Il badante azzabbì
un racconto di Mohamed Malih (*)
È un bel ragazzo, nulla da dire. Alto, longilineo, con un baffetto che non lascia scampo. I baffetti sono l’unica peluria, poiché è calvo ed è sempre sbarbato. Il suo viso, eternamente imporporato,
l’insieme dell’ovale, garbatamente appuntito, e del cranio allungato, stagliano un profilo senz’altro aerodinamico. Simili caratteristiche gli conferiscono, se ti capita di vederlo mentre s’aggira per il centro verso le tre del pomeriggio, in piena calura, un fare da sloughi (pregiata razza canina caratteristica del deserto maghrebino).
Questo bel ragazzo ha un tarlo che lo rode. Con me si confida e posso ben dire di conoscerlo a fondo, il suo tarlo. Quando era ancora senza documenti, ha dovuto accettare di lavorare presso una facoltosa famiglia, per mettersi così in regola. Ora il permesso ce l’ha ed è da tre anni che continua a fare il badante. Quando gli chiedono che lavoro faccia lui risponde: l’autista. In effetti fra le sue mansioni c’è anche quella di portare fuori Jannuta due volte al giorno per farlo camminare. Jannuta sta per Gianni: il suo assistito affetto da Parkinson. La mattina verso le dieci lo carica in macchina e vanno a camminare al porto. Stessa operazione verso le 5 del pomeriggio. Quindi dire che fa l’autista non è troppo sbagliato. O meglio, non è una bugia bensì una parte della verità. Sulla verità tutta intera è meglio glissare. Perché il tarlo che rode il mio amico è appunto dover lavorare come badante. Un impegno turpe, inaccettabile. Un’etichetta fastidiosa. Soprattutto quando era costretto a portare fuori il suo assistito a spasso per il centro. Passare a braccetto di Jannuta per la piazza del paese era un supplizio. Si sentiva scrutare dagli occhi dei compaesani, deriso e/o compatito. Quando si confida con me ingiuria il suo mondo occupato da Jannuta. È solito ripetere «che differenza c’è tra me e quella signora ucraina? almeno lei è donna, io invece sono un uomo, azzabì! Io parlo con te perché sei come un fratello. Un giorno, credimi, li mando affanculo tutti. Loro e il loro permesso di soggiorno. Azzabì, che ci faccio con quei due soldi che mi danno al mese… capisci?… Io azzabì ne esco matto. Ogni mattina devo vedere il suo uccello, sento la sua merda, ogni mattina… lo vesto, gli faccio la doccia… sento le sue scoregge… azzabi… ogni mattina. Poi lo porto fuori, fresco rasato e profumato… azzabi non è mica mio padre. È da tre anni che sono con lui e lo vedi, lui sta bene, mentre io sto sempre peggio. Alle 8 e mezzo vado da lui, lo alzo, lo porto in bagno… azzabì… e vedo il suo cazzo, io… che sono uomo. Azzabì. Poi lo porto a tavola e gli faccio fare colazione. Lo riporto di nuovo in bagno. E meno male che a pulirgli il culo per ora ci pensa la moglie. Ma credimi, è solo questione di tempo. Un po’ alla volta quella megera mi farà arrivare al punto che a pulirgli il culo sarò io. Perché azzabi io me lo sento. Alla fine a fare questo lavoro… capisci?… un po’ alla volta… te lo giuro… credimi… so quel che dico… un po’ alla volta… mi capisci? Azzabì, uno diventa frocio. Sì è così. Dai! È così, non prendiamoci in giro!».
Questo è il mio amico algerino, che come ho detto è anche un bel ragazzo. Caratteristica che occupa l’altra “metà” del suo mondo adesso. Mi dice spesso che lui le donne le conosce bene, altroché. Praticamente quando ci vediamo i suoi argomenti sono: le donne e lamentarsi del suo essere badante. Mi dice che l’ora migliore per cuccare è dalle 3 alle 4 del pomeriggio perché, secondo una sua teoria, a quell’ora le donne che vanno in giro sono facilmente abbordabili e, a saperci fare, c’è un’alta probabilità di portarle a letto.
«Azzabì lo vedi… io non ho nessun problema con le donne. Non c’è niente da fare, è la verità. Mi capisci? È un dono azzebì… c’è chi sa far di conto, chi è portato per le lingue… Che ne so azzebì, io ho questo dono azzebì, giuro, mi basta un’occhiata…una te lo dico subito se ci sta o no. Non te lo dico per vantarmi… ma mi stai a sentire? Azzabì, sai quante ne ho scopate qui a Senigallia… non c’è parco dove non l’ho fatto… ucraine, moldave, sudamericane… quella della colombiana te l’ho raccontata?… Mica solo lei… una me l’ha detto chiaramente che noi arabi siamo i migliori… ma non è che l’ha detto così tanto per dire… glie l’ho dato per bene, ti giuro, azzabì sette volte… mi credi, vero? Sette volte. Eravamo ancora a letto, nudi come vermi, quindi sotto gli occhi, stremata azzabì, aveva la prova, aveva l’esempio in carne ed ossa per poter dire che «come gli arabi, nessuno»… certo, lo capisci, intendeva «come me…». Non so tu… io parlo per me. Non l’ho fatta dormire… a un certo punto mi ha detto «basta ora abbracciami e dormiamo»… io niente. Sono andato in cucina e ho preparato un termos di caffè… poverina. Però credimi, se ora una viene da me e me la strofina sul naso, le dico «va via azzabi… lasciami in pace». Quando penso al lavoro che mi tocca fare, soprattutto io, capisci, azzabì. Quando penso alla puzza di merda la mattina, io che sono uomo, azzabì, ti ho descritto le mie imprese, vedere l’uccello di Jannuta la mattina, che sta là interi quarti d’ora ad asciugarsi quel coso molle… azzabì. E io dietro, a tenerlo altrimenti casca..quando penso a queste cose non m’interessa più della figa..azzebì».
E le foto lo portano giù, nell’abisso caldo della memoria che affiora, dentro la vita di prima, sotto la nebbia della vita dei cazzi penduli e delle donnette facili di cui lui, azzabì, altrettanto facilmente si dispera e vanta.
«Mi credi azzabì… sai che cosa mi ha detto mia figlia l’ultima volta che sono stato a casa? Mi ha detto “Papà stai qui, con noi… anche se mangiamo solo pane e cipolla… ma stai con noi”. Io sono tranquillo perché c’è il vecchio con loro, che con quello che gli mando, e con la pensione, manda avanti tutta la famiglia. Guarda le foto. Questi sono i figli e la mamma. Anche la casa, vedi, tutto nuovo… azzabì casa mia è meglio di quella della megera… che lei si crede tanto pulita ma appena entri in casa senti un tanfo fitto, come di polvere sotto il tappeto. In garage ho una macchina che è meglio di quella del figlio di Jannuta. Prima di venire in Italia avevo un piccolo pulmino e facevo il taxista abusivo. Ho tre figli piccoli a cui non ho mai fatto mancare niente. Ora stanno con il vecchio e vivono con la sua pensione e con quello che ogni tanto riesco a fargli avere… Azzabì. E io devo stare qui, a fare questo lavoro da donna. Mi sento in trappola… Non lo so… a volte penso che quella piovra ruvida della moglie mi metta qualcosa nel cibo… ma sto cominciando un po’ ad aprire gli occhi. Prima, quando avevo ancora il problema del permesso… ero come vuoto dentro… mi diceva “fai quello” e io sempre con la testa bassa, che cosa dovevo fare? Se mi avessero tolto pure il lavoro e cacciato da qui che cosa avrei potuto fare… tornavo a casa per sentire la mamma paragonarmi al fratello piccolo? e io più grande, azzabì, sempre con le tasche vuote e dietro i pantaloni dello jannuta di turno… ma non sono stupido, basta c’est fini… anche loro hanno capito che non sono idiota. Adesso mi trattano con i guanti… sanno che se vado via io… C’est fini. Ma allora mi pagassero come si deve, non chiedo chissà cosa. Un giorno di questi lo dico al figlio di Jannuta, gli dico “ascolta, sono un lavoratore non uno schiavo. Io ti faccio stare tranquillo… al babbo tuo ho sempre pensato io… se sei furbo ti conviene darmi tutto quello che chiedo… se no vieni a seguirlo personalmente.. azzabì”. Anche Jannuta guarda che non è sprovveduto. Quello capisce più di tutti… azzabì. Quando è con i figli diventa un altro, non è più rigido, quasi assente… parla normale, ascolta e risponde a tono, e si muove rapido. Quando ad esempio sa che uno dei figli lo aspetta a casa… azzebì le scale le fa quasi correndo… quando è solo con me devo spingerlo e nemmeno mi dà una mano, lo devo portare su quasi di peso. E poi sono l’unico badante che tenga per il braccio il proprio assistito… li vedi, gli altri vecchietti con le loro badanti: sono loro che si tengono saldi al braccio delle badanti… Una cosa che mi manda in bestia in un modo che non immagini, azzabì… sono i necrologi… si mette a leggerli uno per uno… ma non solo i necrologi a caratteri cubitali su qualsiasi cosa di stampato che incontri per strada: tutti i manifesti di tutti gli eventi. Non parliamo poi di quando arriva davanti all’edicola… tutto deve leggere… ma ci mette una vita, e non si scolla da lì. Io cerco di tirarlo via, ma senza esagerare davanti alla gente… e lui niente, come un mulo. Azzabì, è perfido… e meno male che è malato… e poi mi fa fare delle figuracce. Fissa tutte le ragazze in maniera oscena… azzabì che guardi? Con quel coso svenuto azzabì, che schifo. E poi quando lo porto all’università per anziani, vuole mettersi in prima fila… io azzabì mi muovo, esco ogni tanto a fumarmi una sigaretta. Quando finisce la lezione Jannuta vuole fare anche le domande. Faceva l’insegnante, non è stolto per niente. Legge due giornali al giorno, uno sportivo e “La Repubblica”. È abbonato a un mensile di scienza e a uno dedicato ai consumatori. Non è scemo azzabì. Ma almeno le facesse da seduto, le sue domande assassine… no niente, vuole alzarsi in piedi… e io lo devo reggere davanti a tutti finché… E’ perfido. Puoi leggerlo tu stesso dai suoi comportamenti indecenti. Lo portavo in un bar, io prendevo un caffè e lui si metteva a leggere il giornale. La barista mi faceva gli occhi dolci. Le piacevo… azzebì… tanto lo sai. Ma il giorno che mi ha visto accompagnarlo in bagno ed entrarci con lui… è cambiata. Ma è normale azzabì, uno che fa il badante diventa piccolo agli occhi della gente… un parassita, senza midollo. È un bastardo. Ora ho cambiato bar e mentre jannuta legge il giornale io leggo dei versetti del Corano. E ho ripreso anche ad andare in moschea, quando posso. Altrimenti ne esco pazzo. Ti giuro azzabì».
(*) ripreso da http://www.immezcla.it/concorso/item/667-il-badante-azabb%EF%BF%AC.html