I robot fra noi
Un articolo di Daniele Barbieri (*)… ma di fantascienza qui ce n’è pochina perché in effetti oggi è un “Marte-dì” non del tutto martediano
A uccidere Micah Johnson, il cecchino afroamericano di Dallas, è stato un “marc-bot” ovvero un piccolo robot con testata esplosiva. Non è una novità: le truppe statunitensi ne fanno uso in Iraq.
La notizia diventa più interessante se la collochiamo all’interno di un piccolo e contraddittorio mosaico di notizie robotiche.
A metà giugno molti quotidiani scrissero che Alexander Reben, «esperto di interazioni uomo/robot» dell’università di Berkeley, aveva lanciato un allarme sulla possibilità che un robot rechi danno, in modo deliberato, a un essere umano, come in un suo esperimento. Notizia interessante che può aprire infinite discussioni con ingegneri e filosofi ma… fasulla: chi ha cercato riscontri a Berkley non ha trovato un docente Reben ma solo un simpatico ingegnere, artista e burlone.
Il primo maggio invece a Zurigo i robot hanno sfilato a favore del “reddito di base” per tutti: poco metallo e molto cartone però. Infatti era un gioco, non privo di serietà, in vista del referendum tenutosi il 5 giugno dove gli svizzeri decidevano – ha vinto il no – se concedere un reddito universale a ogni residente. La provocazione dei robot che si preoccupano degli umani ha un precedente italiano nei lontani anni ’80 quando la Cgil chiese al governo – senza ottenere risposte – che «per contribuire al risanamento dell’Inps» i robot, almeno nelle fabbriche più automatizzate, pagassero speciali contributi.
Invece a marzo si è parlato di un libro scritto da un robot giapponese e selezionato per il premio letterario “Nikkei Hoshi Shinichi”.
Altri robot? Quanti ne volete: ci sono i chirurghi infallibili, molti droni bombardieri, i pianisti e naturalmente quelli che tolgono lavoro agli operai in carne e ossa. Da anni la Honda progetta “robot marsupio” per aiutare le persone anziane o malate nel camminare. Senza dimenticare che certi elettrodomestici, persino banali frullatori, vengono venduti sotto il nome robot.
La discussione è spesso incasinata perché si confondono macchine, robot, computer, programmi esperti, ricerche sull’intelligenza artificiale… Ma anche restando ai classici robot bisognerebbe distinguerli in almeno 4 grandi categorie: non umani, immobili, di metallo, umanoidi.
Però la provocazione di Reben sui robot che possono far male tocca un nervo scoperto. Tant’è che già negli anni ’40 lo scrittore e scienziato Isaac Asimov immaginò le “tre leggi della robotica”, citando a suo sostegno un manuale… del 2058. Eccole. «1. Un robot non può recar danno a un essere umano né può permettere che, a causa del proprio mancato intervento, un essere umano riceva danno. 2. Un robot deve obbedire agli ordini impartiti dagli esseri umani, purché tali ordini non contravvengano alla Prima Legge. 3 – Un robot deve proteggere la propria esistenza, purché questa autodifesa non contrasti con la Prima o con la Seconda Legge». Geniali vero? Però due macigni pesano su quell’invenzione asimoviana. Il primo è che lui stesso trovò molte complicazioni, ambiguità o difficili interpretazioni e infatti scrisse eccellenti racconti al riguardo. Il secondo ostacolo è un Everest: è ovvio – scrisse Asimov – che quando costruiremo robot metteremo dispositivi di sicurezza come già si fa oggi. Troppo ottimista. Pensiamo a tante fabbriche ma perfino alle automobili che usiamo. O all’ultima tragedia ferroviaria in Puglia. Quanto siamo disposti a spendere in sicurezza? Messa in modo più duro: ci interessa davvero la vita degli esseri umani?
La storia, la filosofia e persino la pratica ci insegnano che alcuni umani si impegnano per il bene comune mentre altri avvelenano, fanno le guerre, sfruttano. Le cronache – ma anche la buona fantascienza – ci aiutano a distinguere fra robot pericolosi, utili, innocui; dipende da chi li costruisce e per quale scopo. Il nodo gordiano è sempre lì.
(*) Questo mio articolo è uscito ieri – al solito: parola più, parola meno – sul quotidiano «L’unione sarda». A proposito di robot pianisti quello che vedete nella foto è Kea (costruito dall’imolese Matteo Suzzi) con il quale ho avuto il piacere di “esibirmi” – è una storia raccontata in “bottega” – un paio di volte. Anche di Alexander Reben e della manifestazione di Zurigo qui si è già parlato. Invece a proposito di omonimie che tornano, ringrazio le 3persone3 che mi hanno fatto i complimenti per la mia «bella prefazione» alla riedizione di «Apocalittici e integrati» di Umberto Eco, c’è pero il solito problemino: QUEL daniele barbieri non sono io; anche questa è una storia raccontata in “bottega”, ovviamente alla voce «omonimie». By-bau-bit, ci vediamo un altro Marte-dì maaaaagari più fantascientifico di oggi. (db)