I resti del pane di Rosa

di Sergio Mambrini

Giorgio venne al mondo quasi quattro anni dopo suo fratello. La madre faceva la sarta in casa. La guerra fascista era finita l’anno prima e il lavoro non le mancava.

«Chissà!… ho sempre pensato d’essere il frutto di quella liberazione» si ostina a ripetermi ancora adesso. Fatto sta, dopo tre o quattro anni Rosa smise di cucire per gli altri perché era impegnata in continuazione a rivoltare il cappotto del marito, a imbastire braghe su braghette per i ragazzini, a rifare il collo di una camicia, a friggere la pescata giornaliera, a pulire i cerchi in metallo della stufa a legna, a lavare e stirare con le braci nel “ferro”, magari a provare la febbre ai figli. Trovava anche il tempo di cuocere un budino, una dolce sbrisolona o lo zabaione. Come molte operose casalinghe degli anni cinquanta del novecento, Rosa non buttava niente, nemmeno uno straccetto. Escogitava sempre il modo di trasformarlo in una presina o un fazzolettino. Tantomeno scartava qualche avanzo di cibo.

«Quante polpette ho mangiato» mi ricorda Giorgio mentre camminiamo lungo il Corso.

«Ma i resti che amavamo di più, io e mio fratello, erano le pagnotte di pane raffermo, invecchiato quel tanto da poterlo biscottare nel forno, sempre caldo, della stufa a legna. Assomigliava tanto alla scorta per la fame dei poveri. Invece noi ci sentivamo ricchi, perché da quel pane vecchio spuntavano altre due preparazioni magistrali. La nostra preferita era il pane fritto, spolverato di zucchero. L’altra era il pane bollito, fino a farlo andare in “panàda”, appunto».

Alzando lo sguardo per osservare il volo dei piccioni, Giorgio aggiunge: «Senza quel pane vecchio, oggi non sarei quello che sono» e, tirando le labbra in un sorriso, sembra ancora “cotto” di quelle fragranze, di quello sfrigolio, di quel profumo.

Adesso che me le ha spiegate, ve le imbocco.

La “panada” è un piatto che a Giorgio sembrava giusto gustare caldissimo, anche se la sua base di partenza era sempre l’acqua fredda. Sua madre aggiungeva nella pentola il sale e un filo d’olio d’oliva. Intanto, lui spezzava il pane vecchio e lo lasciava cadere nell’acqua. Poi mettevano la pentola sulla stufa, privata dei cerchi di ferro centrali e le concedevano di bollire un paio d’ore.

«Fin c’la parla…» diceva Rosa, ridendo. In pratica quando la zuppa “parlava” cioè le bolle in superficie emettevano il classico suono. Era il segnale che certificava il pane ridotto in poltiglia. Lei verificava la buona riuscita col mestolo.

«L’è n’à panàda» e la impiattava. Intanto Giorgio la copriva con una spolverata generosa di parmigiano grattato. Quel profumo lo sa ancora.

Il “pane fritto e zuccherato” invece diventava un lavoro di gruppo, perché né Glauco né il più piccolo Giorgio intendevano lasciar perdere quella ghiotta occasione. Partiva Rosa col coltello. Con precisione sartoriale tagliava il pane raffermo a fette alte un dito. Dopo entrava in gioco Glauco che le bagnava, quel tanto che bastava, nel latte versato in un piatto piano. Poi era Giorgio che le intingeva d’ambo i lati, nell’uovo sbattuto tutto intero. Usava una sufficiente cautela per non spezzarle. Mostrava i gesti precisi di un orologiaio. Mamma Rosa le rosolava (ovviamente) nell’olio bollente, velocemente ma senza risparmio, rigirandole fino a dorarle. Glauco le raccoglieva con il mestolo forato e le depositava su un foglio spesso di cartapaglia. Dopo alcuni minuti Giorgio le prelevava per riporle in una zuppiera e spolverarle di zucchero, senza usare la minima parsimonia.

«Mia esageràr, biondo!» e la mamma gli mollava un schiaffetto sulle mani, così simbolico da sembrare una carezza. I due fratellini le mangiavano che erano ancora ben calde. Quando Rosa aveva finito di friggere, solo accidentalmente la zuppiera durava piena.

 

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