I muri e le statue che cadono in Cile
È dalla metà di ottobre, quando il governo ha dichiarato lo stato di emergenza e avviato una repressione di inaudita violenza, che il Cile vive una lunga e drammatica rivolta contro le abissali disuguaglianze del paese, le discriminazioni di classe, il razzismo contro le popolazioni indigene e l’oppressione quotidiana e sanguinosa del patriarcato.
di Raúl Zibechi (*)
La centrale Plaza de la Dignidad, nome con il quale la rivolta cilena ha ribattezzato Plaza Italia, sembra una zona di guerra. Nei paraggi i commerci sono chiusi per vari isolati, ornati da scritte multicolori che denunciano la repressione, incitano alla rivolta e affrontano le più diverse oppressioni. I giovani e le giovani non la vogliono abbandonare, anche se ne rimangono di meno, perché sostengono che il giorno in cui la protesta abbandonerà la strada, tutto sarà perduto. Una logica implacabile, ma difficile da sostenere dopo 40 giorni di protesta.
La maggioranza delle centinaia di migliaia di scritte che si trovano su ogni muro in tutto il Cile, denunciano la violenza dei Carabinieri. “Ci violentano e ci uccidono”. “Non più abusi”. “Poliziotti assassini”. “Poliziotto maledetto” e così all’infinito. Su una lacrima di sangue, si può leggere: “Vivere in Cile costa un occhio della faccia”. Sarebbero necessarie migliaia di pagine per registrarle tutte.
Il quotidiano La Tercera afferma che ci sono 450 mila metri quadrati di muri dipinti che, dice uno dei portavoce della destra, “sporcano Santiago”. Come di solito succede, la destra concede maggiore importanza alle perdite materiali che ai 230 occhi accecati dai pallini e alle quasi tre decine di assassinati, fatto che svela una concezione del mondo che non ha posto negli esseri umani, riconvertiti dal neo-colonialismo in bestie da soma come nei peggiori tempi del colonialismo.
Abbondano anche i muri femministi, dove si attacca frontalmente la violenza machista e il patriarcato. Graffiti in toni violetti e lilla che si mescolano con le giaculatorie contro la repressione. “La colpa non era mia, né dove stavo, né come vestivo. Il violentatore sei tu”, accusano i muri.
Mi colpisce il cartello che ha collocato una comunità di abitanti sull’Avenida Grecia: “Torniamo ad essere popolo”. Così semplice come profondo, giacché denuncia il neoliberalismo cileno che ha trasformato la gente, a malapena, in consumatori e consumatrici. Tutto un programma politico e un’etica di vita in quattro parole.
Le statue sono un tema a parte. Si dice che siano più di 30 le statue di militari e conquistatori che sono state graffite, da Arica alla frontiera con il Perù fino al sud mapuche. In Plaza de la Dignidad, la statua equestre del generale Baquedano è stata dipinta e coperta parzialmente. La storiografia di quelli in alto lo considera un “eroe” della guerra del Pacifico contro il Perù e la Bolivia, nella quale la seconda perse il suo accesso al mare.
Ad Arica hanno distrutto una scultura in pietra di Colombo, che stava da più di un secolo sul posto. A La Serena, è rotolata la statua del colonizzatore e militare Francisco de Aguirre e al suo posto hanno collocato la scultura di una donna diaguita (indigeni del nord del Cile, ndt). A Temuco hanno rimosso il busto di Pedro de Valdivia e la testa è stata appesa alla mano del guerriero mapuche Caupolicán.
Pedro de Valdivia è nell’occhio dei manifestanti. Il militare che accompagnò Pizarro nella guerra di conquista e sterminio, fondò alcune delle principali città del Cile, da Santiago e La Serena fino a Concepción e Valdivia. È una delle figure più odiate dalla popolazione.
La sua statua è stata sul punto di essere abbattuta nella centrale Plaza de Armas. Ma il fatto più simbolico è avvenuto a Concepción, 500 chilometri a sud di Santiago. Centinaia di giovani si sono riuniti nella Plaza de la Independencia, dove hanno abbattuto la statua di Valdivia il giorno stesso in cui si commemorava il primo anniversario dell’assassinio del comunero mapuche Camilo Catrillanca.
Fu assassinato il 14 novembre 2018 da un commando dei Carabinieri, specializzato nella repressione del popolo mapuche. Il crimine suscitò un’ampia reazione popolare in 30 città del paese. In alcuni quartieri di Santiago ci furono blocchi stradali e le pentole e le casseruole sono state battute per più di 15 giorni. La dignità mapuche spiega che la bandiera più sventolata nell’esplosione è quella mapuche e che le teste dei genocidi rotolano al suolo di fronte al fracasso popolare.
Foto: Gerardo Magallón
(*) Fonte: Desinformémonos
ripreso da Comune-Info
Traduzione: Comitato Fonseca