I migranti «dimenticati»

di Sergio Bontempelli (*)

Nel dibattito sugli sbarchi di profughi, ci siamo “dimenticati” degli immigrati cosiddetti economici: discriminati, esclusi, esposti a una legge tra le più restrittive e irrazionali d’Europa

MauroBiani-migrantiOrdine

Da qualche anno a questa parte, quando si parla di «immigrazione», si fa riferimento agli sbarchi sempre più frequenti di profughi, richiedenti asilo e rifugiati sulle coste del Sud Italia. Ed è normale che sia così: perché senza dubbio, dopo le Primavere Arabe e l’avvio di conflitti su larga scala nell’area mediorientale e maghrebina, le migrazioni forzate dalla sponda sud del Mediterraneo hanno avuto una clamorosa impennata, che contrasta con la relativa stagnazione delle migrazioni economiche classiche.

E tuttavia, viene da chiedersi che fine abbiano fatto i lavoratori e le lavoratrici provenienti dalla Romania, dall’Albania, dall’Ucraina o dal Marocco, che fino a qualche anno fa erano al centro delle cronache (e delle sparate più o meno razziste di politici e commentatori). Scomparsi dalla visibilità pubblica, sembra quasi che non esistano più: invece esistono eccome. E la loro vita è tutt’altro che rosea.

I più colpiti dalla crisi

Da anni, i principali istituti di ricerca segnalano infatti che gli immigrati sono i più colpiti dalla difficile situazione economica in cui versa il nostro paese. Secondo l’Istat, per esempio, a fine 2014 il tasso di disoccupazione dei lavoratori stranieri (al 16,8 per cento) era cresciuto di oltre cinque punti dall’inizio della crisi: e tra gli uomini, l’aumento è stato doppio rispetto a quello registrato tra gli italiani.

Sempre secondo l’Istituto di Statistica, tra i nuclei familiari più poveri – quelli che non hanno un reddito da lavoro, né godono di prestazioni pensionistiche – il 14,9% è costituito da famiglie immigrate: una percentuale quasi doppia rispetto al tasso di stranieri residenti. Non a caso, i cittadini non italiani sono i principali “clienti” di alcune prestazioni assistenziali, quali il “bonus Renzi” destinato alle famiglie indigenti.

In queste condizioni, non stupisce che molti cittadini stranieri decidano di lasciare l’Italia, tornando ai loro paesi di origine oppure avviando una “seconda migrazione” verso le aree più ricche dell’Europa continentale (Francia e Germania in primis). E tuttavia, andarsene non è sempre così facile: molti vivono in Italia da anni, a volte anche da decenni. Hanno messo su famiglia, hanno fatto figli, si sono radicati sul territorio. Tentare la fortuna in un altro paese significa ricominciare tutto da capo, magari a un’età in cui non si è più giovanissimi e le energie non sono quelle di prima.

Perdere il lavoro e il permesso di soggiorno

Così, mentre i più audaci provano ad andarsene, chi rimane cerca di “sbarcare il lunario”. E deve scontrarsi con le rigidità del mercato del lavoro, ma anche con una burocrazia dell’immigrazione sempre più restrittiva e ostile. Già, perché periodicamente – ogni anno o, per i più fortunati, ogni due anni – il permesso di soggiorno va rinnovato. E la legge (la famosa “Bossi-Fini”, oggi così pluri-emendata e modificata che dovrebbe chiamarsi in altro modo: si veda la lunghissima lista di aggiornamenti al “Testo Unico” dal 2002 ad oggi) prevede requisiti molto rigidi, ai quali si aggiungono le prassi delle Questure, spesso del tutto svincolate dalla normativa.

Così, per esempio, secondo la legge lo straniero che perde il lavoro ha diritto a rimanere in Italia per non più di un anno: ma, soprattutto nei distretti industriali più colpiti dalla crisi, trovare un’altra occupazione è molto difficile, e dodici mesi non bastano. I più fortunati riescono a rinnovare comunque il documento, magari trasformandolo in un permesso per “motivi familiari” legato al coniuge (se questo lavora e ha un reddito sufficiente): tutti gli altri, invece, sono condannati a diventare irregolari se non trovano in fretta un altro contratto di lavoro.

Secondo l’ultimo Dossier Idos, nel solo anno 2014 i permessi di soggiorno scaduti e non rinnovati sono stati più di 150mila. Un numero allarmante, che dovrebbe spingere a modificare la normativa – come chiedono da tempo i sindacati – in modo da consentire la permanenza in Italia per un tempo più lungo.

Questure che fanno di testa loro…

Poi ci sono le Questure che, per così dire, fanno di testa loro. Per una lunga tradizione molto italiana, infatti, la gestione dei fenomeni migratori è da sempre affidate alla prassi, alle circolari ministeriali, alle “indicazioni” (non sempre esplicite) dei funzionari addetti, più che alle leggi e ai provvedimenti normativi veri e propri [si veda lo splendido volume scritto di recente da Iside Gjergji].

Dovrebbero ricordarselo i pur generosi attivisti che – giustamente, sia chiaro – rivendicano a gran voce l’abolizione della “Bossi-Fini”: in Italia non basta cambiare una legge, se non cambiano le mentalità e i comportamenti di Questure, Prefetture e uffici interessati. Ma questo è un altro discorso, e ci porterebbe lontano.

Prassi illegittime delle Questure: a Rimini e a Pisa per i rinnovi, a Roma e Milano per le cd. “carte di soggiorno”

Torniamo a noi. In questi anni molte Questure hanno fatto di testa loro, si diceva, e hanno reso la vita dei migranti ancora più difficile. Succede così – solo per fare qualche esempio scelto tra i tanti – che le Questure di Rimini e di Pisa blocchino i permessi di soggiorno ai venditori ambulanti, anche se nel frattempo questi hanno trovato un lavoro regolare e hanno tutti i requisiti per il rinnovo. E succede anche – a Modena, a Roma e a Milano – che la Questura revochi, a chi è disoccupato, il permesso per lungosoggiornanti (la cosiddetta “carta di soggiorno”), che per legge è a tempo indeterminato e può essere tolta solo in caso di reati molto gravi.

e norme europee disattese

Per la Corte di Giustizia i permessi di soggiorno costano troppo: ecco la sentenza

A proposito di Carta di Soggiorno, il 2 Settembre scorso la Corte di Giustizia della UE aveva dichiarato eccessiva la “tassa” richiesta agli immigrati per i permessi, particolarmente gravosa proprio nel caso dei lungo-soggiornanti (200 euro, a cui si aggiungono le 73,50 euro di spese “amministrative e postali”…). Nonostante le reiterate proteste di associazioni e sindacati, il Governo non ha mai dettato disposizioni per ridurre i costi dei documenti. Eppure, lo slogan ce lo chiede l’Europa è spesso invocato come motivo di urgenza, quando si tratta di tagliare salari e pensioni: si vede che l’europeismo degli italici governi funziona, per così dire, a geometria variabile.

Frontiere chiuse e soggiorni irregolari

Infine, a questa panoramica – necessariamente parziale – bisogna aggiungere il pressoché totale blocco degli ingressi per lavoro: di fatto, le frontiere italiane sono quasi completamente chiuse. Da tempo – almeno dal 2012 – il Governo non emana più i decreti annuali sulle “quote”, oppure si limita a prevedere l’ingresso di lavoratori stagionali “a tempo” (che devono tornare a casa dopo nove mesi), come è accaduto quest’anno.

Benché la pressione migratoria sia fortemente diminuita – sono sempre meno gli stranieri che scelgono il nostro paese – l’assenza totale di opportunità di ingresso crea seri problemi. Anche perché si accompagna ad una legge – la pluriemendata Bossi-Fini di cui sopra – che impedisce la regolarizzazione in loco: chi si trova in Italia senza documenti non può ottenere un permesso di soggiorno, nemmeno se lavora, nemmeno se dimostra di potersi mantenere in modo lecito e autonomo…

Così, gli immigrati che hanno perso i documenti, o quelli che sono arrivati in modo irregolare, non hanno alcuna opportunità di mettersi in regola e di ottenere il sospirato permesso. Una situazione che rischia di creare un vero e proprio serbatoio di emarginazione sociale e di irregolarità.

(*) da http://www.a-dif.org, l’associazione “Diritti e friontiere”. L’immagine, ripresa invece dalla rete, è di Mauro Biani

 

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