenti?
O ancora ascolteremo di ricatti e soprusi, come quelli evidenziati nei lavori di inchiesta di Sefania Prandi e che parlano, per esempio “dell’uomo “delle cime di rape”, nella zona di Ginosa Marina, un caporale che molesta le donne che lavorano per lui. Nel barese, da anni va avanti un metodo collaudato. La mattina, quando nelle piazze arrivano i furgoni per portare le operaie agricole nei campi, la “prescelta” viene fatta salire davanti, nello spazio accanto al guidatore. Sul cruscotto vengono messi un cornetto e un caffè caldo, comprati al bar. Mangiare la colazione significa accettare l’avance sessuale e quindi ottenere l’ingaggio. Rifiutando, invece, il giorno dopo si viene lasciate a casa”.
E, infine, potrebbero ancora esserci storie come quella di Kalima, raccontata dalla Spagna nell’inchiesta di cui fa parte Oro Rosso e realizzata da Pascale Mueller e Stefania Prandi: la donna lavora in una fattoria di fragole, può farsi la doccia solo una volta alla settimana e dorme in una stanza con altre sei compagne. Il suo supervisore è Abdelrahman: “Viene di sera. Ha i numeri di telefono di tutte le donne. Le costringe a fare sesso con lui. Ogni notte con una donna diversa. Quando dici di no, ti punisce sul lavoro”.
La piazza del mondo e il piccolo sindaco – Gian Andrea Franchi e Lorena Fornasir
Piazza della libertà, Trieste, ci sono molti modi per gridare contro l’orrore del razzismo istituzionale che a Melilla e in molti angoli d’Europa uccide
Domenica 10 luglio abbiamo letto sul quotidiano locale di Trieste, Il Piccolo, la minaccia del sindaco di chiudere piazza Libertà, cioè piazza del Mondo, al passaggio dei migranti in transito: “O si trova una soluzione affinché questi non campeggino e non bivacchino in quella piazza, o trovo il modo per recintarla…”. Se c’è qualcosa che caratterizza umanamente e politicamente il presente è l’indifferenza assoluta per la vita e non solo la vita degli esseri umani. Nel caso dei migranti, questa indifferenza raggiunge uno dei suoi aspetti più violenti: le decine di migliaia di morti in mare Mediterraneo, recente almeno trentasette persone assassinate davanti all’enclave spagnola in Marocco a Melilla e anche qui da noi, tra Croazia, Slovenia e Italia (leggi Il massacro di Melilla).
Il decoro urbano, offerto a i turisti, nasconde la sofferenza, la povertà e anche la morte. Questa è la politica cittadina: nascondere, nascondere la verità a tutti i livelli, a livello sanitario per esempio, al livello dei poveri in continuo aumento. Questa è la politica dello Stato.
In questi giorni l’ISTAT ha pubblicato i dati sullo stato sociale dell’Italia: uno peggio dell’altro, in particolare per l’aumento della povertà, della disoccupazione, del lavoro precario, dei bassi salari.
In questo contesto, crediamo che il compito di un’associazione come Linea d’Ombra e quello di ognuno di noi sia mostrare in tanti modi diversi la verità e starci in mezzo con tutte le nostre forze, con nostri corpi: nel nostro caso, accogliere migranti trattati come individui al di fuori dell’umanità, non degni di vivere…
Intanto non smettiamo di chiedere gabinetti, dormitori, la riapertura dell’Help center chiuso. Chiediamo alle istituzioni e a tutti coloro che sono in alto il pane che non avete mai dato, le mascherine che non avete mai portato, qualche farmaco per curare… Chiediamo che i transitanti, quelli che chiamate clandestini siano rispettati. Ci troverete ogni giorno lí, nella piazza del mondo, come sempre da tre anni a testimoniare queste vite disumanizzate.
Liberi da impegni per l’autunno – Vittorio Lovera
La costruzione di un’alternativa di Società richiede il saper affrontare e risolvere tutti i danni che quarant’anni di turboliberismo hanno creato, gettandoci in pasto a una serie interminabile, sistemica, di “crisi ed emergenze“ da affrontare: quella sociale, quella ambientale, quella finanziaria, quella pandemica e ora quella di guerra.
Questo numero del Granello di sabbia è stato concepito per affrontare in modo sistematico quella che riguarda i migranti, a nostro modo di interpretare le dinamiche in atto e gli scenari geopolitici, le prime vittime designate a pagare lo scotto della guerra.
Lo scenario apertosi con l’invasione russa dell’Ucraina ha spalancato le porte alla complessità della situazione internazionale, dove non c’è più un ordine mondiale definito e dove le diverse potenze sono in conflitto per la definizione di un nuovo ordine internazionale.
La guerra stessa sembra il concentrato di molte guerre, come una sorta di matrioska, al cui interno troviamo: un conflitto civile interno all’Ucraina determinato dalle spinte separatiste delle regioni del Donbass; un conflitto fra Stati, determinato dall’invasione russa dell’Ucraina; un conflitto fra imperialismi e blocchi militari che vede la Russia da una parte e Usa, Nato e governi europei dall’altra; infine, si intravede la possibile guerra futura che vedrà in campo i veri contendenti dell’egemonia mondiale, ovvero Usa e Cina.
In un mondo globalizzato come il nostro, la guerra in Ucraina porta con sé conseguenze globali e il blocco delle catene di approvvigionamento, già messe a dura prova durante la pandemia, rischia di provocare crisi alimentari spaventose, in particolare nel continente africano e nella regione del Medio Oriente. E naturalmente ineludibili nuove migrazioni di massa.
Già la gestione del flusso di profugh* dall’Ucraina (5 milioni in un mese, 3 milioni dei quali in Polonia, dal cui accesso sono esclusi quelli di origine non ucraina) ha sancito l’inizio di una politica di accoglienza su base razziale nel nostro continente, come ben sostiene anche Guido Viale (leggi il suo contributo in questo Granello).
Questo fenomeno è reso ancora più chiaro dal proseguimento della triplice, violentissima strategia basata sui tre assi: respingimenti, riammissioni, confinamenti. Che poi ha come obiettivo il rendere impossibile l’esigibilità di quel diritto di asilo che le molte convenzioni internazionali e costituzioni nazionali tuttora riconoscono in molti Stati membri.
La guerra continua con il suo carico di morti, distruzione, devastazione. Nessun attore istituzionale sembra volerla fermare, praticando davvero e con coerenza quello che sarebbe da subito necessario: il cessate il fuoco e l’avvio di veri negoziati.
La guerra continua e investe le nostre vite. Aumenta le diseguaglianze sociali, ingabbia la cultura e sottrae democrazia. Chiude tutte le faglie aperte dalla pandemia e rimette in un angolo ogni possibile trasformazione sociale. Persino il Recovery Plan, che abbiamo contestato contrapponendo ad esso il nostro Recovery Planet, viene completamente rimosso e ormai Governo e Confindustria (davvero difficile capire chi impone a chi, oppure….. fin troppo semplice!) parlano apertamente di Recovery di guerra.
Tagli alla sanità e all’istruzione e corsa al riarmo, aumento delle spese militari e apertura di nuove basi militari, come quella a Coltano, dentro un parco nazionale. Nessuna transizione ecologica all’orizzonte, ma “più carbone, più trivellazioni e rilancio del nucleare”. Nessuna sovranità alimentare, ma nuovi finanziamenti all’agro-business e via libera agli OGM. Nessuna tutela dei beni comuni, ma lancio di una nuova stagione di privatizzazioni.
Al rancoroso Recovery di guerra del governo Draghi e della Ue contrapponiamo un’Economia di Pace, che si fonda su orizzonti e tinte di speranza: disarmo, natura, accoglienza.
Sull’Economia di Pace, attraverso il grande lavoro del nostro Antonio De Lellis ( leggete il suo articolo in questo Granello), stanno lavorando una serie di realtà, da Attac a Pax Christi, da Rete Pace a Cadtm, per dare centralità all’elaborazione e alla diffusione di questa impostazione, secondo le nostre valutazioni uno degli assi nodali per un’alternativa di Società. Che poi, per tornare al tema migranti, sono la riproposizione del 5° articolo del Manifesto della Cura:
“La pandemia non ha rispettato alcuna delle molteplici separazioni geografiche e sociali e alcuna delle gerarchie costruite dagli esseri umani: dalle frontiere alle classi sociali, passando dal falso concetto di razza. Ha dimostrato che la vera sicurezza non si costruisce contro, e a scapito degli altri: per sentirsi al sicuro bisogna che tutt* lo siano.
Affinché questo accada, occorre che a ogni popolazione venga riconosciuto il diritto a un ambiente salubre, all’uguaglianza sociale, all’accesso preservativo alle risorse naturali.
Occorre porre termine a ogni politica di dominio nelle relazioni fra i popoli, facendo cessare ogni politica coloniale, che si eserciti attraverso il dominio militare e la guerra, i trattati commerciali o di investimento, lo sfruttamento delle persone, del vivente e della casa comune. Non possiamo più accettare che i nostri livelli di consumo si reggano sullo sfruttamento delle risorse di altri Paesi e su rapporti di scambio scandalosamente ineguali, né l’esistenza di alleanze militari che hanno l’obiettivo del controllo e dello sfruttamento di aree strategiche e delle loro risorse.
La società della cura rifiuta l’estrattivismo perché aggredisce i popoli originari, espropria le risorse naturali comuni e moltiplica la devastazione ambientale. Per questo sostiene l’autodeterminazione dei popoli e delle comunità, un commercio equo e solidale, la cooperazione orizzontale e la custodia condivisa e corresponsabile dei beni comuni globali.
La guerra contro i migranti è ormai uno degli elementi fondanti del sistema globale attuale. Intere aree del pianeta – mari, deserti, aree di confine – sono diventati giganteschi cimiteri a cielo aperto, luoghi in cui si compiono violenze e vessazioni atroci, e dove a milioni di esseri umani viene negato ogni diritto e ogni dignità.
La società della cura smantella fossati e muri e non costruisce fortezze. Rifiuta il dominio e riconosce la cooperazione fra i popoli. Affronta e supera il razzismo istituzionale e il colonialismo economico e culturale, attraverso i quali ancora oggi i poteri dominanti si relazionano alle persone fisiche, ai saperi culturali e alle risorse del pianeta.
La società della cura rifiuta ogni forma di fascismo, razzismo, sessismo, discriminazione e costruisce ponti fra le persone e le culture praticando accoglienza, diritti e solidarietà.”
Poiché da parte delle Istituzioni Internazionali non è in atto alcun processo concreto teso a creare i presupposti per la fine del conflitto, dobbiamo immaginare uno scenario di lungo periodo.
Le conseguenze degli scenari bellici si presenteranno nell’autunno ancora più nette e pesanti, con aumento dei tassi, crisi occupazionali diffuse, caro bollette.
Il percorso di convergenza lanciato dalla Società della Cura sta creando tangibili riscontri e il seminario on line di giovedì 23 Giugno:
Contro la guerra, un’altra società
ne è stata l’ennesima riprova, il segnale che l’accumulazione di forze su obiettivi radicali e comuni, non solo prosegue ma si intensifica con geometrica progressione. Usciamo da questa assise con una certezza: saremo tutte e tutti liberi in autunno per una grande e visibile presa di parola che sappia mettere nell’angolo le politiche di guerra e del rancore e sappia invece incanalare positivamente la tanta rabbia repressa in socialità e speranza.
Parole di forte apertura verso una grande mobilitazione, prima locale poi nazionale, per il prossimo Ottobre (magari in occasione della presentazione della Legge di Bilancio) sono emerse chiare, speriamo ferme. Grande apprezzamento in particolare per gli interventi delle realtà sindacali, Piero Bernocchi (Cobas), Barbara Tibaldi (Fiom), Luca Scacchi (FLC –CGIL) che – esprimendo apprezzamento per le iniziative del collettivo di Fabbrica GKN – hanno concretamente aperto alla possibilità che qualcosa di realmente unitario ed incisivo possa finalmente trovare contenuti e pratiche comuni. Come spesso ci ricorda Dario Salvetti (GKN) “aver ragione non basta“ e “occorre utilizzare ogni minimo spiraglio per gettare germogli , localmente e nazionalmente”: a noi attivare tutte le lotte e le vertenze locali verso una grande mobilitazione comune che sappia incidere.
Basta settarismi: radicale (ma non ecumenica) convergenza!!!
Come Sdc stiamo collaborando sia alla tappa del nuovo “Insorgiamo tour” a Genova, nell’anniversario dell’assassinio di Carlo Giuliani, sia soprattutto nella realizzazione del ventennale di Firenze 2002-2022.
Con Tommaso Fattori, Massimo Torelli, Jason Nardi, Roberto Spini, Sdc Firenze e moltissime compagne/i fiorentini e toscani stiamo creando i presupposti per 4 giorni (10-13 novembre) di eventi, iniziative ed assemblee.
Non si tratta di celebrare il passato ma di fare memoria orientata al futuro. A partire dalla necessità di alzare una voce forte per la pace e contro la guerra.
https://www.inventati.org
Il Social Forum di Firenze 2002 fu un momento di grande forza e convergenza dei movimenti e degli attori sociali di tutta Europa, e di un’analoga forza e convergenza c’è molto bisogno anche oggi, di fronte alle immense e drammatiche sfide del presente.
Il ventennale del FSE può dare un contributo al superamento della grande frammentazione geografica e tematica che ha caratterizzato gli ultimi anni, e lo stesso processo preparatorio che ci condurrà verso Firenze 2022 può divenire parte essenziale di questa riconnessione.
Dal 10 al 13 novembre Firenze ospiterà un grande incontro nazionale ed europeo dei movimenti e degli attori sociali, per ricostruire una rete di comunicazione, collaborazione e possibile convergenza all’altezza del tempo tragico che stiamo vivendo: la guerra, la crisi eco-climatica, l’aumento esponenziale delle diseguaglianze sociali e di genere, la crisi democratica.
Il 10 e 11 novembre si svolgeranno a Firenze tante iniziative auto-organizzate e auto-finanziate dalle diverse reti nazionali ed europee, in modo anche da favorire l’arrivo a Firenze di attivisti e attiviste di tutta Europa, e del Mediterraneo, e dei movimenti di nuova generazione.
Il 12 e il 13 novembre si terrà un’assemblea di convergenza nazionale ed europea sulle grandi questioni di questo tempo.
Non per aree tematiche ma su domande nodali che – in via di definizione tra tutte le realtà coinvolte/coinvolgibili – sostanzino questi aspetti :
- a)dove va l’Europa, dove andiamo noi;
- b) Come uscire dalle politiche del “rancore” e orientare percorsi collettivi di “speranza”;
- c) Aver ragione non basta. Come i movimenti sociali possono tornare ad essere trainante fenomeno di massa?
Per quelle giornate, come Attac/Cadtm stiamo verificando la fattibilità di organizzare una giornata che rilanci il tema dei debiti illegittimi – l’inflazione si avvicina alle due cifre, lo spread torna a salire, i debiti nazionali sono fuori controllo – con la presenza di Eric Toussaint, di Ramiro Chimuris, del Prof. Maddalena e della Consulta Audit del Comune di Napoli, delle reti di auditoria europee, coniugandoli con le riflessioni sull’economia di pace.
Posticiperemo di una settimana la tradizionale Università estiva di Attac (Cecina Mare, 16-17-18 Settembre) per non creare sovrapposizione con il decennale della Decrescita a Venezia (7-8-9-10 Settembre “ Decrescita: se non ora quando?”).
Infine, a partire dall’autunno, Attac Italia e tutte le realtà aderenti a Riprendiamoci il Comune (le due leggi di iniziativa popolare sulla socializzazione di Cassa Depositi e Prestiti e sulla riforma della finanza pubblica locale) inizieranno il percorso che ci vedrà impegnati da Gennaio a Luglio 2023 nella raccolta firme.
Sì, perché noi siamo perennemente in “Insorgiamo tour”, localmente e nazionalmente: per avere un’alternativa di società occorre lottare in tanti, tutti i santi giorni.
Un numero sui migranti non si può chiudere senza un plauso di cuore a tutte le organizzazioni che, per mare e per terra, alleviano le tribolazioni dei migranti, a Mimmo Lucano, ad Andrea Costa e a tutte/i quelli che – in uno stato sempre più autoritario e repressivo – per propugnare i propri valori rischiano il gabbio.
Noi almeno teniamoci liberi per l’autunno!!!
Foto: la Società della Cura.
Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 50 di Giugno-Luglio 2022: “Guerra e migranti, guerra ai migranti“
https://comune-info.net/liberi-da-impegni-per-lautunno
Questo numero del Granello di Sabbia è dedicato ad Alessandro Dal Lago.
Indice
Editoriale
“Tenetevi liberi per l’autunno”
di Vittorio Lovera (Attac Italia)
Introduzione
Perché un granello monografico sulle migrazioni
di Roberto Guaglianone (Attac Saronno)
di Guido Viale (economista, ass. Laudato sì)
Per un’economia di pace: Disarmo, Natura, Accoglienza
di Antonio De Lellis (Attac Italia)
La guerra, le donne, l’esclusione
di Floriana Lipparini (Casa delle Donne Milano)
L’analisi
L’asilo in Europa: da diritto a concessione
di Gianfranco Schiavone (estratto dalla prefazione del libro “Respinti” di Duccio Facchini e Luca Rondi, Altreconomia Edizioni)
L’esistenza di un sistema internazionale di campi di confinamento organizzati dall’Europa
di Gianfranco Schiavone (vicepresidente ASGI)
L’accanimento. I valori perduti dell’Europa
di Maurizio Veglio (estratto dal libro “Respinti” di Duccio Facchini e Luca Rondi, Altreconomia Edizioni)
di Michele Rossi (direttore CIAC Onlus)
La crescente esternalizzazione delle frontiere
di Filippo Miraglia (vicepresidente ARCI)
di Giampiero Obiso (La Società della Cura)
Le proposte
Creare ponti alla frontiera tra Polonia e Bielorussia
di Federico Rossi (Operatore Neos Kosmos APS)
Presidiare il Mediterraneo oggi, perché?
di Corrado Mandreoli (vicepresidente di ResQ People Saving People)
Sulla stessa rotta: la carovana virtuale per i diritti dei migranti
di Edgardo Iozia (Associazione Melitea – Società della Cura)
Documento del Tavolo Migrazioni della Società della Cura
di Società della Cura
Il problema Frontex riguarda il suo ruolo strutturale
di Yasha Maccanico (Statewatch)
Ventimiglia sulla via negata dei migranti
di Mauro Giampaoli (Attac Imperia)
Rubrica “Volano schiaffi”
di Marco Schiaffino
Programma dell’Università estiva di Attac 2022 “Contro guerra e profitti, quale società della cura?”
di Attac Italia
Criminalizzazione della solidarietà, quando è cominciata e perché – Alessandro Luparello
In molti Paesi europei, negli ultimi anni i difensori dei diritti umani e le organizzazioni della società civile che hanno aiutato rifugiati e migranti sono stati sottoposti a procedimenti penali infondati, limitazioni indebite alle loro attività, intimidazioni, vessazioni e campagne denigratorie. Le loro azioni di assistenza e solidarietà li hanno messi in rotta di collisione con le politiche europee sulla migrazione, che hanno l’obiettivo di impedire a rifugiati e migranti di raggiungere l’Unione Europea, di trattenere quelli che riescono a entrare in Europa nel Paese di primo arrivo e di espellerne quanti più possibile verso i loro Paesi d’origine.
Soccorrendo rifugiati e migranti in pericolo in mare o sulle montagne, offrendo loro riparo e cibo, documentando gli abusi della polizia e delle guardie di frontiera e opponendosi alle espulsioni illegali, i difensori dei diritti umani hanno svelato la crudeltà delle politiche sull’immigrazione e sono diventati essi stessi bersagli delle autorità. I leader politici e le forze di sicurezza hanno trattato atti di umanità come minacce all’ordine pubblico, ostacolando ulteriormente il loro lavoro e costringendoli a impiegare le loro scarse risorse e le loro energie per difendersi in tribunale.
Ecco l’inizio, inequivocabile nelle affermazioni e nei termini, della sintesi del rapporto “Punire la compassione: solidarietà sotto processo nella Fortezza Europa”, pubblicato a marzo 2020 da Amnesty International.
Queste frasi riassumono la prepotente e pervasiva deriva xenofoba e di chiusura asfittica (e violenta) dei confini cui assistiamo in Europa, e in Italia. Il tutto, osserviamo, passa attraverso una narrativa d’odio verso l’altro, il diverso, lo straniero e, per riflesso, verso chiunque si muova in suo aiuto per il rispetto dei diritti universali e per umano senso di fratellanza e sorellanza.
Ma è sempre stato così? In Italia, almeno, è indubbio un cambio di passo, una modifica del linguaggio che ha seguito il deciso indirizzo politico e ha comportato un significativo impatto sull’opinione pubblica. Ricordiamo bene come la narrativa mediatica, politica e informativa, sia scivolata velocissimamente dalla retorica degli “angeli del mare” a quella -delirante e falsa ma strumentale- dei “taxi del mare” (rimanendo nel campo delle operazioni di salvataggio nel Mediterraneo delle persone migranti).
Proviamo a capirne di più parlando con Fulvio Vassallo Paleologo, avvocato che opera attivamente nella difesa dei migranti e dei richiedenti asilo, in collaborazione con diverse ONG, e con Luca Casarini, capomissione di Mediterranea Saving Humans e che è stato direttamente oggetto di inchieste legate alla sua attività di salvataggio di persone in mare.
Linguaggio
Partiamo proprio dal linguaggio. Quanto è stato importante, nel cambio della percezione generale dei cittadini, la modifica del linguaggio usato dalla politica e veicolato/amplificato attraverso i canali di comunicazione?
Luca Casarini afferma senza esitazioni che è stato fondamentale.
“Pensiamo appunto alla formula, introdotta da Di Maio, dei ‘taxi del mare’. È quello il momento – cristallizzato in uno slogan per i media- nel quale l’umanitario diventa un campo di conflitto e non più un ‘contradditorio ma tollerabile’ terreno di relazione tra istituzioni e società civile. Si rende esplicito e radicale, da parte dello Stato, il tentativo di ‘dividere’ il lavoro e l’impegno umanitario in ‘sussidiario’, e dunque buono, e ‘sovversivo’, e quindi cattivo.
I danni di un’operazione del genere, alimentata dalla grancassa dei media, sono incalcolabili sul piano culturale e sociale. Ovviamente, per legittimare il processo di criminalizzazione dell’umanitario, c’è bisogno di ‘spersonalizzare’ le vittime delle violazioni dei diritti umani: devono essere solo numeri, non persone con volti, storie, nomi, parenti e famiglie.”
La spersonalizzazione e disumanizzazione delle persone è appunto un passaggio cruciale e fondante di quella narrativa che ci consente di attaccare l’altro, finalmente scevri da dubbi etici e dal controllo delle coscienze, autoassolvendoci da ogni disumanità e crudeltà che altrimenti -riconoscendola- non saremmo in grado di tollerare in noi stessi.
Fulvio Vassallo Paleologo precisa che “purtroppo il linguaggio discriminatorio non si è limitato ai media ma è entrato nel corpo di provvedimenti delle procure siciliane che hanno indagato e chiesto il rinvio a giudizio delle ONG accusate di facilitare l’ingresso ‘clandestino’ dei naufraghi soccorsi in mare. Molte persone che avrebbero potuto trovare salvezza in Europa continuano ancora oggi ad essere internate nei centri di detenzione in Libia, o abbandonate in mare”.
E aggiunge che “utilizzare espressioni come ‘migranti sottratti alla guardia costiera libica’ – nel corpo di importanti provvedimenti di richiesta di rinvio a giudizio di operatori umanitari (come nel caso Iuventa) che hanno soccorso in mare migliaia di vite – equivale a dare una valenza sanzionatoria all’espressione ‘taxi del mare’, in assenza di qualsiasi base legale e dopo che questa vergognosa definizione è stata ampiamente smentita dai fatti documentati nei numerosi processi nei quali le indagini contro le ONG sono state archiviate”.
Inizio della criminalizzazione della solidarietà
Ma se dovessimo individuare -semplificando – un momento specifico in cui maggiormente si è costruito e manifestato un cambio di approccio delle Istituzioni italiane ed europee al fenomeno migratorio e alla comunicazione dello stesso verso i cittadini, quale potremmo identificare?
Una dettagliata risposta arriva da Fulvio Vassallo Paleologo: “L’anno della svolta è il 2017. Dal 2014 in poi gli arrivi via mare in Italia si erano moltiplicati, soprattutto per effetto della crisi siriana, con 170.000 persone arrivate nel 2014 e 153.000 persone arrivate nel 2015 (secondo dati dell’UNHCR e del Ministero dell’interno); nel 2016, dopo gli accordi stipulati dai Paesi dell’Unione Europea con la Turchia e la chiusura quasi completa delle rotte sull’Egeo, erano stati soccorsi nel Mediterraneo centrale oltre 180.000 profughi, poi sbarcati in Italia e provenienti in gran parte dalla Siria, dall’Afghanistan, dal Pakistan e dall’Iraq, numero che nel 2017 era destinato a crollare, soprattutto dopo la stipula del Memorandum d’intesa tra Italia e Governo di Tripoli del 2 febbraio 2017.
La criminalizzazione di persone e organizzazioni che prestano assistenza agli immigrati in Europa è espressione della chiusura delle vie di ingresso legale, anche per ragioni umanitarie, e della crescente difficoltà di accedere alla procedura di asilo in frontiera e di soggiornare legalmente. I processi di criminalizzazione, soprattutto a livello mediatico, hanno riguardato prima i cosiddetti ‘clandestini’, poi coloro che gli prestavano soccorso, infine i cittadini solidali, le associazioni di volontariato e i singoli amministratori locali, che prestavano assistenza a terra, fino ad intaccare il principio di separazione dei poteri, la libertà di informazione ed i diritti di difesa. È finito compromesso lo stesso esercizio della giurisdizione sotto una pressione politica e mediatica senza precedenti.
A partire dal 2017, anno della stipula del Memorandum d’intesa tra Italia e Governo di Tripoli si è sviluppata una forte attività di indagine nei confronti dei rappresentanti delle ONG che operavano attività di monitoraggio e soccorso nel Mediterraneo centrale con diversi sequestri preventivi e con procedimenti penali che sono stati archiviati o che rimangono ancora nella fase delle indagini preliminari”.
Anche Luca Casarini individua lo stesso momento storico: “Mi sembra che uno dei momenti ‘topici’ degli ultimi anni, che può rappresentare bene un ‘cambio di narrazione’ da parte delle istituzioni in merito al fenomeno migratorio, si possa ascrivere alla famosa intervista su Repubblica del 29 agosto del 2017 dell’allora ministro degli interni Marco Minniti nella quale affermava ‘sui migranti ho temuto per la tenuta democratica del Paese’”.
Proprio a questo proposito, quanto peso hanno avuto l’aumento del numero degli arrivi, sulle nostre coste, di persone in percorso migratorio e – appunto – la ‘paura per la tenuta democratica’ e quanto invece la progressiva chiusura degli Stati europei?
Ancora Luca Casarini: “Ci voleva la guerra in Ucraina per far capire che la questione dei ‘numeri’ è tutta una montatura. Siamo un Paese di 60 milioni di abitanti in un continente di 500 milioni. Stiamo parlando di arrivi alle frontiere, anche negli anni di punta che non sono gli ultimi dieci, di numeri gestibilissimi. Non vi sono invasioni, non vi sono esodi di popolazioni intere, niente come ciò che abbiamo gestito in una settimana per l’Ucraina. E comunque, il fenomeno dello spostamento di esseri umani nel mondo riguarda poco meno di 100 milioni di persone. In un pianeta di 7 miliardi.
È un fenomeno strutturale, permanente e incentivato solo e solamente dalle scelte politiche, economiche ed energetiche della parte che si mangia l’80% delle risorse disponibili e che è il 20% della popolazione mondiale, concentrata nel Nord del pianeta. Di fronte a questo abbiamo anche il coraggio di meravigliarci? Di fare le ‘povere vittime’ dell’immigrazione incontrollata? Inondiamo il mondo di armi e di guerre, devastiamo interi Paesi per succhiargli petrolio, gas, diamanti, minerali e li riduciamo a dei luoghi invivibili, dove non si può nemmeno piantare una patata, e poi ci lamentiamo?
Produciamo tanta CO2 da alzare la temperatura globale fino a desertificare, ogni giorno, centinaia di chilometri quadrati di terre. Disboschiamo le grandi foreste al ritmo di una Lombardia al giorno, ma siamo davvero senza vergogna a tal punto da proferire ancora parola su questo?”.
“Adempiere gli obblighi di soccorso sanciti da un Regolamento europeo” – aggiunge Fulvio Vassallo Paleologo – “non può comportare rischi per la tenuta democratica di un Paese. Sono comunque molto più gravi i rischi, che spesso comprendono il sacrificio della vita umana in mare, per le persone abbandonate in acque internazionali senza che gli Stati inviino mezzi di soccorso o assumano i compiti di coordinamento delle operazioni di salvataggio previsti dalle Convenzioni internazionali”.
Motivi del perdurare della criminalizzazione (nonostante le evidenze)
La criminalizzazione, giocata su più tavoli, ha riguardato e continua a riguardare attiviste e attivisti, associazioni, organizzazioni (peraltro altrimenti molto stimate, come Medici Senza Frontiere) impegnate nella solidarietà, nel soccorso, nell’aiuto alle persone in percorso migratorio.
E questo nonostante alcune palesi evidenze, più volte dimostrate, come il fatto che – senza il soccorso operato da ONG e attivisti (in supplenza degli Stati assenti) – le persone sarebbero probabilmente morte (il Mediterraneo è la rotta migratoria più mortale al mondo). O come il fatto che il numero di persone che tenta di attraversare il Mediterraneo verso l’Europa non dipende dall’eventuale presenza di navi SaR al largo (cfr. ricerche ISPI sul non-pull-factor delle navi delle ONG) . O come il fatto che, nel complesso delle persone che mettono piede sul territorio italiano all’interno di un percorso migratorio, il numero di persone che sbarcano da una nave SaR di una ONG è sostanzialmente marginale.
Perchè, nonostante queste palesi evidenze e nonostante finora tutte le (tante) accuse si siano rivelate infondate e strumentali, la retorica diffusa, la propaganda politica e l’attenzione mediatica continuano ad attaccare – anche attraverso fake news e hate speech – le ONG o comunque chiunque (professionista, attivista, associazione, ecc) operi nel campo della solidarietà?
Risponde Fulvio Vassallo Paleologo: “Le politiche di contrasto della libertà di emigrazione e del diritto di chiedere asilo in un Paese sicuro, in tempi in cui le guerre permanenti e le devastazioni ambientali privano i popoli di qualsiasi speranza di futuro, sono il terreno sul quale Governi di segno diverso hanno progressivamente eroso il principio di eguaglianza tra le persone e la portata effettiva dei diritti umani. Le frontiere sbarrate non hanno solo precluso l’ingresso ai migranti in fuga, ma hanno anticipato, o riprodotto, nuovi muri su scala internazionale riportando in auge la corsa agli armamenti e la divisione del mondo in blocchi contrapposti. Queste politiche hanno utilizzato la falsificazione come strumento di attacco contro le persone in movimento e poi contro quanti prestavano loro assistenza.
E alla fine hanno portato ad accordi con Stati nei quali non vi era alcuna garanzia per i diritti umani, accordi che oggi pesano anche per la loro forza di ricatto sulla soluzione delle crisi belliche più virulente. Le politiche di sicurezza nazionale, o di difesa dei confini hanno di fatto cancellato il diritto di chiedere asilo (sancito dalla Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati come diritto di accedere ad un territorio sicuro) e hanno creato le premesse per la discriminazione e la marginalizzazione degli ultimi arrivati, fino alla criminalizzazione dei sopravvissuti e dei soccorritori”.
Le libertà movimento e di richiedere asilo, adesso richiamate dall’avvocato Paleologo e presenti (articoli 13 e 14) nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, sono anche oggetto dell’appello “Passaporti, basta privilegi” promosso proprio da Voci Globali per rivedere la politica dei visti e garantire libertà di movimento a tutti i cittadini del mondo.
Conclusioni: tra cause, razzismo e azioni
In conclusione chiediamo, ancora a Fulvio Vassallo Paleologo, quale sia la sua personale visione sulle reali cause del fenomeno di criminalizzazione della solidarietà.
“In questa fase storica sembrano destinate ad aumentare le diseguaglianze tra i migranti forzati a seconda del Paese di origine, e addirittura del colore della pelle, pure se provenienti dall’Ucraina. Ma sarebbe davvero impossibile garantire a tutti i migranti forzati in arrivo in Italia un trattamento equo ed un’accoglienza sul territorio nazionale coerenti con il riconoscimento dei loro diritti fondamentali sanciti dalle Convenzioni internazionali?
Invece si alimenta la retorica dell’invasione, adesso anche con un’allarme sulla crisi alimentare globale derivante dal blocco dei porti ucraini. Come se la devastazione ambientale prodotta da decenni di sfruttamento da parte dei Paesi più ricchi non avesse già prodotto la migrazione forzata di milioni di persone, private del loro ambiente vitale. E molto spesso la maggior parte delle persone che fuggono dalle aree di crisi rimane nei Paesi limitrofi e non trova risorse e canali di accesso verso l’Europa.
Non esistono canali legali di ingresso e il rafforzamento dei trafficanti internazionali è una conseguenza diretta delle politiche migratorie dei paesi di destinazione che puntano tutto sul ‘contrasto dell’immigrazione clandestina’, senza consentire visti di ingresso e vie di fuga per i potenziali richiedenti asilo”.
L’avvocato Paleologo ha fatto riferimento alle diseguaglianze tra i migranti. Dato che Mediterranea è stata protagonista anche di un altro tipo di azione solidale dal basso, quella dei #SafePassage di sostegno alla popolazione Ucraina, chiediamo a Luca Casarini se ha notato, dal punto di vista politico e mediatico, un diverso atteggiamento verso Mediterranea rispetto a quello “subito” per via delle missioni in mare.
“Sì”, risponde Casarini. “Loro sono bianchi di pelle. Sono profughi di una guerra dove siamo alleati con lo Stato del loro Paese di origine. Loro sono strumentalizzati al contrario: quanto è brava l’Europa, l’Italia. Invece a Sud ci sono neri, africani, il simbolo razzista per antonomasia. Eppure sono tutti e tutte profughi. Noi siamo anche in Ucraina, perché la lotta a fianco della popolazione civile di un Paese aggredito da un esercito è la nostra bussola, la nostra resistenza. Ma proprio per questo lottiamo contro la disparità di trattamento delle persone. Tutti devono essere trattati come trattiamo i profughi ucraini”.
Concludendo, chiediamo a Luca Casarini di consegnarci un messaggio per contrastare la rassegnazione alle ingiustizie anche quando la loro forza e pervasività sono (o sembrano) soverchianti.
“La ‘Cospirazione del Bene’: è questo il messaggio. Creare un mondo diverso, non avere paura di opporsi ai potenti, alle loro leggi sbagliate, ai loro criminali modi di violare quelle giuste. Disobbedire a questo orrore, e obbedire a qualcosa di più grande, l’amore per i nostri fratelli e sorelle che soffrono. Noi di Mediterranea diciamo: ‘Noi li soccorriamo, loro ci salvano’. È così. Per salvarci tutti e tutte, dobbiamo lottare, combattere con negli occhi il sorriso di un bambino che ti abbraccia dopo che l’hai tirato su dall’acqua. Niente è più importante”.
Niente è più importante.
Cas tossici – Ciac onlus
“Dopo vent’anni bisogna abbandonare e smantellare la logica emergenziale dei Centri d’Accoglienza Straordinaria (CAS) e riformare il sistema d’accoglienza per rifugiati e richiedenti asilo“. A lanciare l’appello al governo, nel corso di una conferenza stampa a Roma, è il Tavolo asilo immigrazione, che riunisce le organizzazioni della società civile impegnate per la promozione e la tutela dei diritti delle persone di origine straniera nel nostro Paese. All’incontro ha partecipato anche il direttore di Ciac Michele Rossi che ha curato una importante ricerca sul sistema di accoglienza in Italia “Il sistema che ancora non c’è“.
Durante la conferenza è stato anche presentato un documento con le proposte di riforma dell’attuale sistema di accoglienza.
“Venti anni fa il nostro parlamento introduceva per legge il Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati (Sprar), il primo sistema pubblico di accoglienza per chi arrivava in Italia in fuga da guerre e persecuzioni, oggi ribattezzato Sai (Sistema d’accoglienza e integrazione). Ma quel progetto, pur importante, è rimasto sperimentale, non è mai diventato un sistema unico. Si basa ancora sull’adesione volontaria dei Comuni“, spiega Gianfranco Schiavone (Asgi). Tradotto, una “riforma incompiuta“, rivendicano le associazioni.
Lo mostrano anche i numeri: “Il Sai continua a rappresentare meno di un terzo del totale dei posti in accoglienza in Italia. Di gran lunga più ampio è quel sistema gestito dalle prefetture, Centri d’Accoglienza Straordinaria (Cas), che risponde all’eterna emergenza, troppo spesso determinata dalla mancanza di programmazione da parte del governo”, spiega anche Filippo Miraglia, responsabile immigrazione Arci. Senza considerare anche come sia presente un problema di trasparenza: “Dal Viminale mancano report su numeri e condizione sociali di chi accede a questi percorsi. In realtà non sono monitorati, dato che i Cas sono pensati come ‘parcheggi, depositi umani‘.
Così, spiega il Tavolo Asilo Immigrazione, “le criticità del nostro sistema d’accoglienza ricadono ogni giorno sui territori e sulle organizzazioni della società civile che gestiscono direttamente le attività con i beneficiari presenti nei diversi progetti”. Per questo l’appello è rivolto all’esecutivo, per riformare il sistema d’accoglienza: “Bisogna fare un trasferimento di funzioni amministrative ai Comuni, non ha senso che a decidere sull’ordinario siano le prefetture. Nessun sindaco dovrebbe poter alzare la mano e dire ‘io questo non lo faccio’ e magari fare propaganda, per fini elettorali”, sottolinea Schiavone nel corso della conferenza. E ancora: “Oggi, invece del sistema diffuso, vengono premiate le grandi concentrazioni e i bassissimi standard. Invece va superata l’ottica delle gare al ribasso“.
Certo, resta un problema di ‘volontà politica‘: “L’ottica emergenziale fa sempre comodo, crea caos e percezione di insicurezza e viene sfruttata dal punto di vista elettorale”, denunciano le associazioni. “Serve più coraggio dalle forze politiche, ma anche di tanti sindaci, rispetto a chi, tra questi, considera l’accoglienza qualcosa di impopolare”.
Fonte: Ciaconlus.org
Dopo Melilla – Gian Andrea Franchi
Lo sproporzionato rapporto fra la nostra resistenza quotidiana contro i confini in piazza del mondo a Trieste (piazza della Libertà, dove ogni giorno l’associazione Linea d’ombra autogestisce un’accoglienza per i migranti della rotta balcanica) e la strage di Melilla del 24 giugno è lievemente attenuata dal fatto che siamo ogni giorno in questa piazza da oltre due anni e mezzo. I confini mostrano quello che è l’autentico potere dello Stato, oltre il velo stracciato della democrazia: ancora l’arcaico potere di vita e di morte, di cui la strage di Melilla è un esempio visibile molto più delle decine di migliaia di morti nel Mediterraneo negli ultimi quindici anni, ma anche dei morti lungo le piste balcaniche, di cui abbiamo notizia ogni tanto dai nostri incontri quotidiani.
Il confine, inoltre, è anche un micidiale pettine, che lascia passare quel tanto che serve di manodopera a basso prezzo o semiservile, di cui pur l’Europa ha bisogno, che spiega l’uso dei campi di Bosnia, come quello disperato fra i monti di Lipa, che probabilmente diventerà un campo chiuso.
La strage di Melilla va inquadrata nella Nuova Europa, ridefinita dalla guerra in Ucraina, che ha la sua rappresentazione simbolica nell’abbraccio fra il rappresentante della Nato Jens Stoltemberg con Recep Tayyip Erdoğan, cui le democratiche Svezia e Norvegia si accingono a vendergli i curdi finora ospitati nel loro territorio. Questo è un fatto epocale: l’Europa, a comando statunitense, sta assumendo una nuova forma militare e politica aggressiva, che ha il suo aspetto economico nell’importanza dell’industria degli armamenti e nella ridefinizione degli approvvigionamenti di idrocarburi. Mentre riduce al minimo la sanità e l’istruzione pubbliche. Con questa Europa, che ha stracciato ogni velame democratico, d’ora in poi, occorre fare i conti.
Lo ha espresso nel migliore dei modi il capo di Stato Maggiore britannico, generale Patrick Sanders, in quella che è una sorta di dichiarazione di guerra – come la definisce l’esperto militare generale Fabio Mini in un articolo sul Fatto Quotidiano del 1° luglio:
“Il conflitto in Ucraina, annuncerà, credo, un cambiamento di paradigma nel modo in cui la Nato provvede alla deterrenza collettiva; da una dottrina di reazione alle crisi a una di dissuasione. Questo è il principio al centro dell’operazione di mobilitazione. La Russia deve sapere che non può ottenere una rapida vittoria localizzata, che in qualsiasi circostanza e in qualsiasi lasso di tempo perderà se si scontra con la Nato”.
E quindi il discorso si volge anche alla Cina, che è poi l’obbiettivo più importante, stabilendo una divisione di compiti fra l’Europa-Nato e gli Usa che dovrebbero garantire “la protezione dei nostri valori e interessi nell’Indo-Pacifico”.
Questo dunque è il futuro che ci aspetta: da un lato, una nuova aggressiva politica “occidentale” a guida statunitense nei confronti di una controparte diretta dalla Cina, e come conseguenza una politica in cui il peso dell’industria militare ed estrattiva diverrà ancora più importante, abbandonando ogni preoccupazione per la devastazione dell’ambiente vitale. Il futuro che ci vogliono imporre può essere definito da un lessema di Günther Anders: “totalitarismo morbido”, che ritengo peggiore del totalitarismo rigido di tipo nazifascista, che è più feroce ma anche più fragile, e alla lunga intollerabile, mentre il totalitarismo morbido è come una nebbia velenosa che ti circonda, ti abbraccia e respira con te.
https://comune-info.net/dopo-melilla
I migranti tengono in vita un miliardo di persone… nonostante le difficoltà inenarrabili – Baher Kamal
Ecco un altro dato: 230 milioni di lavoratori migranti sono oggi un’importante fonte di salvezza per un miliardo di persone che muoiono di fame nelle comunità più povere del mondo, oltre che un’ancora di salvezza vitale per l’economia dei loro Paesi d’origine.
Le rimesse dei lavoratori migranti ammontano a oltre 600 miliardi di dollari all’anno, un importo tre volte superiore all’intero aiuto pubblico allo sviluppo globale, che oggi si aggira intorno ai 180 miliardi di dollari.
Non solo: secondo il Migration and Development Brief della Banca Mondiale, pubblicato l’11 maggio scorso, i flussi di rimesse ufficialmente registrati verso i Paesi a basso e medio reddito dovrebbero aumentare del 4,2% quest’anno, raggiungendo i 630 miliardi di dollari.
Allo stesso tempo, le loro rimesse superano già di sei volte i “profitti” – stimati in circa 100 miliardi di dollari all’anno – realizzati dalle bande criminali, dai trafficanti di esseri umani e dagli sfruttatori sessuali.
Inoltre, i flussi di rimesse dei lavoratori migranti sono quintuplicati negli ultimi vent’anni, svolgendo una funzione anticiclica durante le fasi di recessione economica dei Paesi destinatari, secondo la Giornata internazionale delle rimesse familiari che si celebra quest’anno il 16 giugno.
Ovviamente, questo è il caso dei migranti “privilegiati”, quelli che sono riusciti a sopravvivere e a trovare un lavoro. Decine di migliaia di migranti non hanno la stessa “fortuna”.
Viaggi infernali
Al giorno d’oggi, sempre più milioni di esseri umani sono costretti a migrare, a causa di conflitti armati, disastri climatici causati dall’uomo, gravi siccità, inondazioni devastanti, forte indebitamento, fame, riduzione dell’assistenza umanitaria, persecuzioni politiche. E morte.
Infatti, ogni anno si registrano migliaia di morti tra i migranti durante i loro viaggi via terra e via mare, in particolare nel Mar Mediterraneo, nel tentativo di raggiungere l’Europa, vista come la terra promessa della democrazia, dei diritti umani e dell’uguaglianza.
Il Golfo
Prendiamo il caso dello Yemen. Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM), nei primi cinque mesi del 2022 almeno 27.800 persone hanno attraversato il Corno d’Africa per raggiungere lo Yemen devastato dalla guerra, un numero superiore al totale di coloro che hanno compiuto il viaggio per tutto l’anno scorso lungo quella che era la rotta migratoria marittima più trafficata al mondo prima della COVID-19.
L’aumento degli arrivi è “motivo di allarme” in un Paese alle prese con l’ottavo anno di guerra.
Quando arrivano in Yemen, i migranti affrontano viaggi pericolosi verso i Paesi del Golfo in cerca di lavoro, riferisce l’OIM. Spesso viaggiano attraverso i fronti del conflitto e devono affrontare “gravi violazioni dei diritti umani, come la detenzione in condizioni disumane, lo sfruttamento e i trasferimenti forzati attraverso le linee di controllo”.
“Le donne e le ragazze riferiscono spesso di aver subito violenze di genere, abusi o sfruttamento, di solito per mano di trafficanti e contrabbandieri”.
Il mare più mortale
Nel frattempo, i migranti che rischiano la vita per attraversare il Mediterraneo verso l’Europa su imbarcazioni inconsistenti, spesso pilotate da trafficanti di esseri umani, rischiano di morire più di quanto non sia accaduto per anni, come ha riferito l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) il 10 giugno 2022.
Gli ultimi dati visualizzati dall’UNHCR mostrano che lo scorso anno ci sono stati 3.231 morti o dispersi in mare, con un forte aumento rispetto al 2020.
La situazione è una “tragedia diffusa, di lunga durata e ampiamente trascurata”, ha dichiarato l’UNHCR.
L’agenzia delle Nazioni Unite ha sottolineato che, sebbene alcuni di coloro che attraversano il Mediterraneo vogliano una vita migliore e un lavoro migliore, molti fuggono da conflitti, violenze o persecuzioni.
Il costo disumano trascurato
Durante i loro viaggi verso la vita, i migranti sono facili prede di bande criminali, trafficanti di esseri umani e contrabbandieri, e sono vittime di un crudele sfruttamento e della crescente ondata di odio e xenofobia, sempre più spinta dalla maggior parte dei politici, per non parlare di quelli di destra e di estrema destra.
Fortemente utilizzati come argomento elettorale nei Paesi più industrializzati, i migranti sono ora percepiti dagli elettori come una minaccia al proprio benessere e come un pesante fardello di cui sbarazzarsi, come se questo alleviasse l’impatto di pandemie che non hanno causato, di guerre che non hanno scatenato, di disastri climatici che non hanno generato e dell’incapacità di affrontare i continui ostacoli economici, l’inflazione, la recessione, eccetera.
Il costo economico che i migranti e le loro famiglie sono costretti a pagare per i loro viaggi di sopravvivenza spesso ha come prezzo un elevato indebitamento.
Nel frattempo, i contrabbandieri chiedono sempre più denaro.
Per esempio, le attività di contrabbando nel passaggio via mare verso l’Italia sono quasi raddoppiate, mentre la tariffa per questo viaggio è passata da 6.000 a 12.000 euro, secondo un rapporto della piattaforma no-profit DoSomething sulla tratta di esseri umani.
Spazzati via
In questo momento, diversi Paesi europei stanno spazzando via migranti, rifugiati e richiedenti asilo.
In quella che assomiglia molto a un’operazione di “spolvero” volta a sbarazzarsi di migranti, rifugiati e richiedenti asilo spedendoli lontano, il processo di “esternalizzazione” di milioni di vittime di guerre, povertà, crisi climatiche e persecuzioni politiche sta crescendo rapidamente.
IPS ha già riferito di questa pratica in quattro Paesi europei. Per vedere i rapporti specifici sui casi di Regno Unito e Grecia, Ungheria e Polonia, cliccare sui rispettivi link.
Come vengono spese le rimesse dei lavoratori migranti?
Le Nazioni Unite riportano quanto segue:
Le rimesse rappresentano in media fino al 60% delle famiglie dei destinatari e in genere più che raddoppiano il reddito disponibile di una famiglia e aiutano a far fronte all’incertezza, permettendo loro di costruire un patrimonio.
Le analisi condotte su 71 Paesi in via di sviluppo mostrano un significativo effetto di riduzione della povertà delle rimesse: un aumento del 10% delle rimesse pro capite porta a una diminuzione del 3,5% della quota di poveri nella popolazione.
Nelle comunità rurali, la metà delle rimesse viene spesa per spese legate all’agricoltura.
Il reddito aggiuntivo aumenta la domanda di cibo da parte delle famiglie riceventi, incrementando la produzione alimentare interna e migliorando l’alimentazione, in particolare dei bambini e degli anziani.
L’investimento del reddito dei migranti in attività agricole crea opportunità di lavoro.
Migranti sotto tiro
Ultimo aspetto, ma non meno importante: in diversi Paesi europei la domanda di lavoratori è aumentata.
Nel caso specifico della Spagna, ad esempio, oltre al settore edile, hotel, caffetterie, ristoranti e altri settori che dipendono dal turismo lamentano una crescente carenza di camerieri, addetti alle pulizie, personale domestico e così via.
La spiegazione fornita è che i cittadini spagnoli non sono più disposti ad accettare lavori altamente precari, salari bassi, contratti stagionali e orari di lavoro troppo lunghi e faticosi.
Una rapida conclusione sarebbe quella di permettere a un maggior numero di immigrati di svolgere il lavoro. Ma…
… Ma nella maggior parte dei Paesi industrializzati – e più ricchi – i migranti sono “accusati” dalla destra in ascesa e dai partiti politici di estrema destra di “rubare” posti di lavoro, di ricevere assistenza umanitaria, privando così i disoccupati nazionali, i giovani e gli anziani, e di “sprecare” i soldi dei cittadini… per non parlare del fatto che sono la causa di crimini e di un lungo eccetera.
Che mondo!
MIGRANTI A SANT’ ALESSIO ( prov. Messina) sbarcano, il veliero sbatte sugli scogli.
I cittadini accorrono per portare sostegno.
Il generoso popolo siciliano ( al di là delle propagande propagandate) contrasta i razzisti delle destre che gridano all’odio verso gli altri Esseti Umani considerati “diversi”.
https://palermo.repubblica.it/cronaca/2022/09/10/news/santalessio_barca_di_migranti_sincaglia_negli_scogli_i_cittadini_si_mobilitano_per_aiutarli-365020208/
Sulla pagina facebook della Rete Antirazzista Catanese – in data 8 settembre – così si legge:
WELCOME REFUGEES!
Questa notte, sulla spiaggia di Sant’Alessio Siculo, è successo qualcosa che, da queste parti, in tante, tanti, ricorderemo per parecchio tempo.
Intorno alle 22.00, mentre io e la mia compagna camminavamo sul lungomare, abbiamo notato una barca, lunga una decina di metri, con a bordo poco meno di un centinaio di persone che si avvicinava verso il bagnasciuga. Nemmeno il tempo di avvicinarci e un boato ha squarciato il silenzio che c’era tutto attorno.
La barca si era incagliata a qualche decina di metri su degli scogli. E subito dopo, a decine di persone hanno iniziato a buttarsi dalla barca per raggiungere a nuoto la costa.
Scesə immediatamente in spiaggia, siamo statə catapultate direttamente in uno scenario pazzesco.
C’erano tantissimə ragazzinə che a fatica stavano raggiungendo la spiaggia, qualcunə chiedeva aiuto in inglese, altrə erano riversə a terra con respiri affannosi.
Abbiamo portato loro dell’acqua comprata nell’unico ristorante aperto in quel tratto e provato a tranquillizzare tuttə in inglese. Poco alla volta, altre persone si sono avvicinate, abbiamo portato altra acqua, poi vestiti, qualcuno del cibo. Davamo notizie, asciugavamo i loro telefoni, davamo le primissime informazioni. Ho visto ragazze, donne del paese, che prendevano la mano di alcune ragazzine per portarle in luoghi più discreti, stare con loro, aiutarle a cambiarsi. Ho visto giovanissime con gli occhi lucidi provare a rasserenare altre.
F. ha 16 anni, viene dall’Afghanistan, assieme alla sorella di 13 anni. Erano in mare da giorni, partitə con poco meno di un centinaio di altri e altre connazionali dalla Turchia, con questa barca. Bagnate, spaventate, continuavano a chiederci se ora erano al sicuro. E mentre le prime pattuglie della polizia arrivavano, i suoi occhi si facevano sempre più fitti e stretti con i nostri.
La metà di loro aveva tra i 13 e i 17 anni, le altre, gli altri comunque meno di 30.
In poco meno di un’ora, la spiaggia si era riempita di cittadini e cittadine a dare una mano. In maniera completamente autogestita, direi anche spontanea, in molti e molte davano una mano.
Se non fosse stata per l’autorganizzazione di tuttə noi, beh, non so come sarebbe andata a finire questa nottata.
Ho già scritto abbastanza, e forse anche troppo, per quanto riguarda il “noi”.
Sta di fatto che intorno alle due di notte, un bus ha caricato una cinquantina di persone per portarle a Messina. Lì sarebbero poi state spostate in alcuni centri d’accoglienza. E sta di fatto che loro, quelle persone, quasi tutte minorenni, avevano una paura fottuta, i loro occhi erano terrorizzati. Continuando a dirci ” No Camp, true? ” E ancora, sta di fatto, che in moltə ci chiedevano di chiamare famigliari e amici.
Questo post è molto confuso, lo so. Ho ancora in corpo una notte insonne e tanti, troppi pensieri per la testa.
Rimane solo tanta rabbia, tanto sconforto, tanta umanità, tanto amore. E tanta semplice solidarietà.
E ancora, rimangono dentro di me tante domande, tanti punti interrogativi. Abbiamo fatto tutto il possibile? E adesso questi ragazzi, queste ragazze dove sono? Saranno libere di poter scegliere la loro vita? Potranno andare dove vogliono e come vogliono? E i loro diritti? Chi si prenderà cura di F? Ed è giusto pensare queste cose? È giusto pensare o chiedersi chi sarà a prendersi cura di loro? E se avessimo sbagliato? E se forse non avremmo dovuto agire così? E abbiamo fatto bene a dare i nostri numeri di telefono?
Non lo so, continuo a farmi tante domande. Non ho certezze.
So solo che il sistema accoglienza è completamente una merda. Che bisogna ripensare e riscrivere tutto. Che le persone devono essere libere di spostarsi, che ogni vita ha una storia, che ogni storia è dignità e autodeterminazione.
E che nessunə è illegale.
NESSUNO. NESSUNA.
In bocca al lupo ragazzə, in bocca al lupo per davvero.
Luca e Michela
foto sbarco: https://www.facebook.com/…/pcb…/2136726106489152