I Vascelli di Fuoco
ovvero la fantascienza di un milione di anni fa
di Orazio Barrese
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LO SCALPORE suscitato in queste settimane dalla suggestiva teoria dello scienziato sovietico M. Agrest sulla fine di Sodoma e Gomorra — le due città sulle rive del Mar Morto di cui parla la Bibbia nel capitolo 19 della Genesi — sarebbe stato assai minore se non si fosse considerata la sorprendente ipotesi soltanto come una eccentricità fantascientifica. In realtà, antichissimi testi e millenarie tradizioni hanno portato fino a noi racconti che anticipano in parte la tesi sostenuta dallo scienziato sovietico.
Gli abitanti di Sodoma e Gomorra — afferma la Bibbia — erano dediti al vizio e alla lussuria: Iddio li annientò insieme alle loro case, facendo cadere su di essi una pioggia dì fuoco. Secondo M. Agrest — la cui teoria riecheggia il Libro di Dzyan — le due città furono invece distrutte da un’esplosione termonucleare. Lo scienziato sovietico ritiene che, circa un milione di anni fa, la Terra sia stata visitata da misteriosi viaggiatori spaziali. Costoro, a bordo di una gigantesca astronave, compirono diversi giri, a distanza sempre più ravvicinata, intorno al nostro pianeta, e prima di atterrare lanciarono alcuni proiettili-sonda. Quando si accorsero che nessun ostacolo si frapponeva, scesero a terra, nella regione del pianoro di Baalbeck, tra le montagne dell’Antilibano. M. Agrest sostiene che gli extraterrestri cercarono di inculcare la scienza ai nostri progenitori, fornendo loro delle cognizioni di matematica, di fisica, di astronomia. Dopo un certo tempo, i viaggiatori spaziali decisero di ripartire e costruirono la base di lancio che, a giudicare dalla forma, potrebbe essere stata il costone di Baalbeck. Ma al momento della partenza si accorsero di avere un eccesso di combustibile nucleare e se ne disfecero, dopo aver avvertito gli abitanti della zona ove sorgevano Sodoma e Gomorra di allontanarsi rapidamente il più possibile.
Lo scienziato sovietico è convinto che la formazione dei blocchi di pietra del costone di Baalbeck, formazione che ancora non ha avuto una spiegazione scientifica, sia stata provocata dall’esplosione termonucleare, mentre i proiettili-sonda lanciati dagli astronauti prima del loro atterraggio avrebbero provocato — secondo lui — le « tectiti », ossia quelle pietre vetrose contenenti radioisotopi di alluminio e berillio che si trovano numerose nel deserto libanese.
La teoria di Agrest presenta singolari analogie con il mito dell’Atlantide, così come è stato tramandato dagli antichi testi. Il globo terrestre era ancora in fasce e le ere geologiche avevano appena cominciato a segnare il tempo sul calendario del nostro pianeta: secondo i calcoli effettuati sulla base deIIe tavole brahaminiche, mancavano 18 milioni 617 mila 841 anni alla nascita di Cristo. Fu in quell’anno che i «Signori della Fiamma», abitatori di Venere, decisero di portare agli «animali» della Terra una «mente», l’intelligenza che potesse comprendere l’Universo. Allestirono una gigantesca astronave e con essa solcarono gli abissi interplanetari.
D I QUESTO viaggio spaziale esiste una affascinante descrizione, tramandataci dalla stanza V di un antichissimo testo, il Libro di Dzyan. «Lo spazio cresceva oscuro fra le due sfere (Venere e Terra) — dice il sorprendente racconto. — I due mondi divennero raggianti. I Signori della Fiamma si alzarono e si prepa-rarono. I tre volte trentacinque, trovando giusta la distanza, partirono. Essi lampeggiavano tra lembi intermittenti di fiamme. Quindi, con rombo enorme, il vascello del Signore della Fiamma volò attraverso gli spazi, discendendo da incalcolabili altezze e circondato da vive masse di fuoco. Esso si fermò sopra la bianca isola che sorgeva nel mare di Gobi.
Si era intatti nell’anno 18.617.801 avanti Cristo e il mondo non aveva ancora trovato un assetto definitivo attraverso cataclismi, glaciazione, cadute di meteoriti e penino di lune, come sostengono alcuni studiosi. E dove adesso si stende, sterminato, il deserto di Gobi, era allora il mare, nel quale biancheggiava un’isola. Qui atterrarono dunque i viaggiatori spaziali per portare la sapienza ai terrestri. E da qui raggiunsero poi le altre parti della terra. Probabilmente, di tanto in tanto si davano il cambio perché, come ci viene tramandato dalla mitologia indù — che definisce questi pionieri “Signori dalla Faccia Splendente” — numerosi erano i viaggi interplanetari. A bordo delle loro astronavi — le “ vimmanas” — alcune delle quali a forma di disco volante, i Signori dalla Faccia Splendente raggiungevano le loro “abitazioni celesti”, col quale termine, probabilmente, si volevano indicare gli altri pianeti.
QUESTI antichi astronauti disponevano di vaste conoscenze tecniche e scientifiche, che furono alla base della grandiosa civiltà dell’Atlantide. Avevano, inoltre armi potentissime, capaci di fulminare in un solo istante centinaia di migliaia di persone o di provocare il sonno, oppure di produrre vasti e intensi campi magnetici. Altre armi infine erano azionate addirittura dagli ultrasuoni.
Nel sua libro The story of Atlantis, W. Scott Elliot fornisce una minuziosa descrizione delle “vimmanas” e delle armi dei Signori dalla Faccia Splendente. V’è una sorprendente analogia con i mezzi di cui dispone oggi la scienza missilistica: il Sikharastra lo si può paragonare ad un missile che sprigiona le fiamme, l’Avidyastra a un missile magnetizzante, gli Agni Astras a missili che producono rumore di tuono e viaggiano tra cortine di fuoco, il dardo Intra ad un mena di distruzione che può fulminare contemporaneamente 10 mila persone. Ricorre, nei nomi di tali armi, il termine “astra”, a convalidare l’origine extra-terrestre degli antichi ospiti del nostro pianeta. I quali sapevano imprigionare l’energia, soggiogare le forze dell’universo, controllarne l’evoluzione.
INTERESSANTI leggende riguardanti l’evoluzione terrestre si trovano, oltre che nel Libro di Dzyan, nell’egizio Libro dei Morti e nelle Tavole di Cuthca. Le Scuole Arcane d’Egitto parlano persino di esplosioni nucleari, con le quali andò distrutto un satellite che si trovava tra le orbita di Marte e di Giove.
Ma per quanto tempo si fermarono sulla terra i Signori dalla Faccia Splendente? Decine di millenni o milioni di anni? E’ un problema, questo, che nessun testo è in grado di risolvere. Vi si dice soltanto che un giorno il cielo divenne di porpora, l’aria si infuocò e una pioggia di meteoriti s’abbatte sulle città. Fu la catastrofe e la morte, ma “il popolo dei Re — afferma un’antica leggenda egizia — venne salvato a bordo di ‘grandi uccelli bianchi’ scesi dal cielo..
Forse, proprio in quel periodo fu distrutta la mirica Atlantide e la sua capitale, la Città Tripla o Città delle Tre Montagne, la cui raffigurazione è stata trovata in monete americana del periodo preincaico. Secondo il “Mahabharata” indiano, la distruzione della Città Tripla fu compiuta con l’arma di Brahma, Mashnnak, una sorta di esplosione atomica dalla quale si salvarono soltanto coloro che salirono sugli “uccelli bianchi”, ossia sulle astronavi. Scomparvero così edifici, monumenti, laboratori, attrezzature scientifiche. Le glaciazioni costrinsero i pochi superstiti a ritirarsi nelle caverne o sulle montagne, quando i mari crebbero di livello. E così dell’antica civiltà non rimase che un ricordo sempre più vago: l’uomo si abbrutì, perse ogni forma di conoscenza scientifica e ritornò all’età della pietra.
A QUESTE sorprendenti leggende si sono ispirati e continuano ad ispirarsi gli scrittori di fantascienza; una suggestiva rievocazione è contenuta del resto nel libro La peste rossa di Jack London. Tuttavia, anche senza voler prestare troppa fiducia al mito di Atlantide, esistono numerosi elementi che possono deporre a favore dell’ipotesi di Agrest e di altri studiosi, secondo la quale antichi astronauti insegnarono all’uomo le scienze. Degno di nota, ad esempio, è il fatto che un antichissimo popolo, vissuto sulle Ande, nei pressi del lago Titicaca, conosceva perfettamente l’astronomia. Fra le rovine di Tiahuanaco è stato infatti rinvenuto un calendario di pietra, molto più perfetto del nostro. I nostri mesi — come rileva Saurat nella sua splendida opera L’Atlantide e il regno dei giganti — sono una convenzione, in quanto non hanno alcuna correlazione col moto della Luna, gli anni non cominciano in corrispondenza con alcun movimento degli astri, le settimane non servono a spiegare niente. Il calendario di Tiahuanaco, invece, comincia dall’equinozio d’autunno dell’emisfero sud. I solstizi e gli equinozi segnano le quattro stagioni, ognuno delle quali è divisa in tre sezioni: si hanno cosi i 12 mesi. Il calendario era tale che lo schema dei movimenti della Luna, fatto per un mese, fosse valido per tutti gli altri mesi, e permetteva persino di conoscere la posizione della Luna in qualsiasi ora del giorno. Ma il particolare più stupefacente consisteva nella registrazione dei moti apparenti e dei moti reali del nostro satellite, mentre nei nostri calendari sono indicati soltanto i moti apparenti.
EVIDENTEMENTE, per elaborare un calendario di tal genere, occorreva possedere vaste conoscenze matematiche, fisiche, astronomiche. Ma gli abitanti della zona di Titicaca, come presumibilmente anche quelli dell’Isola di Pasqua, ebbero pure vaste possibilità tecniche. Lo lasciano credere i giganteschi monoliti, i portali larghi tra metri, larghi quattro e spessi mezzo metro, i massi di arenaria del peso di 100 tonnellate posti a base degli edifici, la statua (che si trova ora nel museo all’aperto di La Paz) che é alta 8 metri, ha un metro di spessore e un peso di 20 tonnellate.
Come furono lavorati e trasportati questi macigni, se gli uomini d’allora non avevano adeguati mezzi tecnici? Si pensa, da parte di alcuni studiosi, che sia esistita una razza di giganti: l’ipotesi sarebbe confermata da rinvenimenti fossili, l’ultimo dei quali effettuato nell’inverno del 1557 nell’isola di Luzon, nelle Filippine, dove venne alla luce uno scheletro fossile umano di 5.18 metri d’altezza. Tuttavia, se i monoliti di Titicaca sembrano essere stati lavorati da giganti, le aperture, le porte e le finestre ricavate nei macigni, sono di proporzioni normali, per uomini di proporzioni normali. Accanto ai giganti, dunque, sarebbe esistita una razza di “nani”, la razza cioè che avrebbe portato la scienza ai terrestri.
E qui può anche finire la nostra scorribanda fra le antiche tradizioni, confortate talora da rilevamenti archeologici e da osservazioni scientifiche. Non sappiamo quale valore possano avere, sul piano scientifico, gli antichi testi. Ma se non altro qualcosa resta dimostrato: che la conquista degli spazi, i viaggi astrali, la “fuga” verso altri mondi non sono un anelito di oggi, ma un sogno nato con l’uomo. Se le numerose leggende che abbiamo rievocato non costituiscono dunque scienza, sono senz’altro fantascienza: la fantascienza di migliaia di anni or sono, non molto diversa dall’attuale.
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Propongo oggi un vecchissimo articolo scritto per “Vie Nuove” del 16 aprile 1960 da un caro amico di oggi, Orazio Barrese, del quale in questo stesso blog ho presentato una recensione al suo bel romanzo “Il pianoro delle Quaglie” (vedi IVI).
Le considerazioni che nel finale del pezzo fa l’autore sono di grande interesse e possono fornire lo spunto per ulteriori approfondimenti sul fenomeno “fantascienza” e sui motivi che hanno ispirato tanta diffidenza, in molti intellettuali, nei confronti di questa parvenu della letteratura che contro ogni evidenza continua a godere di autostima e continua a produrre frutti. Inizialmente accettata, col tempo è diventato sinonimo di assurdità e implausibilità. Eppure la fantascienza vuole essere proprio il contrario. Aspirando essenzialmente alla razionalità e al plausibile.
Ha peccato forse di un eccesso di audacia (vedi articolo)? Può essere. Io però non lo credo. Se un peccato la fantascienza ha commesso è stato di non esserlo stato abbastanza. Non abbastanza speculativa, non abbastanza audace da riuscire ad abbattere la barriera di fraintendimenti che l’incessante lotta condotta dagli ideologi della borghesia stende attorno alla realtà per renderla inintellegibile. Per cui, impaniati nell’immenso immondo sciocchezzaio di questi onnipresenti “esperti” televisivi e non, nonostante tutti gli sforzi fatti per leggere nelle pieghe della società quali sarebbero potuti essere i suoi sviluppi (o gli inviluppi) futuri, in nessun romanzo o racconto, per quanto informato di una visione pessimistica, è riuscita a rendere il peggio che il mondo è diventato, dalla vittoria della borghesia in poi (vittoria che non risale all’Ottantanove, che anzi i suoi primi prodromi sono individuabili nei fatti di Kronstadt – 1921; ma che certamente può essere fatta risalire al Compromesso Storico di Berlinguer, ideologia della sconfitta, sorta di Auto da Fé del Movimento Operaio che minerà il sindacato dall’interno con la promozione dell’infausta “linea dell’EUR”).
Meritato o meno che sia questo discredito, con la relativa cecità rispetto alla lotta di classe (cecità che condivide con l’universo dell’intellettualità attuale), la fantascienza ha contribuito a porre le condizioni per diventarne vittima. E allora è bene che così sia.
Mauro Antonio Miglieruolo
L’interessante articolo ripescato da Mau e il suo provocatorissimo-issimo commento finale mi chiamano in causa. Appena trovo il tempo (questa è una minaccia: sentite in sottofondo il digrignare dei lampi e l’arrotare di urugani?) intervengo. State accuorti.