Il braccio violento della legge
di Alexik (da http://illavorodebilita.wordpress.com/)
L’assoluzione di Antonio Bassolino e dei vertici Fibe/Impregilo per le accuse relative alla gestione del ciclo dei rifiuti non rappresenta una particolare novità. Sono 20 anni, infatti, che per le responsabilità connesse al disastro ambientale in Campania – forse il peggiore nella storia del paese – lo Stato assolve se stesso e l’imprenditoria coinvolta.
Liberali molto liberi
I primi a fruire di questa lunga e benevolente tradizione furono, all’inizio degli anni ’90, i vertici del Partito Liberale, indicati dai pentiti di camorra fra i beneficiari dei proventi del traffico di rifiuti tossici verso le province di Napoli e di Caserta.
Qualche anno prima era stato Ferdinando Cannavale – imprenditore vicino al PLI – a proporre ai clan di Casal di Principe, di Pianura e dell’area flegrea di partecipare a un cambio nella destinazione dei flussi di merda chimica prodotta dall’industria nazionale. Prima di allora prendevano la strada dell’Africa, o dei fondali marini, ma queste modalità di smaltimento stavano diventando sempre più problematiche.
L’accordo prevedeva che la camorra destinasse al PLI una percentuale del “fatturato”, in cambio delle autorizzazioni necessarie per importare rifiuti da fuori regione nelle discariche di imprenditori campani interni al sodalizio. Per le autorizzazioni e per la messa a tacere di ogni forma di controllo pubblico garantiva Raffaele Perrone Capano, assessore all’ecologia della Provincia di Napoli e uomo forte di De Lorenzo (ai tempi ministro della sanità). In cambio, delle 25 lire pagate dalle industrie per ogni chilo di rifiuto 10 finivano a Perrone Capano e al suo partito. Inoltre, i casalesi si impegnavano a sostenere elettoralmente i liberali, i cui “consensi” aumentarono vertiginosamente nelle zone i influenza.
Fu così che migliaia di tonnellate di rifiuti chimici – fanghi industriali, scarti di conceria, residui di verniciatura, solventi, contenitori di materiali radioattivi, fusti provenienti dall’ACNA di Cengio – cominciarono a riempire discariche autorizzate solo per i rifiuti solidi urbani, e quando queste non bastarono più vennero diffusi sul territorio. Spesso finirono nelle cave delle subforniture dell’Italstrade gestite dalla camorra. Scavi profondi, a ridosso delle falde acquifere. Tanto le autorizzazioni di Perrone Capano, formalmente, coprivano tutto.
Perrone Capano fu incriminato nel ’93 nell’ambito dell’inchiesta Adelphi. Se la cantò subito: “Ho preso soldi in cambio delle concessioni per le discariche – disse – Prendevo 10 milioni al mese da Cannavale che mi risulta girasse ad Altissimo parte di quei 100 milioni al mese che incassava dai proprietari delle discariche. Come finanziamento al Pli“.
L’ex assessore si fece, in pratica, qualche giorno ai domiciliari. Venne condannato in primo grado e poi assolto in appello per falso, mentre le accuse per corruzione e abuso d’ufficio caddero in prescrizione nel 1999. Al termine della carriera politica tornò tranquillamente alla sua cattedra di Diritto Finanziario presso la Facoltà di giurisprudenza dell’Università Federico II di Napoli, dove tuttora insegna. Per i fatti in oggetto, il segretario del PLI Renato Altissimo fu appena infastidito da un avviso di garanzia, De Lorenzo neanche da quello.
I prescritti di Cassiopea
La tradizione dell’impunità venne rinverdita anni dopo, con lo sfumare nella fuffa dell’inchiesta “Cassiopea” (la “madre di tutte le inchieste” sulle ecomafie) che raggiunse il record di novantasette imputati prescritti. Si trattava dei componenti di una fitta rete imprenditoriale, fatta di intermediari, trasportatori e smaltitori – 61 società dislocate in tutta Italia – che aveva impresso al business dei rifiuti tossici un salto di qualità. Colletti bianchi, consulenti in doppiopetto al servizio dei poli industriali di Piemonte, Lombardia, Emilia Romagna, Veneto e Toscana, si imponevano sul mercato dello smaltimento con prezzi concorrenziali, pari a un decimo di quelli correnti. Impossibile che la clientela, principalmente industrie siderurgiche, metallurgiche, cartarie e conciarie, fosse ignara della vera natura dell’attività.
Fu in questa fase che venne sperimentato con successo “il giro di bolla”. I rifiuti speciali, classificati come tossici, approdavano ai centri di stoccaggio di Toscana e Umbria e ne uscivano come “non pericolosi”. Ovviamente non scendevano dal camion, ciò che cambiava era solo il formulario. Dopo il “giro di bolla”, via libera in direzione sud, fino alle destinazioni finali; cave, canali, laghi, terreni agricoli, fondamenta di edifici …
L’agro aversano, intorno ai comuni di Grazzanise, Cancello e Arnone, Carinaro, S. Maria la Fossa, Castelvolturno, Villa Literno, ha ricevuto in questo modo circa un milione di tonnellate rifiuti industriali in 15 anni, tra cui polveri da abbattimento fumi dei siderurgici, ceneri da combustione, morchie oleose, scarti di conceria, residui di verniciatura, solfuri, amianto, fanghi dei depuratori, acque reflue di processo, melme acide, scorie di fonderie.
Nel settembre 2011 la prescrizione ha salvato il culo ai numerosi “professionisti del settore” (anche se rei confessi) coinvolti nell’inchiesta. Del resto perché condannarli, visto che diedero il loro contributo alla prosperità di interi comprensori produttivi, provvedendo a rimuovere i lacci e lacciuoli che frenano lo sviluppo della libera impresa. Il colpo di spugna non ripulisce solo loro, ma l’intera rete dei loro committenti. La faccia dell’industria italiana rimane pulita e ben lontana dalle cronache.
Montefibre: Ego te absolvo
Continuando il nostro viaggio nel girone degli impuniti ci imbattiamo in quelli che furono i vertici degli stabilimenti Montefibre di Casoria e Acerra, assolti nell’agosto 2012 dalle accuse di omicidio colposo plurimo, disastro colposo e omissione delle cautele antinfortunistiche.
Nel 2000, le denunce dei parenti di trecentoventi lavoratori morti di cancro avevano portato all’apertura di un’inchiesta presso la procura di Nola. Gli operai avevano lavorato per anni a contatto con un nutrito cocktail di inquinanti, compresi cancerogeni quali amianto, benzene, aldeide formica e acetica, ossido di etilene, idrazina, cloroformio, clorofenoli, nero fumo, radiazioni ionizzanti. Le condizioni di lavoro erano le seguenti:
“Nel reparto filatura-sala Peck dove ho lavorato, vi erano dei preriscaldatori dove venivano posizionati i peck freddi e riscaldati ad una temperatura di 292 gradi. Dalla combustione si sprigionavano dei fumi e gas mal odoranti che invadevano l’ambiente di lavoro. Ricordo che i lavoratori presenti respiravano direttamente tali fumi nell’assenza di maschere di protezione”.
“Posso dire che fino al dicembre 1991 ho lavorato a contatto con l’amianto che era presente nei macchinari (cuscini di coibentazione) che toccavamo con mano rivestite da guanti di amianto nude e che perdevano polveri di amianto dovute allo scoppi del peck”.
“Io ero anche esposto a radiazioni perché vi sono all’interno dello stabilimento sorgenti radioattive situate su colonne distillazione e serbatoi. Noi eravamo muniti di una piastrina dosatore che doveva registrare la quantità di radiazioni. Questa piastrina veniva periodicamente prelevata dagli addetti alla sicurezza. La piastrina veniva mandata forse a qualche laboratorio per analizzare la quantità di radiazioni.”
“Nel laboratorio chimico morirono più di dieci operai nel giro di una quindicina d’anni, uno dopo l’altro, all’improvviso, a causa delle inalazioni e del contatto con le sostanze utilizzate per analizzare i prodotti. Un piccolo impianto pilota realizzava le analisi al polimero che usciva dall’impianto di polimerizzazione, e veniva utilizzato un prodotto cancerogeno, l’ortoclorofenolo, il cui fetore s’impregnava nei panni e restava appiccicato addosso per una settimana”.
Nel corso del processo, il numero dei morti sul quale insisteva il procedimento si ridusse ad 88 perché si vollero considerare solo i decessi amianto correlati. In più di 200 vennero esclusi perché “stabilire il nesso di causa-effetto tra la presenza di sostanze cancerogene in fabbrica e i lavoratori morti per colpa di questa presenza è cosa difficilissima”.
Il famoso nesso causale, alla fine, fu dimostrato solo per sei casi, mentre la colpa a carico di sei imputati su sette venne sancita per un solo operaio morto. Assoluzioni per tutto il resto. Perché per avere giustizia non basta l’evidente presenza di cancerogeni, non basta morirne, bisogna morirne in numero “statisticamente significativo”, e spesso non è sufficiente neanche questo.
E il braccio violento della legge ?
Questo breve excursus su nocività e impunità finisce qui, ma non vorrei rimanesse impressa nel lettore l’immagine di uno Stato debole e imbelle, incapace di dimostrare inflessibilità e fermezza nel corso della guerra chimica contro le genti della Campania. Al contrario, egli si è dimostrato sempre efficientissimo quando si è trattato di sfoderare il braccio violento della legge contro le popolazioni avvelenate, contro i dimostranti di Acerra, Pianura, Terzigno, Chiaiano, in lotta contro gli inceneritori, le discariche e la distruzione delle loro vite.
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Fonti:
Alessandro Iacuelli, Le vie infinite dei rifiuti. Il sistema campano, Rinascita Edizioni, 2008, 285 p.
Giovanni Marino, Conchita Sannino, Sette giudici amici della camorra, “La Repubblica”, 01 aprile 1993.
Giovanni Marino, PLI – Camorra: patto della spazzatura, “La Repubblica”, 30 marzo 1993.
Antonio Salvati, Inquinatori sì, ma prescritti. In fumo l’inchiesta “Gomorra“, La Stampa, 18 settembre 2011.
Andrea Bottalico, Montefibre, autopsia di un avvelenamento, “Napolimonitor”, 9 agosto 2012.
Procura della Repubblica di Nola, Consulenza Tecnica Stabilimento Montefibre di Casoria e Acerra, 11 febbraio 2005, p. 362.