Il decalogo del banchiere
di Pietro Ratto
Premetto subito: non l’ho letto né intendo leggerlo. Si tratta di uno di quei libri che non aprirei nemmeno se me li regalassero. Parto quindi dall’entusiastica recensione di Gianluca Ferraris che di questo sponsorizzatissimo Trova lavoro subito (edizioni Sperling & Kupfer) compare su Panorama del 16 settembre scorso. Un libro che intende spiegare come uscire dal tunnel della disoccupazione. Un libro che, data l’urgenza del problema, ha tutta l’intenzione di andare a ruba.
Intanto gli autori: Alberto Forchielli e Stefano Carpigiani. Non sono semplici “esperti”: ne riparliamo dopo. Poi, il tema di fondo: giovani disoccupati, affidatevi a noi, vi aiuteremo a scappare dall’Italia. Il succo del discorso? Tutto qui: meglio emigrati che disoccupati.
Cito testualmente dall’articolo: inutile esibire 110 e lode conseguiti chissà dove senza tener conto di come sono cambiate le dinamiche oggi – spiega Forchielli al giornalista – bisogna ripartire dal mercato, il che non significa tradire aspirazioni e tradizioni, ma solo modellarle sulla richiesta. Ci sono occasioni d’oro praticamente ovunque per pizzaioli, infermieri, tornitori, baristi, enologi. Traduco: laureato con 110 e lode “chissà dove”? Corri a cuocer pizze a Pechino, invece di far tanto il difficile qui da noi. Davvero una fantastica prospettiva per i nostri giovani, fregati e pure colpevolizzati. Decenni a studiare in una scuola statale in crisi, sempre più “a pagamento”, sempre più cara come quella italiana, con contributi “volontari” dalle elementari e rette universitarie da favola, per poi sentirsi obbligati a modellarsi sulla richieste più o meno gratificanti di chissà quale sperduto angolo di mondo. Insomma – avvertono gli autori – questi sciocchi studenti italiani, questi bamboccioni, non si modellano. Ma a rimetterci son solo loro, perché così facendo resteranno disoccupati a vita. Insomma, i nostri giovani sono disoccupati per colpa loro. Anzi, a ben guardare, secondo gli autori la responsabilità è anche dei genitori, che non li educano bene, che non li spingono nelle braccia del nuovo mercato del lavoro. Ed è a quel punto che, tra le pagine del libro, entra in scena il Decalogo del genitore globale, l’elenco dei dieci comandamenti di Forchielli a quei padri e a quelle madri un po’ troppo provinciali, che vogliono cambiar strategia educativa per evitare ai loro figlioli la piaga della disoccupazione.
Fermiamoci un attimo, allora. Forse è giunto il momento di conoscere meglio i nostri due autori.
Alberto Forchielli, già dirigente IRI (di cui è stato Segretario generale per le privatizzazioni), Presidente area Asia-Pacifico di Finmeccanica, Senior Advisor di World Bank, guarda caso gestisce la società di recluting T-island (disoccupati di tutt’Italia, unitevi e cercatela su Internet. Vi verranno richiesti 300 euro per inviare il vostro curriculum e aiutarvi a trovare un lavoro, o 50 euro all’ora per pagare un’attività di coaching per vostro conto). Forchielli ha fondato e dirige anche la Mandarin Capital Partners, che aiuta le aziende italiane a far affari in Cina. A naso, non si può dire, però, che abbia dovuto modellarsi granché, per arrivare dov’è. Il padre Paolo è stato magistrato, accademico, docente di Diritto Privato e Diritto Civile all’Università di Bologna. E la madre? Figlia dell’illustre avvocato Giacomo Dal Monte Casoni, nipote del cardinal Lega (vera e propria autorità alla Sacra Rota), nonché politico di spicco del Partito Popolare, poi deputato DC e, ciliegina sulla torta, Presidente della Cassa di Risparmio di Imola dall’aprile 1945. Insomma, altro che pizzaioli in Cina. E l’idea di emigrare facendo l’operaio non sembra aver convinto nemmeno il figlio di Forchielli, Paolo, responsabile di Tesla Motors per l’Europa. Quanto a Stefano Carpigiani, oltre che braccio destro di Forchielli alla T-island è manager della BayWa-re Italia. Su Linkedin si definisce entusiasta della sua vita.
Siamo alle solite: imprenditori di solida formazione cattolica che da una parte difendono platealmente l’istituzione della famiglia e dall’altra esortano i giovani a fuggire all’estero. Ma di che famiglia parlano? Di quella su Skype?
Eccoci allora al sospirato decalogo Forchielli. Si comincia col prescrivere ai genitori l’apprendimento da parte del loro figlio di una lingua straniera (provo a indovinare quale?) dall’età di sei anni, anche privatamente, se necessario. Pur non indagando troppo sul significato attribuito in questo contesto al termine necessario, come non rilevarlo: lo sanno tutti che i nostri figli imparano l’inglese già dalla prima elementare, no? Evidentemente il nostro esperto non si sta riferendo all’istruzione pubblica, quella cioè “teoricamente” alla portata di tutti. Il decalogo prescrive inoltre di far viaggiare i bambini sin da piccoli, raccomandandosi di educarli a un mondo globale. E se da un lato Forchielli esorta padri e madri ad alimentare lo spirito critico dei loro figli (evidentemente non contemplando la formazione dei futuri giornalisti, incluso quello che lo intervista), dall’altro afferma che TV, videogame, computer, tablet, smartphone e tecnologia in generale dovranno far parte della loro vita, ma non diventarne il tutto. Dice proprio così, il decalogo Forchielli: dovranno. Okay, vada per la precisazione finale, ma mi chiedo per cos’altro potrebbe esserci ancora spazio in una vita intasata da tutta quella roba dovuta, videogame inclusi. La chicca, però, deve ancora arrivare.
Eccola qui. Il sesto ed il settimo comandamento del genitore globale prevedono che i figli vengano fatti ragionare sul rapporto tra studio formazione e lavoro: la scelta della scuola superiore va affrontata con serietà, senza delegarla ad altri e tenendo presente che il punto non è: “devono fare quello che gli piace [sic]”. Devono invece studiare qualcosa che gli permetta [sic] di realizzarsi e che dia loro la possibilità di trovare un lavoro. Non so se questo passo sia direttamente estratto dal libro o se sia frutto di una rielaborazione dell’articolista, ma evidentemente la grammatica non rientra tra gli strumenti che debbano far parte della nostra vita. Il punto, però, naturalmente non è questo. Forchielli ci sta dicendo che non importa cosa veramente piaccia ai nostri figli, ma cosa li aiuti a trovare un lavoro e li realizzi (la distinzione tra quanto piace e quanto realizza un individuo a questo punto si fa oscura, a meno che la realizzazione – così come fortemente temo – sia da intendersi in senso esclusivamente economico). Ora dico, che vita dovremmo augurare ai nostri bambini? Davvero un padre che ama i suoi figli potrebbe augurare loro di sacrificare la felicità sull’altare del benessere economico? Non dovrebbe essere obiettivo di ogni genitore il sentir dire dal proprio figlio che è entusiasta della sua vita tanto quanto Carpigiani? (No, non voglio sentire la risposta, vi prego! Lasciatemi cullare nell’illusione).
E poi va avanti, mica è finita qui. Prosegue sostenendo che il miglior investimento per i propri figli sia la cultura. E cosa intende, il nostro manager di World Bank, per cultura? Il latino? Dante? Brunelleschi? Vivaldi? (Nessuna risposta nemmeno qui, vi supplico). Forchielli è un uomo arrivato. Scrive libri, ad esempio quello in questione. A lui piace scrivere, o si è modellato alle esigenze del mercato così come consiglia agli altri? A suo figlio piace guidare e vendere le Tesla, o si tratta di pura flessibilità lavorativa?
Tornando al decalogo, eccolo finire in gloria: i figli debbono esser tirati su in un mondo globale e interconnesso (dice anche aperto e vario, ma temo che, anche in questo caso, il senso da dare ai vocaboli non sia precisamente quello “corrente”). E come non ricordarlo a questi bimbi che girano per la scuola materna col cellulare attaccato all’orecchio e passano le ore su Facebook?
A questo punto mi limito ad una considerazione finale. E’ vero: ormai i banchieri te li trovi dappertutto. Soprattutto nel mondo dell’istruzione. Dirigono potenti enti di valutazione scolastica come l’INValSI, danno le dritte ai ministri della Pubblica Istruzione dall’alto delle loro influenti fondazioni (Treellle, Rocca, ecc), finanziano e assoggettano alle loro logiche la scuola pubblica con le tecniche più raffinate. Come mai, però, quando un assicuratore ci propone una polizza ci viene il dubbio che lo faccia per suo interesse, mentre se un grosso imprenditore, che prospera proprio grazie al mercato del lavoro, ci esorta a modellarci, a rinunciare a tutele e diritti lavorativi e a metter da parte quello che ci piace per fare i baristi ad Hong Kong, noi ci affrettiamo a prender le sue parole letteralmente come oro colato?
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Cfr. anche P. Ratto: Questa Buona Scuola s’ha da fare, I diktat della Fondazione sulla Buona Scuola di Stato e Santa romana Scuola, La Bottega del Barbieri.
Sul rapporto tra lavoro e felicità dell’individuo cfr. P. Ratto, Sulla felicità.
Pietro Ratto è su Facebook e su Twitter. Qui, tutti i suoi scritti “in Bottega” ed una sua biografia