Il continente nero carbone: l’Africa nel …

. nel mirino dei colossi minerari

di Marina Forti (*) e subito sotto uno “spottone” per la rivista ALTRECONOMIA

VIAGGIO TRA LE MINIERE A CIELO APERTO CHE METTONO A RISCHIO L’AMBIENTE E LA VITA DEGLI ABITANTI

Il carbone ha cambiato in modo drastico la vita di Moatize, distretto rurale nella valle del fiume Zambesi, nel Mozambico settentrionale. La miniera infatti ha costretto migliaia di persone a lasciare tutto e andarsene. Duzeria, una degli sfollati, ricorda: «Il governo ha detto che non potevamo restare là perché eravamo seduti su una montagna di soldi».

In effetti, al posto delle vecchie case ora c’è una gigantesca miniera a cielo aperto, una delle più grandi al mondo. Il Moatize Coal Project è un buon esempio di cosa significa “economia estrattiva”, almeno per chi ci vive accanto. Il sito è in concessione alla Vale Moçambique, sussidiaria del gruppo brasiliano Vale SA, e occupa 23 mila ettari di territorio. Nel 2008 la compagnia ha cominciato a costruire gli impianti; nel 2011 ha avviato l’estrazione. È allora che, per fare spazio alla miniera, oltre 1300 famiglie sono state trasferite 36 chilometri più lontano. La compagnia aveva promesso risarcimenti, 2 ettari di terra per famiglia e aiuti alimentari per i primi anni, dice Duzeria. Ma nel nuovo villaggio gli sfollati hanno trovato solo file di case sulla terra polverosa: «Erano già piene di crepe, perché non hanno le fondamenta».

Non che la vita prima fosse florida nei villaggi di Moatize. La comunità viveva di agricoltura e pesca in una economia di sussistenza: ma poteva vendere i prodotti al mercato del capoluogo, il più grande dei dintorni, ed era vicino all’ufficio postale, la scuola, il fiume. La nuova sistemazione invece è isolata, la terra inadatta all’agricoltura, il fiume non c’è, il mercato è lontano. Gli oleiros, fabbricanti di mattoni di argilla, hanno perso la materia prima e quindi la loro attività. «Le prime volte che abbiamo visitato la comunità sfollata, la polizia impediva perfino l’ingresso agli estranei» spiega Erika Mendes, attivista di Justiça ambiental, gruppo mozambicano affiliato alla coalizione internazionale Friends of the Earth. In seguito la compagnia ha offerto di ridipingere le case e mettere tetti di zinco.

Ci sono state proteste, represse duramente. Il governo ha offerto aiuti per ricostruire: «ci hanno dato 300 meticais [circa 12 dollari] per stanza» continua Duzeria: «Ma non bastano, solo trasportare la sabbia e i mattoni fino al nuovo villaggio costa di più».

La miniera intanto è cresciuta: al primo scavo se n’è aggiunto un secondo, ancora più grande. La produzione è salita a 25mila tonnellate al giorno. Una miniera a cielo aperto è un grande buco in cui lavorano ruspe, uomini, nastri trasportatori, via vai di camion; intorno crescono montagne di carbone che poi verrà caricato su convogli di treni, la polvere nera vola ovunque.

«Non ci avevano detto che avrebbero dato a Vale la terra agricola migliore» aggiunge Fatima, che viene da uno dei villaggi di Moatize rimasti accanto alla miniera. Spiega che le esplosioni di dinamite fanno tremare le loro case, che minacciano di crollare; che la sua comunità respira polvere di carbone; che «non possiamo più usare la strada e non sappiamo come andare a raccogliere la legna». Così, quando la compagnia ha fatto preparativi per aprire una terza miniera accanto alle prime due, la protesta è riesplosa. Il 4 ottobre gli abitanti di Bagamoyo, villaggio adiacente agli scavi, hanno invaso la miniera bloccando il lavoro – ma senza danneggiare i macchinari, precisa Fatima. L’invasione si è ripetute in novembre; gli abitanti hanno bloccato la ferrovia per impedire il passaggio dei convogli di carbone. La polizia ha risposto con lacrimogeni, proiettili di gomma e anche veri. Ci sono stati parecchi feriti. A metà novembre però la miniera era ancora bloccata. Nel tentativo di far rientrare le proteste, i dirigenti della compagnia hanno promesso di annaffiare il carbone nei depositi perché voli meno polvere, o di aggiustare le case. Ma ormai non basta agli abitanti. «Invece di difenderci, il governo manda la polizia a picchiarci» dice Fatima. «La compagnia parla solo con il governo, dice che ha già versato i risarcimenti: ma noi non vediamo nulla. Basta, vogliamo che la compagnia tratti direttamente con noi».

L’occasione per incontrare Duzeria, Fatima e alcune attiviste per la giustizia ambientale in Mozambico sono due eventi tenuti a novembre a Johannesburg: una sessione del Tribunale internazionale per i diritti dei popoli sul potere delle compagnie multinazionali, terzo e ultimo atto di una serie sull’industria estrattiva nella regione dell’Africa meridionale, e un “Social forum tematico” proprio sull’industria estrattiva.

Il caso della miniera di carbone di Vale Moçambique infatti non è isolato. L’Africa meridionale è disseminata di conflitti: comunità sfollate per fare posto a progetti minerari, abitanti in rivolta. Spesso le forze di sicurezza rispondono con violenza. «Assistiamo a una nuova corsa ad accaparrarsi le risorse dell’Africa, accompagnata da ogni sorta di violazione dei diritti fondamentali» osserva Brian Ashley, direttore del Alternative Information and Development Centre (Aidc, una delle forze sociali sudafricane che ha organizzato il Social Forum). In questa corsa sono lanciate compagnie minerarie occidentali (Europa e Usa restano complessivamente i primi investitori in Africa) ma ormai anche cinesi, brasiliane, indiane, o sudafricane: i Brics, i paesi definiti “emergenti”. In questa competizione, gli Stati fanno a gara a offrire le condizioni migliori alle compagnie minerarie, mentre i costi sociali sono scaricati sulle comunità: «Gli Stati africani badano più proteggere gli investimenti che a garantire i diritti dei cittadini» continua Ashley.

In Mozambico ad esempio, nella stessa provincia dove lavora Vale troviamo l’indiana Jindal Africa, sussidiaria del gruppo Jindal Steel and Power, che dal 2013 ha in concessione una miniera a cielo aperto di carbone nel distretto di Marara. Anche qui la compagnia ha promesso nuove case, scuole, ambulatori, strade per poter raggiungere il mercato, ma poco è stato realizzato; invece, anche qui le autorità hanno mandato la Forza di Intervento Rapido, un corpo speciale di polizia, a reprimere le proteste. «Intorno alla miniera gli abitanti erano di fatto reclusi, con il divieto di ricevere estranei e circolare dopo l’imbrunire» dice Mendes: «È chiaro che la compagnia non vuole testimoni». Gli attivisti di Justiça Ambiental hanno portato la questione al tribunale amministrativo regionale e poi a quello nazionale, che l’estate scorsa ha pronunciato la prima sentenza favorevole ai cittadini coinvolti in un progetto minerario: afferma che i loro diritti fondamentali a risarcimenti e risistemazione sono stati violati sia dalla compagnia che dal governo.

Il silenzio avvolge anche Marange, in Zimbabwe, dove nei primi anni 2000 è stato trovato un ricco giacimento di diamanti teatro di conflitti di una brutalità estrema. È un giacimento alluvionale: le pietre sono nello strato superficiale del terreno, per lo più nel letto dei torrenti, e per estrarle possono bastare pale e setacci. Così fin dai primi anni 2000 ha attirato decine di migliaia di minatori in proprio, “artigianali”. Questi però sono considerati illegali, abusivi e quando il governo ha cominciato a dare formali concessioni a compagnie minerarie è cominciata una sorta di guerra. Tra i difensori dei diritti umani, il nome Marange evoca il massacro compiuto dall’esercito nell’ottobre 2008, quando 214 minatori artigianali sono stati uccisi per piegare le loro proteste. Da allora la tensione continua a covare. Il Centre for Natural Resurces Governance dello Zimbabwe, un centro per la difesa dei diritti umani, conta che almeno 40 minatori artigianali siano stati uccisi degli ultimi due anni dai militari o dalle guardie private delle compagnie minerarie.

«Il partito al potere ha gestito le miniere di Marange nel proprio esclusivo interesse, ogni concessione mineraria è passata per via politica» spiega Moses Mukwada, del Centre for Natural Resurces Governance. Già: negli anni ‘2000, quando lo Zimbabwe era sotto sanzioni occidentali, due compagnie cinesi (Anjin Investments e Jinan Mining) hanno avuto licenza di estrarre diamanti a Marange e il ministero della Difesa aveva il 40% della proprietà di Anjin. Più tardi l’allora presidente Robert Mugabe ha bandito le aziende cinesi dalle regione diamantifera, accusandole di aver illegalmente superato la quota concessa e aver sottratto 15 miliardi di dollari di royalties; un anno dopo le aziende cinesi sono state riammesse ma in partnership con l’impresa di Stato. «Ma non c’è più trasparenza, al contrario. E quando le imprese operano sotto la protezione del governo e delle forze di sicurezza, le comunità non sanno a chi rivolgersi per ottenere giustizia».

Questo spiega l’estrema violenza esercitata dalle forze di sicurezza, nella totale impunità. Di recente alti funzionari hanno denunciato la sottrazione di un milione di carati dalle casse dello Stato «ma nessuno è mai stato perseguito» spiega Mukwada. Nella zona diamantifera è quasi impossibile l’ingresso di visitatori esterni, spiega; le intimidazioni dei militari e delle guardie private sono continue. Inoltre l’inquinamento è impressionante, perché le compagnie minerarie scaricano nei fiumi i prodotti chimici usati per lavare i diamanti grezzi. E non c’è nessun investimento nello sviluppo locale, scuole, sanità, strade: i diamanti producono profitti miliardari ma non arricchiscono chi li estrae. Quello di Marange è un caso di militarizzazione estrema: secondo Mukwada «illustra in modo brutale cosa possono fare le forze combinate dell’industria estrattiva e dello Stato».

BOX: Il diritto a dire no

Una campagna globale per «il diritto di dire di no» a miniere e progetti di estrazione delle risorse naturali è stata lanciata a conclusione di un “Social forum tematico” sulle miniere e l’economia estrattiva, riunito dal 12 al 15 novembre scorso a Johannesburg, in Sudafrica. Centinaia di delegati venuti dall’Africa, dalle Americhe all’Asia; rappresentanti di movimenti popolari, organizzazioni per la giustizia ambientale, Chiese, sindacati rurali, rappresentanti di popoli indigeni, hanno messo a fuoco quello che definiscono «un sistematico attacco» ai loro territori che «attraverso l’espulsione dalla terra e la dislocazione forzata, la deforestazione, l’inquinamento e la contaminazione delle risorse idriche, minaccia di distruggere la vita delle comunità locali» come si legge nella dichiarazione finale del Forum. La campagna per “il diritto a dire di no” è uno strumento per collegare e rafforzare movimenti sociali dove esistono; e per rivendicare che le legislazioni nazionali e i trattati internazionali riconoscano alle comunità direttamente coinvolte da miniere e grandi opere il diritto a scegliere modelli diversi di sviluppo e impongano limiti al potere delle grandi aziende multinazionali. Per questo il Forum sostiene anche la campagna perché le Nazioni unite approvino un Trattato su «Business e diritti umani» che detti norme di condotta vincolanti alle imprese multinazionali.

NELLA FOTO: un’assemblea a Bagamoyo.

(*) pubblicato a dicembre 2018 sul mensile “Altreconomia” che raccomandiamo a chi vuole sentire voci “fuori dal coro” e tanto per fare un esempio di informazioni negate provate a digitare in rete Bagamoyo: non vi usciranno notizie o foto della protesta ma solo notizie sui bellissimi luoghi per turisti.

Per questo ecco qui sotto la presentazione del nuovo numero di ALTRECONOMIA.

Vogliamo augurarvi buon anno presentandovi il nuovo numero di Altreconomia, il 211

attraverso le parole di un’amica

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