Il dibattito in corso sulla pena di morte come deterrente
un testo del 1982 che torna utile anche oggi
di Ezzar A. Fattah (*)
«Se la bestia che dorme nell’ uomo potesse essere trattenuta da minacce – una qualsiasi minaccia, la prigione o la retribuzione dopo la morte – allora il più alto emblema dell’umanità sarebbe il domatore di leoni nel circo con la frusta, non il Profeta che si è sacrificato» – Boris Pasternak, «Il dottor Živago»
LA PRETESA DELLA DETERRENZA
Argomenti del buon senso e impressioni personali
Poche persone sosterrebbero seriamente che la pena di morte è una buona cosa di per se stessa, da favorire di per sé. La maggior parte di coloro che sostengono e difendono la pena capitale ammette che si tratta di una pratica orribile e rivoltante ma che è nonostante tutto necessaria per proteggere la società. Molti di questi sostenitori sono infatti consci della natura arbitraria e discriminatoria della pena di morte come pure dei pericoli connessi alla sua applicazione, per fare un esempio il rischio di mettere a morte un innocente. Tuttavia essi rimangono in suo favore perché la considerano un deterrente necessario senza il quale ci sarebbero più omicidi. Tale affermazione, se fosse vera, costituirebbe un potente argomento a favore del mantenimento della pena capitale. Tuttavia gli antiabolizionisti non sono riusciti a produrre valide prove scientifiche per dimostrare che la pena capitale è un efficace deterrente e che essa è un deterrente superiore ad altre pene quali il carcere a vita. In altre parole, le richieste di conservare o reintrodurre questa pena sono basate su null’altro che affermazioni prive di fondamento, discorsi basati sul buon senso e su impressioni personali sul suo insostituibile potere deterrente.
Nessuno espresse ciò meglio di Sir Patrick Spens quando dichiarò: “Sono assolutamente convinto, so per certo, che la paura di una morte violenta è un deterrente, e nessuna statistica e nessun discorso mi convincerà del contrario”1. Simili convincimenti, o diremmo impressioni, sono state espresse frequentemente dai difensori della pena di morte. Sellin, nel 1980, cita Sir James Fitzjames Stephen, il quale affermò:
“Nessun’altra pena trattiene gli uomini così efficacemente dal commettere dei crimini come la pena di morte…questa è una di quelle affermazioni che è difficile da provare semplicemente perché tali assunti sono di per se stessi più ovvi di quanto qualsiasi dimostrazione possa renderli.”2
Come Sellin (1980) osserva, la convinzione di Stephen che il potere deterrente della pena di morte è evidente di per sé è stata condivisa da molti. In un discorso alla camera dei Lord nel 1948, Lord Jowitt disse che
“a suo parere c’era una sola giustificazione possibile per la pena capitale – che la sua efficacia come deterrente riduceva il numero degli omicidi”.
Egli lo credeva; non lo poteva provare; si trattava certo di impressioni e di opinioni personali. Lord Wright pensava che la deterrenza “non potesse ovviamente essere dimostrata con prove. Questa era una conclusione che doveva essere ricavata dalle impressioni generali ricavate dall’esperienza, dal guardarsi intorno, dal vedere come vanno le cose e come pensa la gente”. Lord Simon “non aveva alcun dubbio sul fatto che la pena capitale preveniva più omicidi di quanto non lo potesse qualsiasi altra pena. Non era una questione di statistiche, ma si trattava del giudizio e del buon senso di ogni individuo”. Lord Bridgeman basava la sua fede sulla forza deterrente della pena suprema “più su quella che egli pensava fosse la sua conoscenza della natura umana che su qualsiasi altra cosa” e il Vescovo di Truro pensava che “sul valore della pena di morte come deterrente […] i suoi sentimenti fossero una guida più sicura di qualsiasi statistica fatta in altri paesi […] ed egli era certo che la pena capitale sarebbe stata un grande deterrente su di sé se egli avesse meditato un assassinio (vedi Sellin, 1980, pp.78-80)3.
Affermazioni come quelle sopra riportate avrebbero potuto essere perdonate in un tempo in cui la ricerca sulla deterrenza praticamente non esisteva. Tuttavia queste affermazioni continuano a risuonare con toni sempre più forti e non si può fare a meno di stupirsi nel constatare che al giorno d’oggi molti continuano a difendere l’immolazione dei rei sull’altare della giustizia su nessun’altra base che quella della saggezza convenzionale e dei luoghi comuni. Che il credere nello straordinario potere deterrente della pena di morte sia diffuso è fuori discussione. Ma il solo fatto che tale opinione sia ampiamente diffusa non significa che sia necessariamente vera. La scienza ha più volte dimostrato che non tutto quello che il buon senso predica è vero. Come Sellin (1980) indica, una volta il buon senso ci diceva che la terra era piatta.
Paure esagerate e infondate
L’abolizione della pena capitale nei paesi che non la applicano più non fu conquistata senza anni di difficili lotte. Ad ogni tentativo di respingere la pena capitale nei tempi passati si disse che se i criminali non fossero stati giustiziati il crimine sarebbe sostanzialmente aumentato con la conseguente scomparsa della sicurezza della società. Ciò nonostante, queste previsioni foriere di male si dimostrarono sempre prive di fondamento. Parlando alla Camera dei Comuni Britannica nel 1878 Sir Joseph Pease spiegò che:
“la continua mitigazione della legge e delle sentenze cresceva di pari passo con la sicurezza della proprietà e con il rispetto della vita umana come cosa sacra” (v. rapporto della Commissione Britannica, 1930)4.
E sessant’anni dopo, la Commissione Reale Britannica sulla pena capitale (1953) è arrivata alla conclusione generale che
“non c’è alcuna chiara prova delle cifre esaminate che l’abolizione della pena capitale abbia portato ad un aumento del tasso di omicidi o che la sua reintroduzione l’abbia abbassato”5.
Altre commissioni come la Commissione d’inchiesta sulla pena capitale a Ceylon (1959), la Commissione speciale per lo studio dell’abolizione della pena di morte nei casi capitali della Florida (1963-1965), la Commissione speciale costituita per la ricerca e lo studio sull’abolizione della pena di morte nei casi capitali, Massachusetts, 1958, la Commissione congiunta del Senato sullo studio per l’abolizione della pena capitale, Pennsylvania 1961, hanno tutte raggiunto conclusioni identiche o simili. Ci si sarebbe aspettato che le opinioni di tutte queste prestigiose commissioni avrebbero messo fine al dibattito sulla pena di morte o almeno alla persistenza della sua pretesa supremazia come deterrente. Questo, tuttavia, non avvenne. Una gran parte dell’opinione pubblica, membri delle forze di polizia e altri gruppi di pressione continuano a mantenere paure ingiustificate in merito alle presunte conseguenze disastrose della rinuncia alla pena capitale e continuano a spargere profezie apocalittiche sul probabile effetto dell’abolizione sui tassi criminali, in particolare sui delitti contro la vita.
I meccanismi preventivi della pena di morte
Si ritiene che la pena capitale svolga la sua funzione preventiva attraverso tre meccanismi principali: a) l’eliminazione, b) la moralizzazione, c) la deterrenza.
A. Eliminazione
In vista dei persistenti dubbi sulla eccezionale efficacia della pena di morte come deterrente, alcuni dei suoi sostenitori trovano più facile difenderla sul terreno della sua funzione neutralizzante o eliminatoria. Essi fanno riferimento al potere neutralizzante assoluto e permanente della pena di morte poiché essa assicura che un individuo giustiziato per omicidio non compilerà ulteriori delitti. Questo argomento sarebbe fortemente convincente se: a) la pena capitale fosse applicata frequentemente; b) essa fosse il solo mezzo di effettiva neutralizzazione per assassini pericolosi; c) gli assassini come gruppo fossero noti per avere un alto grado di recidiva. Ma nessuno di questi postulati è vero. In primo luogo la pena capitale è raramente applicata nei paesi occidentali che ancora la mantengono. Anche un rapido confronto tra il numero delle esecuzioni e quello degli omicidi in un qualsiasi anno è sufficiente a dimostrare come l’applicazione della pena capitale sia costantemente decrescente. L’argomento della eliminazione è una motivazione sostenibile solo se la pena capitale è frequentemente applicata. In secondo luogo, la detenzione è, senza dubbio, un mezzo efficace per neutralizzare la pericolosità di assassini o altri delinquenti violenti. Studi di Morris (1955), Sellin (1967), Akman (1966), e Buffum (1976) dimostrano chiaramente che i rischi legati alla vita di prigione non aumentano con l’abolizione della pena di morte. Tale abolizione non risulta nemmeno in un aumento del comportamento omicida o aggressivo in quelle istituzioni penali dove sono detenuti i condannati per omicidio. Inoltre è ovvio che coloro che presentano il maggior rischio di recidiva sono gli omicidi mentalmente infermi. Tuttavia questi assassini sono per definizione esclusi dalla possibile applicazione della pena di morte. In ragione della loro infermità sono suscettibili di essere condannati alla massima pena e nessuno domanda la loro esecuzione come modo per proteggere il personale o i pazienti delle istituzioni psichiatriche dove sono generalmente rinchiusi. La capacità neutralizzante ed eliminatoria della pena di morte è perciò invalidata dal fatto che non è applicabile a quei soggetti che con maggiore probabilità ripeteranno la loro condotta criminosa. E sicuramente se abbiamo trovato che l’imprigionamento è un mezzo efficace per neutralizzare gli assassini infermi di mente possiamo farne altresì un mezzo per neutralizzare i “normali”. In terzo luogo, la ricerca empirica dimostra che gli assassini, come gruppo, hanno uno dei più bassi indici di recidiva tra i gruppi criminali. Vari studi svolti in Canada e all’ estero mostrano inequivocabilmente che gli assassini rilasciati si comportano bene e che il rischio che si corre liberando degli omicidi sulla parola è tra quelli che meglio si possono correre.
In Gran Bretagna la Commissione reale sulla pena capitale affermò che le informazioni ricevute da pressoché tutti i paesi del Commonwealth e dagli Stati Uniti dimostrano come gli assassini rilasciati si comportino generalmente bene dopo aver lasciato la prigione e che in nessuno dei paesi tale classe di prigionieri è ritenuta particolarmente propensa a delinquere una volta rilasciata. Negli Stati Uniti studi di Giardini e Farrow (1952), Donnelly e Brewster (1961) e Stanton (1969) sono giunti a conclusioni simili. Nel suo rapporto il Gruppo di Ricerca della Commissione Servizio Legislativo dell’Ohio (1961) riportò che le autorità penali dell’Ohio dichiararono davanti al comitato di studio che, per la maggior parte, gli assassini sono prigionieri “modello”. Inoltre il comitato stabilì che la quota di successo complessivo per condannati all’ergastolo per omicidio di primo grado rilasciati sulla parola era del 94,1% paragonata alla quota del solo 74% per tutte le altre classi di detenuti rilasciati sulla parola. I dati raccolti dai Uniform Parole Reports e pubblicati sul Bollettino del dicembre 1967, mostrano che su 1303 persone condannate per omicidio volontario, il 91,25% si era comportato positivamente sulla parola durante il periodo cruciale del primo anno dopo il rilascio sulla parola. Inoltre i dati dimostravano che il 98,31% di quelle persone non aveva avuto alcuna nuova condanna per gravi reati durante il periodo di un anno successivo al rilascio. In uno studio successivo si scoprì che, su un campione totale di 6908 individui rilasciati “sulla parola” dopo una condanna per omicidio volontario durante il periodo 1965-1969 e riportati sui “Rapporti”, il 98,23% (6786) si comportarono positivamente nel periodo “sulla parola” durante il primo anno successivo al rilascio. Essi non ebbero nuove gravi condanne o denunce a loro carico risultanti nel loro ritorno in carcere. In Canada le statistiche pubblicate dal National Parole Board, e riportate da Sheppard (1971), mostrarono come dal 1920 al 1967, 119 rei di delitti capitali che avevano avuto le loro sentenze commutate erano liberi sulla parola. Solo uno dei 119 commise un secondo omicidio e venne impiccato nel 1944. Tra il 1959 e il 1967 su 32 condannati a morte, la cui sentenza era stata commutata in ergastolo e che in seguito erano stati liberati sulla parola, solo uno fu condannato per un altro crimine e non si trattava di omicidio.
B. Moralizzazione.
Il secondo meccanismo in base al quale si ritiene che la pena di morte consegua la sua funzione preventiva è quello della moralizzazione attraverso la denuncia solenne dell’omicidio. In altre parole si ritiene che la pena di morte abbia una forte influenza educativa sulla popolazione in genere, perché più di qualsiasi altra punizione, riflette il rifiuto e l’orrore della società per l’orrendo atto dell’uccidere. Così mantenendo la pena di morte per il crimine più grave, la legge alimenta nella comunità una speciale avversione per l’omicidio. E’ difficile vedere come l’uccisione legale di un assassino ad opera dello stato possa favorire il rispetto per la vita umana. Sembra illogico dire all’omicida condannato e più genericamente alla società “ti uccidiamo perché Tu Non Ucciderai”. Come sostiene la baronessa Wootton (1969), “imitare azioni immorali non sembra un modo ragionevole per scoraggiarle”6. Se uno dei maggiori scopi del diritto penale è di denunciare il crimine, allora tale fine può essere meglio perseguito con mezzi diversi dalla ripetizione dello stesso atto per il quale il reo è stato condannato. La pena di morte non tutela né promuove il rispetto per la vita perché il suo effetto sulla gente è brutale, e non umanizzante. E’, nonostante quanto dicono i suoi sostenitori, un mezzo di vendetta piuttosto che un modo di esprimere la disapprovazione della società. Lo spettacolo dello stato che sopprime la vita sacra dell’omicida condannato, sia se fatto in pubblico sia se in carcere, tende a svalutare la stessa vita che si dovrebbe aiutare a venerare. Con le parole di Clarence Darrow (1922):
“Esecuzioni frequenti offuscano la sensibilità dinnanzi alla soppressione della vita. Ciò rende più facile per gli uomini assassinare e aumenta gli omicidi “7.
La stessa opinione fu ribadita dalla Commissione speciale del Massachusetts per la ricerca e lo studio sull’abolizione della pena di morte per i reati capitali (1958) quando dichiarò che:
“L’esistenza della pena capitale tende a svalutare la vita umana. Tende a incoraggiare sia negli adulti che nei bambini la credenza che la violenza fisica, la cui forma estrema consiste nel mettere a morte un individuo, sia un giusto mezzo per risolvere i conflitti personali e sociali”8.
1. Gli effetti brutalizzanti della pena capitale.
I riformatori sociali e penali sono sempre stati consapevoli degli effetti brutali che le pene crudeli, barbariche e selvagge hanno sulla comunità in cui sono inflitte. Sir Samuel Romilly si riferiva a questo risultato quando diceva: “Le pene crudeli hanno una inevitabile tendenza a produrre crudeltà nella gente”9. Similmente scriveva Voltaire:
“Non notate che i paesi in cui la pratica della legge mette in mostra i più orrendi spettacoli sono quelli in cui i crimini si moltiplicano? Non siete persuasi che l’amore per l’onore e il timore della vergogna sono dei moralisti migliori del boia? I paesi in cui si premia la virtù non sono più ordinati di quelli in cui non si fa che cercare dei pretesti per spargere sangue ed ereditare dei colpevoli?”10.
2. L’effetto contagioso della pena di morte.
Questa pena sembra esercitare un effetto contagioso attraverso l’esempio selvaggio che offre e attraverso il suo impatto suggestivo e imitativo. Ciò corrisponde alle ricerche su avvenimenti violenti, come suicidi pubblicizzati stragi ed omicidi, le quali mostrano come tali eventi siano spesso seguiti da atti emulativi. Bowers e Pierce (1980) riferiscono che sin dal 1846 Robert Rantoul Jr. ne diede la prova statistica al corpo legislativo e al governatore del Massachusetts dimostrando che “…dopo ogni caso in cui la legge viola la santità della vita umana, quella vita è ritenuta meno sacra dalla comunità in cui l’offesa è perpetrata”11. Gli stessi autori riportano un’osservazione comparsa sul Times di Londra il 25 gennaio 1864: “è stato spesso notato come in questo paese un’esecuzione pubblica è spesso seguita da vicino da casi di morte per impiccagione, sia di natura suicida sia accidentale, in conseguenza del potente effetto che l’esecuzione di un noto criminale produce su una mente debole e immatura”. 12
Essi citano pure Karl Marx che fece un’osservazione simile sul Daily Tribune del 18 febbraio 1853. Citando dati su esecuzioni, suicidi e omicidi per 43 giorni nel 1849, egli commentava: “Questa tabella […] mostra come non solo i suicidi ma anche gli omicidi più atroci seguano rapidamente l’esecuzione di criminali”13.
Nella loro ricerca sulle vicende successive all’uccisione di John F. Kennedy e a due stragi altamente pubblicizzate, Berkowitz e McCaulay (1971) hanno trovato che gli avvenimenti furono seguiti da un significativo aumento negli indici di crimini violenti nei mesi immediatamente successivi. In un tentativo di misurare l’impatto a lungo e a breve termine dell’esecuzione capitale di omicidi criminali, Bowers e Pierce (1980) esaminarono I dati sulle esecuzioni di delinquenti ed omicidi nello stesso stato di New York dal 1907 al 1963. La loro analisi voleva scoprire come il numero di omicidi in un dato mese risentisse del fatto che fossero avvenute, durante l’anno precedente, delle esecuzioni. Lo studio utilizzò diverse tecniche di regressione nel controllare la variazione stagionale di omicidi ed esecuzioni come pure I fattori esogeni. L’analisi mostra che nello stato di New York vi furono, nel periodo considerato, in media due omicidi in più nel mese successivo ad una esecuzione. Gli autori interpretano i loro risultati suggerendo che il metodo dell’esecuzione è più quello della “vendetta con la morte” che della dissuasione.
3. Gli effetti aggravanti della pena di morte. In aggiunta agli effetti disumanizzanti, brutali e contagiosi, la pena di morte porta talvolta ad un peggioramento di certi tipi di comportamenti criminali, creando così dei crimini ulteriori. Quando stupri, rapine, rapimenti o dirottamenti sono resi punibili con la morte, si crea un incentivo a sbarazzarsi della vittima la quale spesso è il solo testimone. La donna è violentata e uccisa, l’uomo è derubato ed eliminato come testimone, il bambino è rapito e assassinato, l’aereo è dirottato e infine esplode. Una conseguenza importante, sebbene di solito sottovalutata, della istituzione della pena di morte per l’importazione di droga in alcuni paesi dell’Asia è stata un sostanziale aumento dei conflitti a fuoco e della uccisione di agenti che tentavano di catturare i contrabbandieri.
C. Deterrenza.
I sostenitori della pena di morte credono che essa eserciti un eccezionale effetto deterrente e il massimo potere di dissuasione su criminali potenziali. Questo convincimento è accettato come un dato di fatto ed è alimentato da emozioni umane e dal bisogno di ritorsione. Nessun tentativo viene fatto per verificare la sua validità o fondatezza. Tuttavia, una volta che si sottopone ad un attento esame tale preteso eccezionale effetto deterrente, sorgono subito seri dubbi e l’intrinseca debolezza della posizione dei sostenitori di tale posizione appare evidente. Qualsiasi serio tentativo di valutare il generale effetto deterrente della pena di morte richiede un attento esame dei seguenti punti:
1. la natura e la realtà della minaccia;
2. le categorie dei potenziali trasgressori per i quali la minaccia è intesa;
3. l’efficacia della minaccia;
4. un paragone tra la minaccia rappresentata dalla pena di morte ed altre minacce utilizzabili dalla società. Tale paragone è necessario per scoprire se vi sono altre punizioni che scoraggino con altrettanta, se non maggiore, efficacia della pena di morte.
1. La natura e la realtà della minaccia.
La fede esagerata nell’efficacia della pena di morte come deterrente è basata sul comune convincimento che gli uomini temono la morte più di qualsiasi altra cosa e di gran lunga più del carcere a vita. Questa opinione generale non tiene conto di diversi fattori collegati alla natura e alla applicazione della pena di morte.
– Indipendentemente dalle statistiche che vengono impiegate, l’inevitabile conclusione è che il rischio obiettivo e statistico, per un potenziale assassino, di essere incriminato, condannato a morte e giustiziato in un sistema che prevede la pena di morte è, in verità, bassissimo.
-Infatti il potenziale omicida corre un rischio molto maggiore di essere ucciso mentre commette il suo crimine o mentre sta scappando dalla scena del delitto piuttosto che di venire legalmente giustiziato.
– Quando la motivazione è forte e grande è la tentazione, le stime personali del rischio di incorrere nella pena di morte sono probabilmente tali da far diminuire ulteriormente l’obiettiva probabilità di una esecuzione.
– La minaccia dell’esecuzione legale è, per la sua stessa natura, remota. Se il potenziale trasgressore fa un calcolo razionale del piacere o guadagno immediati derivanti dal crimine rispetto alla minaccia di venire giustiziato, probabilmente scarterà quest’ultima non solo a causa della sua scarsa probabilità ma anche a motivo della sua lontananza.
– La presunzione che la minaccia alla vita, anche quando remota e improbabile, sia la più potente delle minacce è basata su uno stato mentale ipotetico. Ciò è descritto dallo scomparso psichiatra americano Roche (1958), autore de “La mente criminale”, nel modo seguente: “L’argomentazione secondo cui la pena capitale è un deterrente può essere una valida asserzione fino a che riposa su uno stato mentale ipotetico che è una costante immaginaria. Ma non è confortata dall’esperienza che ci dice come in una data comunità si troverà una frazione della popolazione predeterminata da potenziali patologici e criminali che trascendono l’effetto deterrente di qualsiasi punizione, inclusa quella capitale. Le scienze psicologiche e sociologiche non sostengono l’opinione secondo cui la paura della pena di morte è un efficace deterrente al delitto. Al contrario noi incontriamo più spesso l’effetto opposto: la pena di morte può essere un incentivo a uccidere e qui, indirettamente, la pena capitale tende ad abbassare il rispetto per la vita umana. Il numero degli assassini che sono mentalmente instabili è maggiore di quanto vorremmo ammettere. In alcuni casi essi sono persino attratti dallo spettacolo della loro stessa esecuzione e tentano di assicurarsela per garantirsi la propria distruzione.”14.
2. Per chi è intesa la minaccia?
Quando si considera la necessità della pena capitale e la sua efficacia come daterrente, deve essere specificata una popolazione definita. La popolazione per la quale è intesa la minaccia della pena di morte si compone di coloro che:
– hanno probabilità di commettere il reato punibile con la morte; nella maggior parte dei sistemi che mantengono la pena di morte questo comportamento è l’omicidio;
– hanno probabilità di essere trattenuti dalla minaccia della morte. Ciò esclude due gruppi importanti dalla prospettiva della deterrenza, due gruppi che non sono influenzabili dalla pena di morte. Per il primo gruppo la pena non è necessaria, per l’altro è inefficace.
– il primo gruppo si compone di coloro che non hanno bisogno di una minaccia legale per trattenersi dal sopprimere una vita umana. Questo gruppo include la massa della popolazione, la massa di coloro che hanno adeguatamente introiettato le norme morali della società e che non contemplano mai l’idea di uccidere, non perché ciò è punibile dalla legge ma perché è contro il loro convincimento morale e religioso. In qualsiasi società la grande maggioranza della popolazione appartiene a questo gruppo. Sono cittadini altamente socializzati, rispettosi della legge, che non pensano o credono all’omicidio come un mezzo di guadagno, di piacere o di soluzione di conflitti e che, perciò, non hanno bisogno della minaccia della punizione per tenersi lontani dal togliere la vita ad altre persone.
– Il secondo gruppo si compone di coloro che non sono e non saranno trattenuti dalla minaccia di punizione, sia essa la morte o altro. Questo è il gruppo di coloro che non si riesce a trattenere, per i quali la deterrenza è inefficace. Che il crimine avvenga nonostante le sanzioni legali e che molti trasgressori ripetano il reato o ne commettano altri dopo aver già sperimentato una punizione è un’indicazione che in ogni società c’è un piccolo gruppo di persone che non sono né trattenute dalle minacce legali né dalla effettiva esperienza della punizione.
Questa distinzione vuole dimostrare che le generalizzazioni sull’efficacia della pena di morte come deterrente non sono molto utili nell’identificare la popolazione specifica sulla quale la minaccia deve agire e nell’indicare coloro che possono essere più o meno dissuasi. Una volta che siano specificati i tipi o le categorie di trasgressori che si ritiene abbiano bisogno della minaccia della pena di morte e che è probabile siano da essa trattenuti, ci troviamo davanti ad uno dei molti paradossi della pena di morte: dove ce n’è bisogno è improbabile che sia efficace e dove è probabile che sia efficace non ce n’è bisogno. Coloro i quali sono a favore del mantenimento o della reintroduzione della pena di morte dichiarano che è necessaria per trattenere terroristi o e assassini politici potenziali, sicari, omicidi sessuali, rei di strage e uccisori di poliziotti. Tuttavia tutti questi tipi di criminali sono esattamente quelli che meno probabilmente saranno spaventati dalla minaccia di una morte legale.
a) L’omicida per motivi ideologici.
Alcuni paesi dell’ Europa occidentale, non essendo in grado, davanti all’incremento dell’attività terroristica, di affrontare le condizioni politiche, sociali ed economiche che nutrono il terrorismo, conoscono crescenti pressioni per restaurare la pena di morte. Atti terroristici commessi in diversi paesi dell’Europa occidentale durante gli ultimi 10 anni hanno suscitato più voci a favore di un ritorno della pena capitale che in qualsiasi altro periodo recente. In Gran Bretagna richieste per un ritorno al nodo scorsoio vennero mosse in seguito alle bombe irlandesi di Londra e all’uccisione del conte Mountbatten. In Italia, un paese abolizionista per tradizione, le richieste per reintrodurre la pena di morte furono provocate dall’attività delle Brigate Rosse e accresciute dall’uccisione dell’ex-premier Aldo Moro. Nella Germania Federale il massacro degli atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco del 1972, l’attività del gruppo Baader-Meinhof e in particolare il rapimento e l’uccisione dell’industriale Hans Martin Schleier, furono l’esca per coloro che volevano il ripristino della pena di morte. Più recentemente, in Francia, paese che ha abolito la pena di morte solo l’anno scorso, la polizia ha chiesto il ritorno della ghigliottina in seguito ad alcuni recenti attacchi antisemiti e antiamericani a Parigi. Il senatore francese Pierre Salvi, centrista, ha urgentemente richiesto il ripristino della pena di morte per i terroristi rei di omicidio. Può ben essere che queste domande siano motivate dallo stesso sentimento di vendetta che animava la legge del taglione. In ogni modo, è il presunto insostituibile valore deterrente della pena di morte che è sempre dato a giustificazione della domanda di reintroduzione. Coloro i quali realmente pensano che la reintroduzione della pena capitale metterà fine o ridurrà il numero di atti terroristici o sono estremamente ingenui o vittime di un’illusione. Le punizioni ordinarie, inclusa la pena di morte, non impressionano i terroristi o gli altri criminali politici che sono motivati ideologicamente e pronti a fare ogni sacrificio per il bene della loro causa. Il terrorista è convinto della legittimità e della giustezza morale della sua causa. Egli ricorre a tattiche terroristiche per dedizione e disperazione ed è molto spesso in cerca del martirio. In tali casi nessuna punizione, sia essa la morte o il carcere, agirà come deterrente. Inoltre, le attività terroristiche sono svolte nel pericolo, e il terrorista corre ogni tipo di rischio mortale senza essere intimidito dalla possibilità di una morte immediata. è concepibile che egli possa essere trattenuto dal rischio basso e remoto della pena di morte? Non solo la pena di morte è inefficace come deterrente per il terrorista potenziale, ma il suo uso può facilmente portare ad un crescendo degli atti di terrore. Schreiber (1978) nota che i gruppi terroristici hanno un autentico potere, per piccolo che sia, e mettere a morte un terrorista catturato equivale ad invitare alla rappresaglia contro innocenti. Inoltre, la morte in seguito ad esecuzione in molti casi serve allo scopo del terrorista richiamando su di lui, specie agli occhi dei compagni terroristi e di quelli che solidarizzano con la sua causa, una immagine di eroe e realizzando la sua ambizione interiore al martirio. In tali casi la pena di morte può agire più da incentivo che da deterrente.
b) Il sicario
Coloro i quali credono che la punizione capitale sia un deterrente potente e insostituibile pongono semplicemente troppa fede nel potere delle minacce della legge, nella razionalità dell’uomo e nella capacità della paura di piegare o controllare il comportamento non desiderato. Essi dimenticano che la prospettiva di un piacere o un guadagno immediato supera largamente tutti i rischi remoti compreso quello della morte, dell’inferno o della dannazione. In molte attività il rischio di una morte accidentale è molto più alto della minaccia di una esecuzione legale cui va incontro il sicario. La morte come rischio di lavoro non trattiene la gente da mestieri come le estrazioni minerarie, la perforazione oceanica nelle ricerche petrolifere, la costruzione di grattacieli, l’agonismo automobilistico, le corride e così via. C’è poca differenza tra il sicario e il mercenario. Nessuno dei due ha paura di morire ed entrambi sono pronti a rischiare la loro vita in cambio del denaro.
c) L’omicida sessuale
Anche i più ardenti sostenitori della deterrenza ammettono che non è probabile che essa funzioni in situazioni in cui siano presenti forti passioni o emozioni. Fitzgerald (1962) descrive i presumibili effetti della pena di morte su vari tipi di omicidi nel modo seguente:
“Gli omicidi a sfondo sessuale e quelli commessi da individui mentalmente anormali non vengono probabilmente scoraggiati da alcuna minaccia. Allo stesso modo gli omicidi impulsivi, compresi i “delitti passionali”, è improbabile che siano prevenuti da qualsiasi tipo di pena. D’altra parte, la persona ordinaria che può asserire che la morte la tratterrebbe più della prigione, in ogni caso difficilmente commetterebbe un omicidio, perché agire così sarebbe contrario al suo credo morale mentre comunque la minaccia dell’imprigionamento servirà a farla agire in armonia con i suoi principi. Assassini come Crippen, che non sono delinquenti professionali, è improbabile che siano trattenuti da una qualsiasi minaccia perché contano di sfuggire all’indagine”.
Alcuni omicidi sessuali sono pazzi, altri deboli di mente, altri ancora soffrono di qualche disordine mentale o anomalia patologica che riduce la loro responsabilità e li esclude dall’applicazione della pena di morte. Gli altri, quelli cosiddetti normali, ammesso che possa esistere qualcosa come un normale assassino sessuale, mancano della capacità di controllare i loro impulsi sessuali. Una volta sotto lo stimolo dei loro desideri sessuali, essi sono o incapaci di pensare alle conseguenze dei loro atti o sonio disposti, per amore di un piacere o di un sollievo momentaneo, a rischiare le più gravi conseguenze. Ci sono diversi tipi di assassini a sfondo sessuale ma i due tipi più comuni sono il sadico e il “primitivo”. L’assassino sadico, che prova piacere sessuale dal far soffrire le sue vittime, dal mutilare e torturare, o dalla vista del sangue, è tipicamente un individuo talmente ossessionato dai suoi impulsi e fantasie sessuali che nessuna punizione, non importa quanto severa, avrà probabilità di intimidirlo e dissuaderlo dal dare sfogo ai suoi impulsi sessuali devianti. Per quanto riguarda l’omicida sessuale “primitivo” che uccide la sua vittima, l’unico testimone del suo crimine, per nessun’altra ragione che per sfuggire alle indagini, è probabile che sia incoraggiato, piuttosto che distolto, ad eliminare la sua vittima dalla prospettiva di essere giustiziato. Per di più è ben noto che gli omicidi sessuali sono difficili da risolvere, perché manca, nella maggior parte dei casi, una precedente relazione tra l’assassino e la sua vittima. Questa bassa quota di successi significa che l’oggettiva probabilità di incorrere nella pena di morte è persino più bassa che negli altri tipi di omicidio. Tale bassa probabilità oggettiva aggiunta all’eccessivo ottimismo di molti delinquenti sessuali, con ogni probabilità annulla qualsiasi effetto deterrente che la pena di morte possa mai avere.
d) Il reo di strage
Quello che si è detto a proposito dell’omicida sessuale si applica a quegli assassini di massa il cui principale movente è quello sessuale. Le stragi a sfondo sessuale, sebbene relativamente rare, ricevono ampia pubblicità e risalto informativo in modo sproporzionato rispetto al loro numero. Ad ogni modo esse avvengono davvero, e tra i recenti casi uno ha avuto luogo nella provincia dove risiedo, la Columbia Britannica. Le stragi non dovute a moventi sessuali, sia che coinvolgano sparatori singoli che tirano a caso o il membro di una famiglia che uccide gli altri componenti prima di uccidersi a sua volta, o un barbablù che mette a morte le sue mogli, sono comunque commesse da individui devianti che non sono guidati dalla razionalità e dalla logica. L’idea di vederli ponderare potenziali pene è un assurdo. Poiché le pene per l’omicidio, siano esse la morte o una lunga condanna al carcere, sono entrambe così severe da distruggere il futuro di chiunque sia ad esse sottoposto, il crimine non dovrebbe essere commesso da un individuo razionale, a meno che costui non pensi che vi siano poche probabilità di essere preso. Per questa ragione la differenza dell’effetto deterrente tra la possibilità di un’esecuzione e il massimo della prigione a vita deve essere piccola fino a scomparire (cfr. Washington Research Project Report, 1971, p.17).
e) L’assassino di poliziotti
Mentre i terroristi possono scegliere i poliziotti come bersagli, gli omicidi premeditati di agenti di polizia ad opera di ordinari cittadini sono estremamente rari. La maggior parte delle uccisioni di membri della polizia capita nel corso dei loro interventi in dispute familiari, rapine o furti in corso. Risultano da una violenta, travolgente emozione, un impulso improvviso, una reazione eccessiva, o da un forte stimolo di autodifesa. Sono commessi in situazioni cariche di panico, o di gravi emozioni, entrambe tali da escludere la possibilità di valutare in modo freddo e razionale le conseguenze. Il carattere impulsivo e irrazionale degli omicidi commessi contro la polizia nel corso di una rapina, un furto, un inseguimento è di per se evidente. Un delinquente razionale, nel pieno controllo del suo comportamento, non rischierebbe il carcere a vita per evitare una pena ben più leggera di alcuni anni di prigione o una multa in caso di eccesso di velocità. L’uccidere in queste circostanze è un atto totalmente irrazionale e la punizione prescritta dalla legge non ha, così, alcuna efficacia preventiva.
3. Quanto è efficace la minaccia?
a) Pena capitale e aumento degli omicidi
I sostenitori della pena di morte, specie negli Stati Uniti, di solito si basano sull’aumento degli omicidi attraverso gli anni e deducono che questo costituisce una pressante ragione per non abolire la pena capitale o per reintrodurla là dove la si è abolita o sospesa. La strategia è semplice; tipico è un rapporto pubblicato lo scorso anno (1981) dal Dipartimento di Giustizia della California con il titolo “Omicidio e pena di morte: un rapporto speciale per i cittadini”. Questo rapporto, fortemente critico nei riguardi della Corte suprema della California per avere efficientemente ostacolato l’applicazione delle leggi sulla pena di morte nello stato, tenta di creare l’impressione che esista un legame causale tra la non applicazione della pena capitale e l’aumento degli omicidi criminali in California. Il rapporto afferma che durante i sedici anni precedenti la sua pubblicazione, periodo in cui la California non applicò la pena di morte, il tasso degli omicidi è aumentato del 240%, da 4,2 su 100.000 abitanti nel 1964 a 14,3 su 100.000 del 1980. Esso sostiene inoltre che i cittadini della California hanno oggi quattro volte più probabilità di essere uccisi per assassinio di quante non ne avessero quando gli assassini erano giustiziati! L’intento è chiaro: allarmare il pubblico sperando di spingerlo ad appoggiare le esecuzioni legali. Suggerendo che la crescita degli omicidi è causalmente legata alla soppressione de facto della pena di morte in California, il rapporto, a dire poco, inganna il pubblico. Ciò che questo documento ed altri simili ad esso evitano intenzionalmente di indicare è che tra l’aumento dei casi di omicidio e la non applicazione della pena di morte vi è, con ogni probabilità, solo una coincidenza. Un’altra omissione deliberata è il mancato confronto tra la variazione del tasso degli omicidi e quello degli altri crimini violenti. Se tale paragone avesse mostrato un più marcato aumento nelle altre forme di reati violenti, si sarebbe ancora potuto dire che l’aumento degli omicidi è attribuibile a alla mancata esecuzione degli assassini della California? è errato studiare i tassi degli omicidi separandoli dagli altri delitti. Qualsiasi tentativo di stabilire un legame causale tra l’abolizione o la sospensione della pena capitale e il tasso degli omicidi dovrebbe almeno considerare quest’ultimo sullo sfondo della criminalità violenta. Solo allora il vero quadro della violenza può essere colto e solo allora si possono dare interpretazioni sui mutamenti e le fluttuazioni. Ciò che il rapporto del Dipartimento di Giustizia non dice ai cittadini della California è che altri crimini violenti, escludendo gli omicidi, sono aumentati, durante lo stesso periodo, del 237%, che le aggressioni aggravate sono salite del 217% e che l’aumento del tasso delle rapine è stato almeno 4 volte quello degli omicidi criminali: 899%! (vedi tab.1). Quando si sostiene in Canada che la sospensione prima de facto e quindi de jure della pena capitale è stata responsabile di un netto aumento degli omicidi, mi impegnai personalmente a verificare la validità di tale affermazione. Lo studio coprì un periodo di 9 anni dal 1962 (l’anno in cui ebbero luogo in Canada le ultime esecuzioni) al 1970 ed esaminò non solo le statistiche sugli omicidi criminali (assassinio e uccisione colposa [non negligente]) ma anche quelle sui tentati omicidi, i ferimenti e le aggressioni, gli stupri e le rapine. I risultati furono inequivocabili. Il tasso di omicidio mostrava le più ampie variazioni di anno in anno e il suo aumento complessivo era il più basso tra tutti i reati studiati. Ciò indicava oltre ogni dubbio che l’aumento deli omicidi non era attribuibile né era in alcun modo legato alla sospensione della pena di morte. Quanto è accaduto dopo l’abolizione totale della pena capitale nel 1976 è ancora più indicativo. Dal 1976 il tasso degli omicidi nel Canada è stato costantemente in declino. Il 1981, l’ultimo anno le cui statistiche sono a disposizione, testimoniò un leggero aumento rispetto all’anno precedente: dal 2,48 su 100.000 abitanti del 1980 al 2,67 su 100.000 abitanti del 1981. Quest’ultimo indice tuttavia è ancora più basso di quanto non lo fosse prima dell’abolizione: 3,07 su 100.000 abitanti del 1975. Tutte le prove disponibili indicano, perciò, che la pena capitale non influisce sul tasso degli omicidi. Ciò è eloquentemente riassunto dal prof. Norval Morris (1967) in questo modo:
“…tutti i dati disponibili suggeriscono che, dove il tasso di omicidi è in aumento, l’abolizione non appare accelerare l’aumento; dove il tasso cala, l’abolizione non sembra interrompere tale calo; dove il tasso è stabile la presenza o l’assenza della pena capitale non sembra essere rilevante”15.
Morris conclude che nel valutare l’opportunità dell’abolizione o del mantenimento della pena capitale, non si può accettare tranquillamente che la pena capitale abbia un effetto deterrente generale maggiore delle pene alternative. Nota come coloro che insistono nel sostenere che l’argomento della deterrenza generale è ancora aperto non hanno sufficientemente compreso i dati a disposizione.
b) La pena capitale e l’uccisione di poliziotti
Le forze di polizia del Canada, negli Stati Uniti e in molti altri paesi sono tra i sostenitori più attivi della pena di morte. Ad un recente incontro dei capi della polizia canadesi avvenuto ad Halifax, Nuova Scozia, fu approvata una risoluzione che chiedeva la reintroduzione della pena di morte. Tale risoluzione è diventata un rituale annuale. L’argomento posto a sostegno della richiesta dei poliziotti per un ritorno alla impiccagione è sempre lo stesso. Nonostante le prove in contrario, si sostiene sempre che la pena capitale costituisce una protezione supplementare per gli agenti dall’essere uccisi sul lavoro. Questo argomento, come tutti quelli che puntano sull’eccezionale effetto deterrente della pena capitale manca di qualsiasi sostegno empirico. Ricerche vecchie e nuove non danno credito alle asserzioni della polizia. Campion (1956), Sellin (1962, 1967, 1980) e Cardarelli (1968) misero a confronto le uccisioni di poliziotti negli stati degli USA che hanno abolito e in quelli che non hanno abolito la pena di morte. Tutti conclusero che i tassi non danno sostegno empirico alla tesi secondo cui la polizia è meglio protetta quando la pena di morte è mantenuta o che i rischi del mestiere aumentano in seguito alla sua abolizione. Più recentemente, Bailey (1982) ha svolto uno studio a più variabili sull’effetto deterrente della pena capitale sul tasso di aggressioni mortali contro la polizia. Lo studio ha esaminato dati a livello di stato nel periodo 1961-1971. Bailey aveva ipotizzato un significativo rapporto inverso tra il tasso delle uccisioni di agenti e 1) le previsioni legali per la pena capitale e 2) il tasso di esecuzioni di assassini condannati. Contrariamente alle ipotesi della deterrenza, non trovò alcun elemento per sostenere che la previsione e la applicazione della pena di morte forniscano una misura aggiuntiva di protezione per la polizia. Piuttosto, variazioni negli indici delle uccisioni dei poliziotti, come il tasso generale degli omicidi, sembrano essere in gran parte una funzione di fattori socio-demografici.
4. La pena di morte è un deterrente insostituibile?
In un recente articolo, pubblicato sul “Canadian Journal of Criminology” (1981) ho passato in rassegna vecchi e nuovi studi sull’effetto deterrente della pena di morte. Tale rassegna non ha confortato la teoria secondo cui la pena di morte avrebbe un potere deterrente insostituibile. Le prime ricerche cercavano di accertare l’effetto deterrente in diversi modi:
a) esaminando l’effetto di un tasso decrescente di esecuzioni sui tassi di omicidio;
b) confrontando i tassi degli omicidi in paesi e/o stati prima e dopo l’abolizione o la reintroduzione della pena capitale;
c) mettendo a confronto gli indici degli omicidi tra stati vicini e apparentemente omogenei con e senza la pena di morte;
d) accertando se gli agenti di polizia e le guardie carcerarie fossero più sicuri dalle aggressioni omicide negli stati abolizionisti o negli altri;
e) esaminando le tendenze degli omicidi nelle città dove avvenivano le esecuzioni e dove queste ultime si pensava fossero state ampiamente pubblicizzate.
Fino al 1975 i ricercatori che analizzavano statistiche di assassinii ed omicidi furono unanimi nelle loro conclusioni. Essi non trovavano alcuna prova empirica a sostegno della presunta eccezionale natura deterrente della pena capitale e non poterono scorgere alcun effetto visibile della stessa sui tassi di omicidio. Ma nel 1975 fu pubblicato uno studio che riportava conclusioni opposte. Esso era ad opera di I. Ehrlich, un economista dell’Università di Chicago. Ehrlich usò un insieme di ipotesi per formulare un modello econometrico, utilizzò insiemi di dati sugli omicidii e le esecuzioni in tutti gli Stati Uniti e sostenne di aver trovato le prove che una esecuzione capitale avrebbe sicuramente trattenuto alcuni assassini potenziali e avrebbe salvato almeno otto vite. A causa della natura delle sue affermazioni e dell’ampia pubblicità che esse ricevettero, ci furono diverse repliche al suo studio. Tali repliche rivelarono la fondamentale debolezza delle sue ipotesi, del suo modello e delle sue analisi. I suoi avversari sostenevano che i suoi argomenti a favore della deterrenza dipendevano da un presupposto restrittivo sulla relazione matematica tra gli omicidi e le esecuzioni, dall’aggiunta di un particolare gruppo di osservazioni, dall’uso di un limitato numero di variabili di controllo e da una costruzione particolare del tasso di esecuzioni, la variabile chiave. McGahey (1980) così riassunse i punti deboli dello studio di Ehrlich: “Tutti coloro che presero direttamente in considerazione il lavoro di Ehrlich riscontrarono che i pretesi effetti della pena capitale erano dipendenti dalla scelta di variabili incluse nell’equazione, dalla definizione e dalle forme di quelle variabili, dalle particolari forme matematiche dell’equazione e dall’uso di un periodo di tempo molto specifico”.
RIASSUNTO
1. Le richieste volte a mantenere o reintrodurre la pena di morte sono basate su nient’altro che affermazioni prive di sostanza, argomenti fondati sul buon senso e punti di vista fondati su impressioni personali riguardo al suo insostituibile effetto deterrente.
2. Ad ogni tentativo di abrogare la pena di morte nei tempi andati si disse che se i criminali non fossero stati giustiziati il delitto sarebbe sostanzialmente aumentato e la sicurezza della società sarebbe scomparsa. Tuttavia queste predizioni e queste previsioni infauste si sono sempre dimostrate infondate.
3. Si ritiene che la pena capitale svolga la sua funzione preventiva tramite tre meccanismi principali: l’eliminazione, la moralizzazione e la deterrenza.
4. L’eliminazione assolve alla sua funzione difensiva solo se la pena capitale viene applicata con frequenza, il che non accade. La detenzione è un mezzo efficace per neutralizzare gli assassini pericolosi ed è usato efficacemente con gli assassini infermi di mente. Potrebbe essere altrettanto efficace nel caso di omicidi normali. Inoltre gli assassini come gruppo hanno uno dei tassi più bassi di recidiva di tutti i gruppi criminali.
5. L’uccisione ufficiale ad opera dello stato non promuove il rispetto per la vita umana. Ha un effetto brutale e contagioso attraverso il suo impatto suggestivo ed emulativo. In più, quando la pena di morte è prescritta per crimini diversi dall’omicidio, ha la tendenza ad aggravare tali delitti e a creare nuova criminalità.
6. L’esagerata fiducia sull’efficacia della pena di morte come deterrente non tiene conto di diversi fattori legati alla natura e all’applicazione della pena di morte: il rischio oggettivo e statistico per un assassino potenziale di venire condannato a morte e giustiziato è molto basso e molto inferiore ad altri rischi cui il criminale è esposto mentre commette il delitto o si sta allontanando dal luogo.
7. Valutazioni soggettive del rischio di incorrere nella pena di morte probabilmente riducono ulteriormente l’oggettiva possibilità di una esecuzione. Inoltre il rischio è remoto ed è superato dalla prospettiva del piacere e del guadagno immediati.
8. Quando si considera l’efficacia della pena di morte come deterrente si deve specificare a chi è rivolta precisamente tale minaccia. Diviene allora chiaro che, dove la pena di morte è richiesta essa probabilmente non è efficace, mentre non è richiesta là dove avrebbe probabilità di essere efficace.
9. Coloro i quali vogliono il mantenimento o la reintroduzione della pena capitale dichiarano che è necessaria per trattenere terroristi potenziali e assassini politici, sicari, omicidi sessuali, rei di stragi ed uccisori di poliziotti. Tuttavia questi tipi di criminali sono precisamente quelli che meno di tutti possono essere trattenuti dalla minaccia di una esecuzione.
10. le affermazioni circa l’esistenza di un legame causale tra l’abolizione, di fatto o di diritto, della pena di morte, e un aumento nei tassi di omicidio sono smentite dal fatto che l’aumento di tale tasso non è più alto di quello di altri crimini violenti e anche dal costante declino dei tassi di omicidio in alcuni paesi a seguito dall’abrogazione della pena di morte. Infatti, tutti i dati disponibili suggeriscono che la pena di morte non ha in realtà effetti sul tasso di omicidi.
11. Ricerche vecchie e nuove non sostengono la tesi secondo la quale la pena capitale fornisce una protezione supplementare ai poliziotti con il rischio di venire assassinati durante il lavoro. Le variazioni nelle percentuali di omicidi di agenti di polizia, come quelle degli omicidi in genere, dipendono in gran parte da fattori socio-demografici.
12. Ricerche vecchie e nuove sulla deterrenza e sugli effetti della pena di morte non sostengono la tesi fondata sul buon senso secondo la quale la pena capitale rappresenta un deterrente insostituibile o che essa sia più efficace di altre pene.
Variazioni nei reati che comportano violenza nello stato della California 1964-1980
|
1964 numero |
1964 tasso |
1980 numero |
1980 tasso |
variaz. % |
Omicidi dolosi |
740 |
4,2 |
3411 |
14,3 |
240% |
Aggressione aggravata |
24480 |
137,6 |
102766 |
436,7 |
217% |
Rapina |
18667 |
103,2 |
90420 |
384,2 |
899% |
Stupro |
3621 |
20 |
13963 |
58,2 |
191% |
Totale generale |
47908 |
265,0 |
210290 |
893,4 |
237% |
Totale escluso omicidio doloso |
|
260,8 |
|
879,1 |
237% |
Fonte: Uniform Crime Reports, edito da Federal Bureau of Investigation, FBI 1964 e 1980
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(*) Ezzar A. Fattah, Ph. D. – Professor Department of Criminology Simon Fraser University. Burnaby, British Columbia, Canada
Paper delivered at the seminar on “The death penalty in the world”, Bologna, 28-30 October 1982
Amnesty International Index: ACT 05/19/82
RINGRAZIO CLAUDIO GIIUSTI PER AVERMELO SEGNALATO. (db)
N O T E
1 “I am absolutely convinced—I know— that fear of violent death is a deterrent, and no statistics, no arguments whatever, will convince me that it is not.” Sir Patrick Spens, UK Parliament, 1956
http://hansard.millbanksystems.com/commons/1956/feb/16/capital-punishment
2 “No other punishment deters man so effectually from committing crimes as the punishment of death. This is one of those propositions which it is difficult to prove, simply because they are in themselves more obvious than any proof can make them. It is possible to display ingenuity in arguing against it, but that is all. The whole experience of mankind is in the other direction. The threat of instant death is the one to which resort has always been made when there was an absolute necessity for producing some result … No one goes to certain inevitable death except by compulsion. Put the matter the other way. Was there ever yet a criminal, who when sentenced to death and brought out to die, would refuse the offer of a commutation of his sentence for the severest secondary punishment? Surely not. Why is this? It can only be because ‘All that a man has he will give for his life.’ In any secondary punishment, however terrible, there is hope; but death is death; its terrors cannot be described more forcibly.”
Sir James Fitzjames Stephen, in Royal Commission on Capital Punishment 1866, page 254, 1980a
3 “Lord Simon expressed he had no doubt that Capital Punishment prevented more murders to an extent that no other punishment could. It was not a matter of statistics but of the judgment and commonsense of every individual. In a speech in the House of Lords in 1948, Lord Jowitt said that “to his mind there was only one possible justification of Capital Punishment – that its potency as a deterrent reduced the number of murders. He believed it did: he could not prove it: it must be matter of impression and one’s own personal opinion. Lord Brideman based his belief in the deterrent force of the penalty “more on what I think is my knowledge of human nature than anything else, and Bishop of Truro thought that on the value of the death penalty as a deterrent…. his own feelings were a surer guide than any statistics from other countries….. and he was sure that the death penalty would be a great deterrent to him if he were contemplating murder.”
Krishna Kumari, Areti, Capital Punishment: The Never Ending Debate http://ssrn.com/abstract=956229
Role of Theories of Punishment in the Policy of Sentencing http://ssrn.com/abstract=956234
4 Speaking in the House of Commons in 1878, Sir Joseph Pease said: “The continual mitigation of law and of sentences has been accomplished with property quite as secure, and human life quite as sacred”
https://www.publicsafety.gc.ca/lbrr/archives/hv%208699.c2%20f3%201972-eng.pdf
5 “There is no clear evidence in any of the figures we have examined that the abolition of capital punishment has led to an increase in the homicide rate, or that its reintroduction has led to its fall.” http://www.rochester.edu/college/psc/clarke/214/Archer83.pdf
http://hansard.millbanksystems.com/commons/1956/feb/16/capital-punishment
6 In: Louis Blom-Cooper ed. The hanging question: Essays on the death penalty. Gerald Duckworth. London, 1969. P 13
7 “Frequent executions dull the sensibilities toward the taking of life. This makes it easier for men to kill and increases murders, which in turn increase hangings, which in turn increase murders, and so on, around the vicious circle.”
Clarence Darrow, Crime its causes and treatment, New York, 1922
http://darrow.law.umn.edu/documents/Crime%20Causes%20&%20treatment.pdf
8 “The existence of capital punishment tends to cheapen human life. It tends to encourage both children and adults to believe that physical violence, the ultimate form of which is putting an individual to death, is a proper method of resolving social and personal conflict.” 1959 House Doc. No. 2575, at 45. http://www.nodp.org/ma/stacks/369_Mass_242.txt
9 Sir Samuel Romilly was right when he told an indifferent House of Commons in 1813 that “cruel punishments have an inevitable tendency to produce cruelty in the people.” http://www.austlii.edu.au/au/journals/SydLRev/1967/13.pdf
10 Ne remarquez-vous pas que les pays où la routine de la loi étale les plus affreux spectacles sont ceux où les crimes sont le plus multipliés ? N’êtes-vous pas persuadés que l’amour de l’honneur et la crainte de la honte sont de meilleurs moralistes que les bourreaux ? Les pays où l’on donne des prix à la vertu ne sont-ils pas mieux policés que ceux où Ion ne cherche que des prétextes de répandre le sang, et d’hériter des coupables?
http://www.monsieurdevoltaire.com/2014/09/prix-de-la-justice-et-de-l-humanite-partie-9.html
11 “After every instance in which the law violates the sanctity of human life, that life is held less sacred by the community among whom the outrage is perpetrated.” Robert Rantoul Jr. http://www.nytimes.com/1995/02/07/opinion/what-prosecutors-won-t-tell-you.html
12 “It has often been remarked that in this country a public execution is generally followed closely by instances of death by hanging, either suicidal or accidental, in consequence of the powerful effect which the execution of a noted criminal produces upon a morbid and unmatured mind.” The Times of Jan. 25 1853 https://www.marxists.org/archive/marx/works/1853/02/18.htm
13 Robert M. Bohm, Karl Marx and the Death Penalty, 25 September 2008, Springer
http://www.controappuntoblog.org/2012/07/29/karl-marx-and-the-death-penalty-robert-m-bohm/
14 “The argument that capital punishment deters may be a valid assertion so long as it rests upon a hypothetical state of mind which is a fictional invariable. But it is not verified by experience which tells us that in a given community there will be found a segment of its population predetermined with pathological and criminal potentials transcending the deterring effect of any punishment including capital punishment. The psychological and sociological sciences do not support the belief that the fear of death is an effectual deterrent to crime. On the contrary, we more often encounter the opposite effect; the death penalty may be an incentive to murder, and here indirectly capital punishment tends to lower the respect for human life. The number of murderers who are mentally unstable is larger than we wish to admit. Even in some instances they are attracted to the spectacle of their own execution and attempt to secure it to insure their own destruction”. https://www.publicsafety.gc.ca/lbrr/archives/hv%208699.c2%20f3%201972-eng.pdf
15 With respect to the influence of the abolition of capital punishment upon the incidence of murder, all of the available data suggest that where the murder rate is increasing, abolition does not appear to hasten the increase; where the rate is decreasing, abolition does not appear to interrupt the decrease; where the rate is stable, the presence of or absence of capital punishment does not appear to affect it.
http://hansard.millbanksystems.com/commons/1969/dec/16/murder-abolition-of-death-penalty
Grazie di aver masso a disposizione la preziosa archeologia di Claudio Giusti!
Sono cose scritte parecchi anni fa ma risultano più chiare e attuali di quelle che vengono scritte oggi.