I ruggenti anni venti

16 gennaio 1920: quando gli Usa precipitarono nell’inferno e solo un film seppe raccontarlo davvero

di FABIO TRONCARELLI

Il 16 gennaio 1920 la legge sul Proibizionismo divenne definitiva. E gli Stati Uniti precipitarono nell’inferno. Non solo perché perfino bere un caffè con la grappa divenne un reato. Ma perché – come sempre succede quando si scatenano moralisti e talebani – chi perseguita gli altri è perseguitato dalle sue Furie; la persecuzione serve sempre e solo a coprire orribili scheletri nascosti nell’armadio. I difensori della morale, dell’ordine, dell’onestà difendevano, senza rendersene conto, l’immoralità, il disordine, la depravazione. Cos’altro c’ era nella società americana che aveva finalmente approvato la legge contro gli alcolici, dopo una lunghissima gestazione? Chi aveva vinto la guerra era nelle stesse condizioni di chi l’aveva persa. I reduci non trovavano più il lavoro perduto e spesso neanche le donne che avevano lasciato. Il costo della vita era raddoppiato e i problemi tipici della vita stsatunitense erano quadruplicati. L’unica risposta a chi chiedeva il rispetto dei suoi diritti era quella di infischiarsene, di farsi giustizia con le proprie mani, come un pistolero in cerca di fortuna, un cercatore d’oro verso l’Eldorado, un fuggiasco in cerca della patria. I poveri, invitati a farsi intraprendenti, divennero all’improvviso imprenditori di sé stessi, dedicandosi febbrilmente all’unico commercio redditizio, quello dei liquori, che richiedeva un esercito di disperati pronti a tutto per fabbricarli, spedirli, consegnarli, venderli di nascosto, sfidando poliziotti e banditi. Questa nuova febbre dell’oro – l’oro liquido – provocò un terremoto sociale ed economico come le vecchie febbri dell’oro in California o in Alaska: una nazione intera cambiò bruscamente stile di vita, costumi, metodi, gerarchie, rincorrendo sfrenatamente, disperatamente una ricchezza effimera e bruciante, che stordiva e ubriacava come l’alcol proibito, trascinando tutti in un’euforia maniacale più moderna della modernità stessa, più medievale di quella medievale dei Trionfi della Morte e delle Navi dei Folli. Questo fremito barbarico, di superficie, mimava perfettamente quello che c’era sotto: l’esaltazione, la frenesia lugubre del capitalismo americano senza freni e senza regole, lo scheletro che s’indovinava dietro i volti furiosi ed eccitati, simile a quello che traspare sotto la pelle dei mortali. Non a caso, il sinistro carnevale di chi giocava con la vita degli altri giocandosi la vita in una delirante roulette russa (fosse un gangster o un magnate) andò in rovina tutto insieme, trascinando banditi e gentiluomini nello stesso abisso. Nel 1929 la crisi di Wall Street fu la crisi di tutta la società degli Stati Uniti, svegliati violentemente a schiaffi dal torpore di un’ubriachezza che era la maschera funebre di una schiera di morti viventi, Questa coscienza terrorizzata, questa frustata che spezzò la schiena a un Paese frastornato, fu l’amara medicina che spinse masse di esseri umani sulla strada di un rinnovamento, assicurando la vittoria elettorale a Franklin Delano Roosevelt e al suo programma keynesiano di trasformazione radicale del vecchio capitalismo, che non a caso aveva indicato come priorità assoluta l’abolizione della legge sul Proibizionismo e la lotta senza quartiere allo strapotere dei gangster.

Di questa svolta storica della società Usa furono testimoni appassionati molti artisti di ogni tipo, che cantarono in ogni modo l’America amara di quegli anni. Nessuno però riuscì a eguagliare la grandezza folgorante di un film con Humphrey Bogart e James Cagney, The roaring twenties (I ruggenti anni venti), opera di un regista che nessuno avrebbe creduto capace di un simile risultato: Raoul Walsh.

Come ci riuscì? E perchè? Prima di rispondere a questa domanda permettetemi di spendere due parole su questo personaggio incredibile, oggi dimenticato. Il pubblico lo amava per la sua vita spericolata, piena di successi e di avventure; per i suoi film indiavolati, un po’ spacconi, un po’ melodrammatici dove si esibivano star dal piglio guascone come Errol Flynn, John Wayne o Victor MacLagen e vamp come Theda Bara, Dolores Del Rio e la mitica Mae West. Aveva colto il più grande dei successi dirigendo nel 1924 lo straripante, audace, temerario Douglas Fairbank nel sontuoso, fantastico Il ladro di Bagdad, uno dei film più spettacolari mai realizzati a Hollywood.

Ma il pubblico, entusiasta di queste rappresentazioni che facevano girare la testa, aveva la memoria corta e non ricordava più chi era veramente quel satanasso irlandese, nato nel 1887 in una famiglia ricca e perbene, che aveva gettato alle ortiche la sua livrea di noblesse de robe per fare il marinaio, il cow boy e il giramondo. Walsh era un fegataccio: scaraventato dal caso nel cinema e finito chissà come fra i piedi di David W. Griffith, l’aveva seguito come un cucciolo, facendo la comparsa, l’attore, il viceregista, rubando con gli occhi ogni inquadratura. E il grande Griffith prese in simpatia questo cucciolo festoso e scatenato: non sapendo come farlo sfogare lo spedì in Messico da Pancho Villa, a fare un film con lo stesso Villa come protagonista. Credete che stia scherzando? La fantastica storia di questa pellicola (oggi perduta) girata in mezzo a sparatorie vere, agguati di banditi, fucilazioni, violenze, incendi, fame, trionfi l’ha raccontata Walsh in persona nella sua biografia Each man in his time (New York, Farra- Strauss-Giroux, 1974: non esiste in italiano, che ve lo dico a fa?) ed è stata ricostruita da un documentario recente1. Ma questo per Walsh era un bruscolino: tornato a Hollywood dal Messico con un viaggio pericolosissimo e drammatico, che definire un’ Odissea sarebbe un complimento, pensava che tutte quelle maledette sparatorie vere che aveva dovuto filmare erano poco spettacolari, poco cinematografiche e che Villa faceva il comodo suo, non era un vero attore. Sicchè, solo una cosa voleva: tornare al lavoro e fare il regista vero come Griffith per essere riconosciuto come un autore: non sentirsi più l’esule, il fuggiasco, il giramondo errabondo e perdigirono incapace di uguagliare la statura morale ed economica del padre, un autentico gentiluomo, da sempre impegnato in nobili cause civili, a favore dei poveri, degli emigranti, degli ebrei, dei neri, degli indiani oppressi nelle riserve e ovviamente degli irlandesi ribelli suoi compatrioti. Povero Walsh! Lui il successo ce l’aveva ma era quello di un acrobata; era l’applauso che accompagna un saltimbanco, non la pace della coscienza. Eppure, proprio per questo, proprio per il suo cuore ferito di adolescente che si sente sempre un reietto, un perdente e un emarginato, seppe capire come nessun altro gli emarginati e i reietti della metropoli moderna girando un film semplicemente meraviglioso, Regeneration il primo vero film sui gangster della storia del cinema2.

Walsh aveva preso come attori gente della strada: veri gangster, vere prostitute, veri barboni senza casa, storpi, gobbi, orbi. Li aveva messi insieme ad attori di teatro e aveva girato all’aria aperta, nelle strade malfamate dell’East Side piene di una folla di straccioni affamati che si affollavano intorno alla troupe come la Corte dei Miracoli intorno a Quasimodo in Nôtre Dame de paris. E Quasimodo, il gobbo maledetto, c’era davvero nel film: era un ragazzo preso dalla strada di cui non si sa neppure il nome, che nel film si chiama Lefty: è talmente importante che l’opera si concludeva sul suo nobile sacrificio, come racconta Walsh, prima che la produzione la cambiasse in senso agiografico e oleografico. In ogni caso la Corte dei Miracoli di New York si precipitava fuori dalla pellicola senza freni e il pubblico era letteralemte elettrizzato, al punto che due anni dopo la prima rappresentazione nel 1917 i produttori decisero di fare una “seconda prima rappresentazione” nel 1919: fu un trionfo come la prima, come se il pubblico avesse visto per la prima volta quello che conosceva a memoria.

Bene, nonostante questo, ipercritico come sempre e sempre alla ricerca del sogno impossibile di redenzione, Walsh biascicò due parole sul suo capolavoro mancato, negando addirittura che fosse un capolavoro e compiacendosi solo delle riprese spettacolari in cui aveva fatto bruciare un battello sul fiume ed era finito in cella per questo. A lui interessava solo trovare la pace e dimenticare che era stato un discolo, un ragazzaccio, piantando a casa il papà e le sorelle: uno che non avrebbe mai avuto dignità, onore, rispetto, sicurezza.

Angosciato, forsennato, sempre volgendo la prua dopo le Colonne d’Ercole, come Ulisse che sfida il destino, Walsh girò una pellicola dopo l’altra come se fossero noccioline. Alla fine, insoddisfatto e audace come sempre, nel 1938 finì – dopo una vicenda ingarbugliata che non possiamo riassumere in poco spazio – in un castello in Germania dove fu presentato a Hitler. Come mai? Non certo per simpatie naziste. Il suo odio per Hitler era tale che tutto il tempo dell’incontro pensò solo a come poteva ammazzarlo, fantasia adolescenziale destinata ovviamente al fallimento, visto che non aveva neanche una pistola. Walsh non amava chi lo aveva invitato. Era solo uno spaccone irlandese, uno come Errol Flynn in Robin Hood, che entra nel castello dei nemici per sfidarli faccia a faccia fingendo di essere un altro. Il fatto è che i nazisti oltre che carogne erano pure cretini. Il vero scopo dell’invito a Walsh era la speranza di usarlo come mediatore per avere il quadro di un famoso generale tedesco posseduto dal grande magnate William Randolph Hearst (il personaggio a cui si ispira Quarto potere di Orson Welles). Walsh era molto amico della moglie di Hearst, Marion Davis, con cui aveva girato un film e avrebbe potuto senza dubbio fare una richiesta informale, in nome delle più alte gerarchie naziste, come Goering che si scomodò di persona per trattare l’affare. Ma credere questo significava sottovalutare il nostro bravo spaccone irlandese. Il quale non solo mandò a quel paese i suoi stupidissimi anfitrioni, usando la perfidia delle buone maniere appresa da bambino nella casa rispettabilissima dei genitori, ma fece anche di più: raggiunto all’aereoporto da un’improvvisata Mata Hari, che cercava di circuirlo in una scena che pare la fine di Casablanca all’incontrario, il nostro adolescente spaccone fece finta di essere Humphrey Bogart e le disse: “Baby, se sedicenti machi e superuomini si nascondono dietro una gonnella, questa è una vigliaccata. Diglielo piccina e non avercela con me”.

Ecco, valeva la pena spendere due parole su un tipo del genere, perchè sennò uno non capisce come mai, subito dopo l’eroicomica e grottesca Luna di Fiele con Hitler, il cinematografaro baciato dalla Fortuna ma spregiato dalla Virtù si sia buttato anima e corpo in un filmaccio “poliziesco brutale” come lui stesso lo definì. Che altro poteva aspettarsi un guitto, un ciarlatano come lui? Un bel film d’azione, attori adorati dal pubblico, applausi assicurati. Il successo. Ma non la rispettabilità. E non si rese conto (o forse sì ma tenne la bocca chiusa) che l’eroe del suo film era proprio come lui, un reietto, un perdente, un fallito che ha fame e sete di giustizia e non sarà mai riconsolato. Per questo il film è straordinario. Lo spettatore è stregato, stritolato da questa disfatta autobiografica che diviene la disfatta di una nazione: e gli si stringe il cuore fino a spezzarsi per l’angoscia di questo angelo ribelle che cerca disperatamente di tornare nel Paradiso Perduto, si perde un’altra volta ancora e cade nell’abisso, ancora ed ancora… La grandezza del film è nel dissimulare questa violentissima passione attraverso una rappresentazione spoglia e obiettiva, quasi documentaristica. A un vero e proprio documentario fanno pensare i numerosi inserti che ricalcano i popolarissimi mini-documentari che precedevano i film allora, che si chiamavano La Marcia del Tempo. Sì il Tempo marcia inesorabile attraverso il gioco delle dissolvenze incrociate e all’inizio va addirittura in senso contrario, dal presente all’indietro, dal 1940 al 1920, scherzando con il fluire degli eventi e rifluendo indietro come in un sogno angoscioso: tanto avanti e indietro è lo stesso, la stessa spirale che ci sprofonda come il marinaio di Poe nel Maelstrom, in una voragine senza fine. L’atmosfera onirica, allucinatoria in cui si snoda la vicenda le dà non solo un respiro senza tempo da tragedia greca ma la proietta in un universo da incubo. La città moderna dei gangster e dell’oro a fiumi è Metropolis, come del resto suggeriscono immagini dal chiaro sapore espressionista.

Dissolvenze incrociate nei Ruggenti anni venti: il crollo della Borsa nel 1929

Dissolvenze incrociate in Metropolis: la città infernale si trasforma in Moloch

Sì, cielo e inferno hanno messo mano al film insieme a Walsh, per scrivere col fuoco una storia efferata, furente, potente in cui gli anni Venti, quelli del delirio, rimbalzano davanti ai nostri occhi atterriti e appaiono come in una tempesta fra tuoni, lampi, incendi e somigliano alle fiammate dei colpi di pistola che gli eroi disperati sparano senza fine, ripresi in modo antirealistico con immagini che ruotano improvvise e impreviste davanti a noi, come se fossero demoni che mutano forma apparendo e scomparendo da ogni lato.

Cagney spara colpi uno dopo l’altro, ripreso da diverse angolazioni

Eppure non furono queste le immagini che rimasero nel cuore agli spettatori frastornati. Molto più forte, più drammatico fu l’effetto dei finti cinegiornali che davano un allucinato carattere iperrealistico a questa visione dell’Al di qua come un Al di là. Il pubblico sentiva in queste immagini pseudo-vere la stessa verità, la stessa forza dirompente dell’esercito di sciancati e di rifiuti umani che c’erano in Regeneration. Di nuovo Walsh aveva fatto subire ai chi lo guardava lo choc visivo del suo sguardo che non conosce freni e passa dalla verità all’illusione in un attimo, contro ogni aspettativa. Non a caso Orson Welles copierà smaccatamente questo genere di finto documentario in Quarto potere, girando a sua volta finti esempi della Marcia del Tempo per descrivere l’inafferrabile carattere del protagonista del film.

Tutti ancora oggi ricordano la “Modernità” dell’approccio di Welles, che gioca con la Realtà e la Finzione da Autore con la “A” maiuscola. Ma nessuno pensa o ripensa a quell’altro autore senza “a” e senza dignità, quel ragazzo sempre in fuga e sempre in pena, che amava i paria, i perdenti, gli storpi e i ciechi come l’apostolo di una religione senza fede. E che faceva morire i suoi eroi indegni tra il fango e la neve, in braccio a una donna di malaffare, una “moderna” Madonna degna di Caravaggio, per una “modernissima” Pietà, capace di commuovere perfino i più “moderni” Maestri del cinema.

Roma città aperta: Pina (A. Magnani) tra le braccia di don Pietro (A. Fabrizi) e I ruggenti anni venti: Eddie Bartlett (J. Cagney) nelle braccia di Panama Smith (G. George)

1  Gregorio Rocha, Los rollos perdidos de Pancho Villa, 2003. Vedi anche Marilyn Ann Moss, Raoul Walsh: The True Adventures of Hollywood’s Legendary Director, Lexington, The University Press of Kentucky, 2011.

2 Non è il primo film in assoluto, ma è il primo vero film di luga durata (72 minuti). Prima di Walsh c’erano stati infatti dei piccoli cortometraggi di pochi minuti e il celebre The musketeers of the Pig Alley di Griffith che durava un quarto d’ora, ma non c’era mai stato un tentativo così ambizioso.

MA COSA SONO LE «SCOR-DATE»? NOTA PER CHI CAPITASSE QUI SOLTANTO ADESSO.

Per «scor-data» qui in “bottega” si intende il rimando a una persona o a un evento che il pensiero dominante e l’ignoranza che l’accompagna deformano, rammentano “a rovescio” o cancellano; a volte i temi possono essere più leggeri ché ogni tanto sorridere non fa male, anzi. Ovviamente assai diversi gli stili e le scelte per raccontare; a volte post brevi e magari solo un titolo, una citazione, una foto, un disegno. Comunque un gran lavoro. E si può fare meglio, specie se il nostro “collettivo di lavoro” si allargherà. Vi sentite chiamate/i “in causa”? Proprio così, questo è un bando di arruolamento nel nostro disarmato esercituccio. Grazie in anticipo a chi collaborerà, commenterà, linkerà, correggerà i nostri errori sempre possibili, segnalerà qualcun/qualcosa … o anche solo ci leggerà.

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