Il colore delle notizie: tinta unita
di Giuseppe Faso
Già dall’edizione online del 27 aprile, i giornali sono stati unanimi nel rilevare la caratteristica per loro salienti1 del neoministro alla «integrazione»2: è «di colore». I titoli infatti non ammettono varianti: «Cécile Kyenge Kashetu primo ministro di colore». Distinguono i vari schieramenti solo i consueti segni di incapacità professionale (c’è chi aggiunge essersi trattato della prima deputata «di colore»3, dimenticando le deputate nere già presenti nella legislatura 2006-2008) e le prevedibili reazione becere: «guarda chi c’è nella stanza dei bottoni: un’africana», su «Il Giornale»; «Ecco chi è il primo ministro di colore d’Italia: in guerra contro la Bossi-Fini» su «Libero».
Il «QN-quotidiano nazionale» fornisce, inconsapevolmente, una chiave per questa rara forma di concordia4. Scrive Davide Miserendino: «Subito dopo l’elezione la parlamentare, ora ministro, è stata vittima di un attacco xenofobo da parte di un esponente leghista modenese, che ha minacciato lei e, più in generale, i migranti su Facebook. Anni prima, invece, un negoziante l’aveva cacciata dal negozio chiamandola “negretta”».
Ci abbiamo messo un quarto di secolo per passare dal «negretta» della bottegaia al «di colore» dei cronisti e dei politici. A un eufemismo, cioè, che presuppone e non copre, ma disvela, come punto di partenza un sottostante «negra, negretta».
Obietterà qualche sincero democratico, ancora una volta, che «ci viene naturale dire negro». Ma non è vero.
I ragazzi della mia generazione sentivano dire «negro», come si diceva anche «serva» e «svergognata» (sostantivato per indicare una «ragazza-madre», altro eufemismo di allora). Hanno fatto in tempo a vergognarsene, e a non scambiare il consueto e il “normale” con il “naturale”, come chiedeva Brecht in un prologo (allora) per fortuna citato.
A molti della mia età non viene in mente né «negro» né «serva» e per questo non ci mettiamo a caccia di eufemismi. All’inizio, certo, rifiutammo queste parole stigmatizzanti per scelta e per partito preso: ci venivano, certo, in mente, non per natura ma per cultura, e combattevamo, come fanno gli adolescenti e gli innovatori, anche con le parole che ci venivano in bocca da sole; ma dopo il periodo “pioneristico” ci accorgemmo di essere cresciuti di numero, e divenne consueto e normale – e non “naturale”, perché si tratta di processi culturali, di spostamenti di cui danno conto gli studi di psicologia sociale – dire «nero» e «domestica», o «collaboratrice familiare». Quando arrivò l’abitudine derogatoria di usare «badante» è stato possibile cogliere in quella novità (risalente alla primavera 2002) la sua portata inferiorizzante, e fu più facile non adottare il nuovo insulto, cercando, anche se in minoranza, di trasmettere ai più giovani l’esempio di un lessico meno deumanizzante. Ci metteremo anni, ma gli epiteti «badante» e «di colore» (motivati da una diversa inconsapevolezza inferiorizzante, e ripetuti per pigrizia e acquiescenza) saranno abbandonati, come «serva» e «svergognata».
Sull’eufemismo stigmatizzante «di colore» per la verità da anni si mette in guardia, con tutto il garbo che ci vuole per essere ascoltati da chi si mostra impermeabile al ragionamento. Ricordo che nel 2007 Esosh Elamé ha pubblicato il volumetto «Non chiamatemi uomo di colore» e che poche settimane fa un’ottima disamina del nesso “negro-di colore” è stata offerta dal volume «Parlare civile», a cura di «Redattore sociale»: una pubblicazione in cui ci si preoccupa di rassicurare la supposta utenza di operatori della comunicazione ricordando che non si tratta di stabilire che certe parole «sono sbagliate». E’ piuttosto il loro uso, che è spesso non tanto “sbagliato”, come per chiarezza sloganistica scrive «Redattore sociale», ma di una parzialità discutibile, e può essere criticato (si spera, efficacemente), da un’altra parzialità, che rispetto alla prima ha il merito di informare, analizzare, argomentare, contribuendo così ad avvicinarsi non alla “verità”, ma a una forma di ragione civile: rifiutando perciò i diffusi “comforts of Unreason”, come suonava il titolo di un libro di Rupert Crawshay-Williams del 1947, un classico sulla strada dell’analisi del discorso politico e della sua funzione «di impedire a se stesso e all’uditorio di pensare».
Paradossalmente come spesso accade nel discorso politico, è proprio chi adotta dispositivi eufemistici, come «di colore», che ribatte a chi fa notare la discutibilità di questa scelta attribuendogli un presunto richiamo al «politicamente corretto», messo in caricatura moltiplicando proprio esempi di eufemismi.
Trovo da ridire su molte scelte, ma non mi passa per il capo che certe parole siano tabù. Noto solo che molte parole che usiamo dicono più su chi parla che di ciò di cui si parla. «Di colore» è una di queste, e il suo uso in questo caso rivela probabilmente la necessità di cercare di coprire con un eufemismo un atteggiamento discriminatorio, ma di sicuro una unanimità d’accento fra soggetti che si mettono in scena come diversi e lontani: un rituale conforme del discorso politico, il cui effetto può essere solo il conformismo degli assoggettati.
Non avendo perciò da proporre vocabolari (di parole da usare VS da non usare), ripropongo qui un dialogo che avevo scritto per un blog nel 2009. Una storiella semplice; abbiamo imparato da Boccaccio che in tempi di peste e di disgregazione civile solo i racconti curano, rifocillano, riaprono alla comprensione della pluralità.
Di colore
La ragazza si ferma un attimo, in difficoltà. Il compito che si è assunta è più impegnativo del previsto: raccontare un cortometraggio di sessant’anni fa, che è stato mostrato alla classe, e bloccato due minuti prima dalla fine dall’insegnante: una strana storia di una vecchietta che perde il treno, prende un’insalata al self-service e poi si accorge che non ha la forchetta. «Prende la forchetta, ritorna al suo tavolo, e là, davanti all’insalata, vede un… uno di colore..».
«Di colore? di che colore?» la interrompe l’insegnante.
«Di colore!» fa lei.
Ma l’altro: «Che cosa intendi quando dici ‘di colore’?».
«Nero! vede uno di colore che mangia con gusto la sua insalata, e…».
«Ah, uno nero di pelle… E perché hai detto ‘di colore’?».
«Dico così perché si offendono».
«Chi? chi si offende?».
«Loro!».
«Loro chi? quelli di pelle nera?».
«Sì, se li chiamo neri si offendono. Allora dico ‘di colore’; c’è questo vecchio di colore davanti all’insalata, e…».
«Non capisco, scusami: ti è successo di dire ‘nero? a una persona che se ne è offesa?».
«Certo!».
«E allora l’hai chiamata di colore e non si è offesa? E quando ti è successo?».
«Non una volta: sempre…».
«Fammi capire. Tu hai tanti amici neri di pelle, e…».
«No, non amici: conoscenti».
«Sì, scusa: conoscenti. Tu conosci tante persone nere di pelle, e ogni volta che li hai chiamati neri, loro si sono offesi. Se invece li chiami ‘di colore’ non si offendono?».
«E’ così!».
«Mi sapresti dire una volta che è successo, con il nome e il cognome della persona che ha preferito essere chiamata ‘di colore’?».
«Ma è successo tante volte…».
«Appunto per questo, ti chiedo dettagli su una sola volta. Non ho bisogno per crederti di cento testimoni. Basta che tu mi dica, che so…Una ragazza, si chiama Aicha Mbacke, senegalese, eravamo a basket…».
«Non gioco a basket, ma a pallavolo…».
«Bene: questa Aicha, eravamo a pallavolo, ed è successo che le ho detto: Ma voi neri…E lei mi ha detto: non mi dire nera; mi offendo! E allora tu le hai detto: Voi di colore.. e a lei è andato bene…».
«Ma non ricordo, in questo minuto; un episodio. So solo che succede sempre…».
“Sì, hai ragione. E allora non ti chiedo di raccontarmelo per il passato. Facciamo così. Visto che succede sempre, ti capiterà ancora. E allora tu mi manderai un SMS, mi scrivi, per esempio, ‘Amadou Sene, alla stazione, cinque minuti fa’. E io capisco, e me lo segno».
«Perché deve segnarselo?».
«Perché a me non è mai accaduto, ed è un fatto che ritengo improbabile, per cui vale la pena di segnarselo, ora, data, e poi verrò da te e mi racconterai per filo e per segno come è successo…».
1 Il fatto che Cécile Kyenge abbia la pelle nera precede ogni altra percezione, sia in chi la accetta a denti stretti che, forse, in chi rivendica la scelta, in un quadro assai preoccupante per chi si interessa dei diritti di migranti e chiedenti asilo. Come scrive giustamente Stefania Ragusa sul “Corriere Immigrazione”, “non vorremmo che la sorpresa e l’autentica gioia per la nomina di Cécile Kashetu Kyenge facessero ‘dimenticare’ un particolare importante: il ministero (senza portafoglio) dell’Integrazione non è quello dell’Interno”, con le sue competenze su CIE, espulsioni ecc. su cui c’è una sostanziale continuità estremamente negativa fra Maroni, Cancellieri e il neo-ministro Alfano; http://www.corriereimmigrazione.it/ci/2013/04/ma-non-e-il-viminale/; si veda anche il prezioso contributo di Fulvio Vassallo Paleologo (http://www.corriereimmigrazione.it/ci/2013/04/i-respingimenti-continuano/ ).
2 Non siamo ancora in grado di accogliere decentemente i figli (e tra poco i nipoti) dei migranti nelle scuole; si balbetta nei confronti della rivendicazioni di diritti fondamentali dell’uomo, condotte fra i primi da Cécile Kyenge; e invece di intitolare ai diritti di cittadinanza un ministero senza portafogli, lo si chiama “all’integrazione”, che in molti, anche a sinistra, confondono con l’assimilazione forzata.
3http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/04/27/cecile-kyenge-loculista-di-origine-congolese-al-ministero-dellintegrazione/576853/
4http://qn.quotidiano.net/primo_piano/2013/04/28/880299-kyenge_prima_ministra_ colore_della_lega.shtml
segnalo anche, proprio qui in blog, il link (ad Alessandro Ghebreigziabiher) del 28 aprile: Cecile Kyenge ministro di colore: razzismo comincia dalle parole
Quando ha scritto «i giornali sono stati unanimi» immagino che Giuseppe Faso abbia dato per sottinteso, per scontato che vi fossero un paio (sempre quelle) di voci fuori dal coro. Nei titoli si distingueva «Il fatto quotidiano» a esempio che solo in una didascalia (a pag 6) cadeva nel gioco del colore («la prima ministra nera»). Domenica «il manifesto» dedicava solo due righette a Cecile Kyenge dove evitava di cadere in aggettivi da “epidermide”; si spera che quando dedicherà un approfondimento anche «il manif» se ne stia lontano dalla Pcb (Premiata Coloreria Biancocentrica).
segnalo «Chi ha paura della donna nera?», un testo scritto da Vincenza Perilli insieme alle compagne di Migranda:
http://marginaliavincenzaperilli.blogspot.it/2013/05/cecile-kyenge-chi-ha-paura-della-donna.html