«I WAS A STRANGE AND LONELY BOY» – tre
un racconto inedito di MAURIZIO COMETTO. Ultima puntata
Maurizio Cometto
I WAS A STRANGE AND LONELY BOY
3 – Il passato
E’ una sera tranquilla quando Bertola esce dall’ufficio e sale sul suo Cherokee aziendale. La giornata è stata moscia, senza scossoni. Bertola si è preparato mentalmente. A Federica ha detto che ha una cena con un cliente, senza entrare nei dettagli. Deve essere come una riunione di lavoro, o una cena di lavoro, appunto. Stesso atteggiamento, stessa concentrazione mentale. Nessuna complicazione: tutto filerà liscio. E se ci saranno problemi, si alzerà dalla sedia e se ne andrà. Anche senza salutare, chi se ne frega?
In fondo chi sono Beretta, Dattoli, DeFresu, Castore? Li ha visti su Facebook: dei falliti. Neppure coscienti del loro stesso fallimento. E Lazzi, che ha perso una gamba? E quel povero cristo di Remigio? Che brutta fine.
Il navigatore lo conduce lungo una strada solitaria che s’inerpica sulla collina. Una via stretta e tortuosa, che non conosceva. Ai lati una vegetazione folta e selvaggia protende le sue fronde sulla carreggiata, tanto che spesso non può evitare che i rami raschino sui finestrini e sulla carrozzeria. Non ci sono neanche i lampioni, e ormai è già buio. Non incrocia nessuno.
A un certo punto un bivio, un cartello con una freccia: “L’Oca d’Oro”. Di fianco alla scritta il simbolo con coltello e forchetta. Bertola svolta.
Percorre ancora un chilometro di sterrato in mezzo alla solita folta vegetazione, prima di arrivare a uno spiazzo con qualche auto parcheggiata. Sotto un vasto pergolato di vite sono ammassati alcuni tavoli e sedie di plastica, sporcati dalle recenti piogge. Più avanti s’intravede l’ingresso. Nessuna scritta luminosa; solo un cartello con su scritto: “L’Oca d’Oro”, e vicino il disegno stilizzato di un’oca tutta gialla, illuminato dalla luce che proviene dalle finestre e dai pochi lampioni intorno al parcheggio. Il fabbricato è vasto e ha due piani, è probabile che affitti anche qualche stanza. Ma chi ha il coraggio di venire a sotterrarsi in quel posto in culo ai lupi? Forse solo qualche coppia clandestina.
Parcheggia il suo Cherokee vicino a una Panda vecchio modello, con la carrozzeria rossa che presenta alcune chiazze di ruggine. Lì vicino una Punto, una Skoda e una Daihatsu, tutte con l’aria di essere di seconda mano. Prima di scendere Bertola chiude gli occhi. Ha sentito di nuovo quella brutta sensazione. Il presente che si congela, il futuro che non esiste più. Il fiato che si mozza. Allarga il respiro, gonfiando e sgonfiando lentamente la pancia. “It’s all ok”, pensa. “All ok.” Fa mente locale sull’agenda di domani. Riunione mattutina con i suoi manager; pranzo con il Purchasing Director del maggior cliente coreano, in visita in Italia; pomeriggio libero, in cui ha deciso di controllare le presentazioni sulle ultime novità di prodotto mandategli dall’R&D manager.
Scende dall’auto. C’è silenzio. Neppure dal fabbricato sembra arrivare alcun rumore. S’incammina sulla ghiaia, che scricchiola sotto le suole delle sue scarpe. S’è vestito casual: jeans, camicia a righine, giubbino blu scuro. Sul taschino della camicia ci sono ricamate le sue iniziali, un vezzo a cui non sa rinunciare. Avvicinandosi alla porta comincia a sentire un buon odore di cibo. E un brusio: voci allegre, concitate, che provengono da qualche parte all’interno.
Senza perder tempo in inutili esitazioni, spinge la grande porta a vetri ricoperta di adesivi, ed entra.
Un locale che sembra un’anticamera. Un bancone sulla destra, l’inizio di una scala in fondo. Dietro il bancone un’anziana signora dai folti capelli grigi ha alzato gli occhi acquosi su di lui. Il brusio di voci ora è più forte, viene dalle scale. L’odore di cibo filtra invece da dietro una porta a soffietto, semiaperta di fianco al bancone.
La vecchia attende che lui dica qualcosa senza mutare la sua espressione.
– Sono qui per il dinner… per la cena prenotata a nome Beretta.
La vecchia sorride e gli indica le scale.
– Thanks.
Il sorriso della vecchia si allarga ancor di più. Ora che ci pensa, quel viso da rimbambita non gli è del tutto nuovo. Ma non ricorda assolutamente dove l’ha già visto.
Mentre sale le scale il cuore di Bertola accelera. Sente le mani fredde e sudate. Keep calm, si ripete a ogni gradino. Keep calm! Sa benissimo cosa succederà. Qualche battuta: chi si rivede, guarda che vestiti, Bertolino ha fatto carriera, chi l’avrebbe mai detto?, pacche sulle spalle, sorrisi, risate a squarciagola. E poi tutto avrà fine. Si comincerà a parlare sul serio, sempre se è possibile con quegli analfabeti. La cena avrà inizio, che è la cosa più importante. Grandi saluti, promesse di rivedersi. E poi di nuovo tutti a casa.
Quelle scale gli evocano confusi ricordi. Tre rampe di sette gradini che portano al primo piano. La seconda rampa parallela a una vetrata che si affaccia all’esterno, su un giardino che nella notte appare quasi selvaggio. Il mancorrente sulla destra di metallo verniciato di verde. Perfino un odore indefinibile, di chiuso, cibo e disinfettante.
E’ arrivato in cima. Davanti a lui, in fondo a un corridoio, una soglia illuminata. Da là provengono le voci concitate che urlano e ridono. Su tutti spicca il tenorile di Beretta.
Si ferma in mezzo al corridoio. Non l’hanno ancora visto. Quanti saranno, si chiede? Ci sarà anche Lazzi? Cosa diranno appena lo vedranno entrare?
Non dirò niente a tutti gli altri. Dio buono, che sorpresa che sarà… Faranno delle facce!
What am I doing, here?, si chiede Bertola. Lui non c’entra niente con quel posto, quelle voci, quelle storie di sconfitta. E’ ancora in tempo per tornare indietro, per andarsene, per dimenticare.
Ma quel sogno. La voce di Lazzi è un comando a cui non può sottrarsi. Devi immergerti, Bertolino. Devi immergerti!
Bertola avanza e oltrepassa la soglia.
Girano tutti le facce verso di lui, e immediatamente scende il silenzio. Sono cinque o sei, intorno a un tavolo con tre sedie vuote. Bertola riconosce il faccione glabro di Beretta, incendiato da una specie di muto godimento.
Osserva meglio gli altri. Forse quello basso e stempiato è Cecco. Quello alto e mingherlino, pieno di forfora sul colletto della camicia, dev’essere Dattoli. Quello in piedi, il pancione prominente gonfio di birra sporgente sul tavolo… sì, è DeFresu. L’ultimo, seduto, ha gli occhiali e un’aria abbattuta; finalmente lo riconosce: è Castore.
Ha avuto il tempo di guardarli bene tutti, prima che qualcuno spezzi il silenzio.
– Bertola…? -, fa DeFresu, con la stessa voce chioccia di tanti anni prima.
– Bertolino? Cristo santo, sei davvero tu? -, Dattoli.
– Non ci posso credere… -, Cecco.
L’unico a non dire nulla è Castore. Anche lui non è cambiato. Anche all’epoca non diceva mai nulla.
– E allora, my friends, come state? -, esordisce Bertola, un po’ imbarazzato.
Si avvicina al tavolo. Con mosse studiate prende posto di fronte a Beretta. L’assenza di Lazzi gli ha infuso un po’ di coraggio.
Gli altri lo fissano, di nuovo in silenzio. Beretta sembra stupito. Poi scoppia a ridere. – Era questa la sorpresa, bastardi che non siete altro. Bertolino è tornato tra noi. Brindiamo al figliol prodigo!
Prende la fiasca di vino e riempie i bicchieri. Bertola lo sorseggia; uno schifo. Però si sente meglio.
Inizia il fuoco di fila di domande. Dov’era finito in tutti quegli anni? Che lavoro fa? Qual è l’ultima macchina che ha comprato?Non gli lasciano tempo di rispondere, che subito chiedono altro. Non sono ostili; solo curiosi. Perché aveva tutta quella paura?, si chiede. Sono solo dei poveri disgraziati, proprio come aveva previsto.
– E l’amore? Sei sposato, Bertolino?
Lui mostra la fede. – Of course, I’m married. E voi?
Si guardano tra loro, risatine.
– Divorziato da tre anni -, Dattoli.
– Io ho dieci mogli, le puoi trovare tutte le notti in via Pietro Cossa -, fa Beretta. Scoppia a ridere.
– Io per fortuna ho ancora una moglie che mi sopporta, forse perché è già sotto un metro di terra e mi guarda da lassù. – Bertola non capisce se Cecco scherza o parla sul serio.
– Perché non glielo chiedi a Castore se è sposato, Bertolino?
– Già! Avanti, chiedilo a Castore.
– Why? Are you married, Castore?
Altre risatine, occhiate complici. Castore non muove un muscolo. La sua faccia rimane impassibile
– Castore è frocio. Lo sapevi, Bertolino? Frocio dichiarato.
– Ah. – Bertola non sa come reagire a quella notizia, che aveva già intuito su Facebook.
– Vive con una sagoma che sembra uscita da Il Vizietto, di dieci anni più vecchia di lui, in un appartamento vicino alla Crocetta -, spiega Beretta. – Però Castore è anche furbo, perché la sagoma lo mantiene, e gli lascerà un mucchio di soldi in eredità. Comunque noi gli vogliamo bene lo stesso, e l’abbiamo perdonato. Vero, Castore?
– Basta che lasci stare il nostro culo, e poi Castore può fare tutto quello che vuole -, interviene DeFresu, grattandosi la pancia e tornando a sedere.
– Cristo, Bertolino, hai fatto carriera. Sei un manager, adesso. Uno di quelli che comandano.
– Io non ci posso ancora credere.
– Ma che cazzo ci sei venuto a fare, qui?
– Già. Guardatelo: ha avuto tutto dalla vita. Perché è venuto a ficcarsi in questa bettola? Perché vuole mischiarsi con noi?
– Piantatela! -, urla Beretta, facendo tremare le pareti. – E’ venuto in memoria dei vecchi tempi, non lo capite?
– Cosa? Vuole ricordare i vecchi tempi?
– Lui? Proprio lui?
– Ero curioso di rivedervi tutti -, risponde Bertola. – That’s all.
Si scambiano altre occhiate. Bertola ha l’impressione che si dicano qualcosa senza che lui se ne accorga. Quasi se l’intendessero alle sue spalle, usando un loro codice segreto.
– E ora che ci hai visti, cosa ne dici?
– Trovo che non siete cambiati per nulla. At all.
Lo guardano increduli, scoppiano a ridere.
– Sei troppo buono, Bertolino -, fa Beretta. Poi si rivolge agli altri: – Sono io che l’ho invitato, ragazzi. Merito almeno che mi paghiate la cena!
– A proposito di cena, io comincio ad avere fame -, interviene DeFresu. – Quand’è che si mangia?
– Non vedi che mancano ancora due compagni? -, fa Beretta, indicando le sedie vuote. – Impara l’educazione, DeFresu.
A quell’accenno una lieve inquietudine prende di nuovo Bertola. – Who are we waiting for? -, domanda.
Beretta e gli altri si guardano. – Ma come cazzo parli, Bertolino? – Sono scossi dai sussulti di risate a malapena trattenute.
– Chi… chi stiamo aspettando? -, ripete Bertola, improvvisamente a disagio.
– Stanno aspettando me, Bertolino -, si fa strada una voce dal corridoio.
Tutti si girano a guardare. Nell’ombra un rumore. Non sono i passi di una camminata normale. Il tonfo di una scarpa; il cigolio di due stampelle. Il tonfo di una scarpa; il cigolio di due stampelle.
Ora una sagoma riempie la soglia. Bertola lo riconosce subito. Per i capelli rossi spettinati. Per la piega incattivita del sorriso. Per lo sguardo puntato su di lui: gli stessi occhi azzurri, freddi e penetranti. Indossa un giubbotto di jeans liso, la gamba sana è avvolta dal pantalone di un’informe tuta nera. Puzza di qualcosa, forse medicine.
Nessuno dice nulla. Lazzi si avvicina a Bertola. Il moncone della gamba mancante, la sinistra, quasi gli sfiora la spalla. Bertola alza gli occhi per affrontarlo.
– Com’è che parlavi, prima? -, fa Lazzi.
– Co… come? – Bertola sa già che non reggerà quello sguardo troppo a lungo.
– Come cazzo parlavi, Bertolino?
– No… non capisco.
Gli altri assistono alla scena, muti e attenti.
– U ar ui ueiting for? E’ questo che hai detto? Che lingua è?
– E’ in… in…
– Qui siamo in Italia, Bertolino. Parla italiano. Altrimenti ti faccio sbattere fuori.
– Io… io – Bertola ha abbassato gli occhi.
Tonfo scarpa; cigolio stampelle. Tonfo scarpa; cigolio stampelle. Il rumore di qualcuno che si lascia cadere su una sedia, con un largo sospiro. Le stampelle che rotolano sul pavimento.
– Dai, Bertolino, scherzavo. Ma davvero hai fatto carriera? – La voce di Lazzi è secca come un tempo, ma ha acquisito una nota roca.
Bertola non riesce a rispondere.
– Tu hai fatto carriera, non si sa come. Io ho perso tutto. Perfino una gamba, hai visto?
Ancora silenzio.
– Rispondimi, Bertolino.
– Mi… mi disp… mi dispiace.
– Solo “mi dispiace”? Sei parco di parole. Come ai vecchi tempi.
– E’ perché gli hai tolto l’inglese dalla bocca. – Per la prima volta Castore dice qualcosa, e sembra che a parlare siano i suoi occhiali. – Prima favellava. Ora non riesce più a parlare. E’ perché gli hai tolto l’inglese dalla bocca.
– Cazzo, hai ragione. Una volta balbettava peggio di una pecora.
– Negli anni ha riempito con l’inglese i vuoti dei suoi discorsi.
– Che fenomeno. Dove l’hai imparato l’inglese, Bertolino? A Oxford o sui fascicoli di Speak-up?
Forse dovrebbe reagire, pensa confusamente Bertola. Prenderli a male parole, come fa coi suoi manager. Forse dovrebbe andarsene. Ma Lazzi… Cos’è che gli ha detto Lazzi, una volta? Devi immergerti. Immergerti fino in fondo. Ma perché? Lui non lo vuole. Cristo, lui non lo vuole.
– Ora possiamo iniziare a mangiare? -, DeFresu.
– C’è ancora una sedia vuota.
– E chi dovrebbe ancora venire? Con Lazzi e Bertolino ormai siamo al completo.
– Non siamo al completo. C’era un altro che voleva salutare Bertolino. E dirgliene quattro.
– Dirgliene quattro? E perché?
D’improvviso è tutto buio. E’ andata via la luce. O qualcuno l’ha spenta?
– Il blackout! Il blackout! -, grida Dattoli.
– Ma va, è uno scherzo!
– Guardate il corridoio! C’è qualcuno!
– Cosa?
– Fate silenzio. Silenzio! -, urla Beretta.
Nell’oscurità completa Bertola avverte un fruscio. Qualcuno si è avvicinato a lui, dalle sue spalle. Una presenza fredda.
Una mano posata sulla spalla, improvvisa.
Una voce sussurrata.
– Bertolino, ti ricordi di me?
– E’ Remigio! -, urla DeFresu.
– Ma che cazzo dici? Remigio è morto da tre anni -, Cecco.
– DeFresu ha ragione, è Remigio! Riconosco la sua voce -, Lazzi.
– Ma allora è un fantasma! -, ancora Cecco.
Risatine che corrono nel buio.
– Guardami in viso, Bertolino. Mi riconosci?
What the fuck are you saying? What the fuck are you doing? All you bastards and motherfucker people, fuck!, vorrebbe gridare Bertola, e poi fuggire via.
Invece si gira verso quella presenza. Una strana luminescenza illumina un viso pelle e ossa, scavato dalla malattia. I bulbi oculari sporgono come biglie venate di rosso.
– Sono proprio io, Bertolino. Lo sai quanto ho sofferto per quel tumore alla prostata? E poi sono morto. Perché non sei venuto al mio funerale? Cristo santo, perché? Ti saresti riscattato. Saresti diventato uno dei nostri, finalmente. Uno dei nostri.
Il ghigno cadaverico si accentua.
Bertola si alza di scatto. Spintona la presenza di lato, di qualunque cosa si tratti. Fugge attraverso il corridoio buio.
Da dietro si sente uno scoppio di risate.
Giù per le scale, a capofitto. La vetrata della seconda rampa. Il giardino incolto, là fuori. Ci sono delle giostre per bambini abbandonate. Le ha già viste da qualche parte. Ma è solo un flash. Ora è al piano terra.
Bertola si ferma di botto. Cosa è successo?
Non c’è più l’ingresso con il bancone.
C’è un altro corridoio, larghissimo, con tante porte.
Bertola avanza, circospetto, spaesato. La prima sulla destra ha una targhetta con su scritto: “Sala mensa”. Sulla seconda: “Segreteria”. Sulla terza: “Presidenza”.
L’angoscia prende Bertola in tutto il corpo. A malapena si regge ancora in piedi. Ora capisce perché quelle scale gli erano familiari. E le giostre, là fuori. Perfino il colore marroncino sporco delle pareti, e l’odore di cibo scaduto dalla mensa.
Lazzi, Remigio, Beretta, Dattoli, DeFresu e tutti gli altri lassù. Si tratta di uno scherzo. Uno scherzo elaborato. Ma lui non cederà. Lui è più forte di Lazzi. Lui ha vinto, nella vita.
Dall’angolo del corridoio spunta una signora. E’ la stessa che era dietro il bancone. Solo che indossa un grembiule grigio. Sta scopando il corridoio senza troppa convinzione. Ecco perché la ricordava. La bidella Maria.
– Signora Maria… signora Maria! -, la chiama. Le si avvicina.
Lei cessa di scopare, si gira a guardarlo. – Sì?
– Per favore… where is the exit?
Una smorfia, un sorriso trattenuto. – Come dice, scusi?
– Do… dov’è l’uscita?
Proprio in quel momento suona la campanella. Il corridoio immediatamente si riempie di adolescenti. Corrono da tutte le parti, senza dar segno di vederlo. Bertola è al limite dello svenimento. Dev’essere un sogno. Non può trattarsi che di un sogno. Anzi, è un incubo.
La bidella è sparita. Visi familiari lo incrociano. I vecchi compagni di classe. Vengono tutti da quella porta là in fondo a sinistra. Su di essa un cartello con su scritto “I D”. Lui era là dentro. Lui era là dentro.
Il cuore perde un colpo, mentre alla memoria si affacciano i ricordi.
Non poteva uscire subito dall’aula. Doveva aspettare. Qualcuno controllava che non scappasse.
E infine là dentro sarebbero rimasti soltanto più loro. Bertola: la vittima; Lazzi: il carnefice; Beretta, DeFresu, Remigio, Castore, Dattoli e pochi altri: il pubblico. Spettatori non paganti, pronti a partecipare attivamente allo spettacolo.
Qualcuno a fare il palo alla porta, ma non sempre, che tanto i professori se ne fregavano.
Il corridoio si è quasi svuotato, la porta è sempre chiusa. Bertola si avvicina. Accosta l’orecchio al battente. Sente un rumore di voci.
Nonostante la paura, nonostante il groppo che gli chiude la gola. Appoggia la mano sulla maniglia. Apre di uno spiraglio. Sbircia all’interno.
Un secchio pieno d’acqua, in mezzo all’aula. Ci stanno pisciando dentro: DeFresu, Lazzi, Cecco, Dattoli e Castore. Si, anche Castore. Che facce pulite che avevano in quegli anni. Come sono differenti rispetto a quelle deformate dalla vita che ha visto poco prima. Eppure li riconosce, perché adesso li ricorda bene.
Un ragazzino tenuto fermo da altri due, poco distante. I due sono Remigio e Beretta. Il ragazzino è lui.
Si riconosce, e subito si rende conto di una cosa. La sua faccia non è cambiata. La sua faccia, invece, è sempre la stessa.
Hanno finito di pisciare. Si scrollano i piselli e si chiudono la patta. Si avvicinano col secchio agli altri tre. Lazzi si piazza davanti al Bertola bambino.
Bertola non riesce a muoversi. Potrebbe intervenire? Non ha importanza: nulla cambierebbe.
Quella storia è già stata scritta.
Nel silenzio dell’aula svuotata, è Lazzi a parlare.
– Allora, Bertolino, vogliamo di nuovo provarci?
L’interpellato non risponde. Ha la faccia pallida. Gli occhi semichiusi. Le labbra secche e tirate.
– Eppure è facile. Devi dire questa frase tutta intera, senza mai incepparti.
– Che frase, Lazzi? -, chiede DeFresu.
– Che cazzo di frase vuoi che sia? La solita. Sempre la solita, no?
– Dai, cambiamola una volta. Sono giorni che tentiamo di fargliela dire, è inutile, non ci riesce.
– E invece no. Deve dire proprio quella.
Lazzi fissa il Bertola bambino negli occhi: – La ricordi la frase, no?
L’altro non muove un muscolo.
– Il mio nome è Bertolino, sono proprio un bravo bambino, anche se piccolo ho il pisellino, e quando parlo sembro un cretino. Avanti.
Silenzio.
– Avanti! -, urla Lazzi.
Dov’erano i professori? La bidella? Gli altri compagni di classe?, si chiede Bertola.
Ancora silenzio.
Lazzi sferra un calcio all’anca del Bertola bambino. Con la gamba sinistra, la sua gamba preferita. Quella che a calcio gli fa segnare tanti gol nella squadra locale.
– Ahia! -, urla il colpito.
– Allora la voce ti è tornata! Avanti, ripeti la frase! Se no te ne do un altro, e questa volta miro alle palle, sempre se ce le hai.
Il piccolo Bertola chiude gli occhi. – Il mio nome è… è…
Bisbigli, risatine. Lazzi fa cenno di tacere. – Forza, Bertolino. Dai che ce la fai.
– Il mio nome è Bertolino, sono proprio un bra… bravo bambino…
– Ahia. Cominciamo male, Bertolino. Cominciamo proprio male.
– …bravo bambino, anche se pi… piccolo ho il pi… pi… pi…
– Pi, pi, pi, pi, pi… -, urlano gli altri, chiudendo a scatti le mani a cono, come se imitassero tanti pulcini.
– Silenzio! Questa è la parola più importante, Bertolino. Devi pronunciarla bene, e tutta intera. “Pisellino”. Avanti…
– Pi… pisellino, e quando pa… parlo se… sembro un cre… cre…cre…
– Cretino, porca troia! Cretino! -, urla Lazzi, lasciando partire un altro calcio con la gamba sinistra, esattamente nello stesso punto di prima.
Bertola adulto chiude gli occhi. Quella frase. Passava ore, a casa, a pronunciarla allo specchio. Finché non riusciva a dirla tutta intera senza incepparsi. Ma davanti a Lazzi non ci riusciva mai. Mai.
– … cretino -, finisce il Bertola bambino, quasi non avesse sentito l’ultimo calcio.
Lazzi si gira verso gli altri. – Che ne pensate? Promosso o bocciato?
DeFresu: pollice verso. Cecco: pollice verso. Dattoli: pollice verso. Castore, che non parla quasi mai: – Bocciato.
– Bene. Bocciato. Avvicinate il secchio.
Il Bertola adulto chiude gli occhi. No, deve guardare. Li riapre.
Il Bertola bambino comincia a dimenarsi. Urla. Si mettono in quattro a tenerlo fermo.
Lo costringono ginocchioni, la testa sul secchio.
– No, vi prego. No!
– Vedi come parli bene, adesso? Dovevi farlo prima.
– Nooo!
– Devi immergerti, Bertolino. Devi immergerti!
Lazzi spinge con la mano la testa del Bertola bambino dentro il secchio.
Oh, Cristo, pensa il Bertola adulto.
Passano i secondi. La testa è nel secchio, nell’acqua mischiata al piscio dei suoi compagni. Sono secondi eterni. Secondi che si congelano. Secondi che chiudono ogni futuro.
Non riesco a respirare… Non riesco a respirare!
– Ricordati bene, Bertolino. Finché non imparerai a parlare come si deve, avrai sempre la testa immersa nel nostro piscio. Hai capito? La tua testa immersa nel nostro piscio.
Finalmente Lazzi molla la presa. La testa del Bertola bambino scatta su come una molla. Il fiatone gli esce dalla bocca a grandi folate ravvicinate.
Anche il Bertola adulto sente l’aria ritornare.
– Bene, lo spettacolo è finito. Prendete il secchio. Andiamo.
Ora li vede che si voltano verso di lui. Si avvicinano a grandi falcate. Ha lasciato aperto lo spiraglio della porta. Non possono non vederlo. Ma succede qualcosa.
E’ di nuovo tutto buio. Eppure li vede, quei sette che camminano verso di lui. Lazzi davanti a tutti. Subito dietro, Beretta. E poi Cecco, Remigio, Dattoli, DeFresu e Castore.
Mentre camminano, qualcosa in loro cambia. Crescono e insieme si deformano. I visi si disfano in smorfie di dolore. Le pance si gonfiano come otri. E Lazzi. Lazzi ora non ha più la gamba sinistra, la stessa con cui l’ha preso a calci poco prima. Al suo posto un moncone informe. Tonfo scarpa; cigolio stampelle. Tonfo scarpa; cigolio stampelle.
– Bertolino, perché sei fuggito? -, è proprio Lazzi a rivolgergli la parola.
Bertola si guarda intorno. La luce da dietro è quella della sala al secondo piano. Sono di nuovo nel corridoio semibuio.
– Già, perché sei fuggito?
– Era tutto uno scherzo.
– Guardalo, Remigio, guardalo bene. Non lo riconosci?
L’uomo dal viso scavato è ora illuminato dalla luce. Sì, lo riconosce. E’ Cavallini, che un poco a Remigio ci somigliava.
Cavallini sorride. – Ho recitato bene, eh, Bertolino? Ti sei spaventato?
– Ma no. Lui è abituato a ben altri spaventi. Non è vero, Bertolino?
Bertola fissa Lazzi in viso.
– Cosa c’è? Vuoi dirmi qualcosa?
– Io… io…
– Avanti, Bertolino. Non fare il timido. Cos’è che vuoi dirmi?
Dopo qualche istante di attonito silenzio, in cui tutti lo guardano come in attesa, finalmente Bertola apre bocca. Ciò che pronuncia gli esce di getto, in un unico fiato. E’ come se le sputasse, quelle parole; come se le vomitasse lì sul pavimento, una dopo l’altra, tirandole fuori da chissà quale anfratto.
– Il mio nome è Bertolino, sono proprio un bravo bambino, anche se piccolo ho il pisellino, e quando parlo sembro un cretino.
Gli altri l’hanno seguito con occhi fissi, scavati, eppure attenti a ogni movimento delle labbra.
Sono rimasti senza parole.
Lazzi ha gli occhi sgranati. – Porca puttana. Complimenti, Bertolino. Che ne dite voialtri?
– E’ stato perfetto.
– Promosso?
– Promosso a pieni voti.
– Finalmente ce l’hai fatta, Bertolino. Ci sono voluti tanti anni, ma finalmente hai superato l’esame. Bravo. – Lazzi gli allunga una pacca sulla spalla.
Bertola annuisce. Si sente come se l’avessero svuotato di qualcosa da dentro. Ha una fame da lupo.
– Quand’è che si mangia, porca puttana? -, domanda.
E’ quello che mi chiedo anch’io -, fa DeFresu. – Ehi, laggiù! -, urla verso le scale, facendo ballonzolare il ventre prominente. – Portate su gli antipasti, che si comincia!