Il business della sanità e le liste d’attesa
di Giorgio Cavallero (ripreso da volerelaluna.it)
Le liste d’attesa sempre più lunghe e talora inaccessibili sono, nella sanità, un dato di fatto, un’evidenza ingombrante nonostante i numerosi tentativi di occultamento. Recentemente, dopo i richiami della Corte dei conti, la magistratura ha ribadito che non è lecito chiudere le agende delle prenotazioni, ma non è raro che vengano fissati appuntamenti con scadenze superiori anche a dodici mesi.
Ovviamente la lunga lista d’attesa colpisce coloro che non possono pagare di tasca propria nel privato o in intra moenia e coloro che non riescono ad aggirarle con sistemi clientelari o utilizzando artifici leciti (o ritenuti tali). Esistono, infatti, diverse “facilitazioni” per l’accesso alle prestazioni sanitarie: il pagamento di polizze sanitarie, l’adesione a fondi di sanità integrativa, le convenzioni di categoria, i sistemi di “welfare aziendale” sono forme di sanità complementare che prevedono dei benefici fiscali e incentivano così una parte della popolazione sottraendo risorse al sistema e, in definitiva, alla generalità degli utenti. E ci sono, poi, forme di agevolazione più ambigue: per esempio in alcuni casi pagando un supplemento è possibile tagliare la coda. Tutto ciò mentre viene giustamente richiesto ai medici di base di indicare e certificare l’urgenza della prestazione. Nel contesto descritto, è evidente che la priorità dell’accesso è dettata quasi esclusivamente dal reddito del paziente e dalla sua capacità di pagare o dalla sua appartenenza a categorie protette, mentre l’urgenza e la gravità della patologia diventano spesso un criterio secondario. Si stravolge, così, il dettato costituzionale: perché la salute non è più un diritto fondamentale e perché, paradossalmente, mentre la Carta afferma che la Repubblica «garantisce cure gratuite agli indigenti» sono proprio questi ultimi a non avervi accesso e a non essere garantiti. La conseguenza è un gravissimo problema di equità, di credibilità delle istituzioni e, in ultima analisi, di carenza di democrazia reale.
Lo scorso 18 aprile 2024 Istat ha stimato che, nel 2023, 4,5 milioni di italiani hanno rinunciato a visite mediche per motivi economici e liste di attesa troppo lunghe. In questo quadro, in particolare per le classi più povere, il ricorso al Pronto soccorso diventa l’unica possibilità per ottenere un accesso tempestivo alle cure. Tuttavia l’ingorgo dei servizi di emergenza costituisce un ulteriore problema per il sistema sanitario e per tutta la popolazione oltre che uno strumento anomalo, costoso e inadeguato per gestire le problematiche legate alla cronicità, alla non autosufficienza alla prevenzione e alla cura delle patologie non acute. Non curare una parte della popolazione o curarla in regime di urgenza non è un risparmio: non a caso la Costituzione (i Costituenti erano memori di quanto avvenne con “l’epidemia spagnola”) afferma che la salute è non soltanto «un fondamentale diritto dell’individuo» ma anche «un interesse della collettività». Le infezioni da Covid hanno ulteriormente dimostrato che la salute di ciascuno dipende inesorabilmente anche dal quella degli altri e che è pericoloso e sconveniente anche dal punto di vista economico avere delle sacche di popolazione prive di assistenza sanitaria. Paradossalmente la recente pandemia ha determinato un aumento esponenziale delle sottoscrizioni di polizze sanitarie individuali anziché di investimenti durevoli e strutturali per la sanità pubblica. A fianco della crescita della popolazione esclusa dalle cure, si crea così una grande massa di cittadini che, per curarsi, ricorre al pagamento in proprio. Conseguentemente, la carenza di servizi sanitari costituisce un fattore di impoverimento di una larga fascia di popolazione.
In Italia, la spesa sanitaria out of pocket, comprendente tutte le prestazioni sanitarie erogate ai cittadini che prevedono un esborso di denaro da parte dell’utente, continua inesorabilmente a salire. Come ha rilevato il monitoraggio della spesa sanitaria 2023 pubblicato dalla Ragioneria dello Stato, la spesa sanitaria a carico dei cittadini è passata da 28,13 miliardi nel 2016 a 40,26 miliardi nel 2022, con un incremento, solo nell’ultimo anno, del 8,3%, raggiungendo il 22,9% della spesa complessiva contro una media europea del 15,7%. In definitiva i tagli alla sanità pubblica hanno creato un ricco mercato privato che vede costantemente l’ingresso di nuovi soggetti e imprese che orientano gli investimenti. In altri termini, la sanità è un settore che rappresenta un business in costante espansione e durevole nel tempo. Se poi ai privati viene consentito di selezionare sia le prestazioni, evitando quelle meno remunerative, che la tipologia dei pazienti, si comprende la corsa ad entrare nel sistema sanitario. Inoltre nel nostro Paese persiste e prolifera un sistema di commistione pubblico-privato istituzionalizzato senza eguali. In tutto il mondo esistono erogatori pubblici e privati, ma con una chiara distinzione di ruoli e con il servizio pubblico pagatore che decide integralmente le prestazioni e i servizi da erogare e svolge controlli non occasionali ma strutturali. Da noi, invece, si arriva all’autoprescrizione di prestazioni da parte dei diretti fruitori della remunerazione. L’ideologia della commistione pubblico privato – che si traduce in investimenti in partnerariati (preferiti anche quando non necessari), accreditamenti e convenzionamenti con strutture private nonché esternalizzazioni finalizzate a ridurre i salari degli operatori – produce una persistente pratica di devoluzione al privato di funzioni pubbliche che trova nel concetto di sussidiarietà la sua cornice. È la riproposizione estesa di quanto a suo tempo concesso nel campo della sanità, dell’istruzione e dell’assistenza alle strutture ecclesiastiche. È l’ideologia del “meno Stato più privato” che ha caratterizzato gli ultimi decenni, ideologia praticata abbondantemente anche da governi sedicenti “di sinistra”.
È in questo quadro che si è determinato l’allungamento delle liste d’attesa, dovuto principalmente a un incremento della domanda Tale incremento, peraltro, è solo in parte ascrivibile ai maggiori bisogni sanitari, pur reali sia per l’aumento della popolazione ultra sessantacinquenne (portatrice di maggiori patologie), sia per il costante progresso delle cure. Esiste, infatti, un pericoloso consumismo sanitario, una costante istigazione ad esami e farmaci inutili, alimentata da pressioni mediatiche (che incidono su una popolazione con una cultura sanitaria scarsa e incerta: del resto siamo un Paese con un livello di scolarità tra i più bassi d’Europa) e dalla conseguente necessità di “prescrivere qualcosa” per assecondare le aspettative di una popolazione fragile ed ansiosa che richiede rassicurazione. Il resto lo fanno gli interessi economici che derivano dall’implementazione dei consumi. Di fatto si calcola che sia inappropriato un terzo delle prestazioni diagnostiche, mentre l’uso di molti farmaci e parafarmaci sfrutta esclusivamente l’effetto placebo. Le cosiddette “liberalizzazioni”, che hanno equiparato i farmaci e la sanità a qualunque altro bene di consumo, hanno inoltre portato a un abnorme incremento dell’offerta e di bisogni, spesso voluttuari, indotti per alimentare il mercato sanitario. Le liste d’attesa sono un buon affare e stanno creando un mercato fiorente di sanità a pagamento: sono proprio gli esami inutili che determinano i maggiori utili finanziari. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha chiarito che è l’investimento nella sanità pubblica ad avere determinato i significativi risultati raggiunti nell’aspettativa di vita mentre la spesa out of pocket vi contribuisce in minima parte.
Oltre che dell’incremento della domanda, il prolungamento delle liste d’attesa nel servizio pubblico (che, a differenza di quanto accade nelle attività a pagamento, cresce costantemente) risente di numerosi fattori. C’è, anzitutto, la riduzione dell’offerta da parte del Servizio Sanitario Nazionale per mancanza di medici e infermieri il cui numero è inferiore al 2010 nonostante l’incremento della loro età media. Le scarse retribuzioni del settore pubblico, poi, determinano fuga degli specialisti verso il privato e all’estero. La selezione delle prestazioni da parte del privato, inoltre, rende il servizio pubblico gravato dalle prestazioni più complesse, onerose e impegnative per il personale. Tutto ciò a fronte di una spesa pubblica per il SSN pari al 6,6% del PIL (in diminuzione nella programmazione dei prossimi anni: 6,2% nel 2025 e 6,1% nel 2026) contro una media europea del 7,1%. Mentre nell’Unione europea la spesa pubblica pro capite è, mediamente, di 3.562 euro, in Italia scende a 2.312. E la situazione è aggravata dal fatto che i costi dei farmaci sono uguali e che l’Italia è, nel mondo, il Paese con l’età media più elevata dopo il Giappone.
Non c’è più spazio per la retorica del servizio sanitario migliore del mondo: non è più così da molto tempo nonostante il sacrificio degli operatori. Non a caso l’Unione europea, dopo il riscontro dell’elevata e anomala mortalità durante la pandemia, aveva previsto per la sanità italiana, attraverso il MES, un finanziamento straordinario di 38 miliardi (che prevedeva una restituzione in 10 anni al tasso del 1%), che è stato, peraltro, sdegnosamente rifiutato.
La conclusione è obbligata: le liste d’attesa sono l’esito di un incrocio di problemi apparentemente di carattere tecnico, ma in realtà di natura esclusivamente politica che dipendono dall’impianto culturale e ideologico dei governi.