Il dramma di Marjan
di Angela Nocioni (*)
Guardate bene la ragazza nella foto.
Si chiama Marjan Jamali, ha 29 anni, è di Teheran. Chiedetevi quanto sia compatibile quel viso di donna con il modello (ufficiale) di femmina secondo il regime degli ayatollah di Teheran.
Ecco, suo padre dev’essersi dato grosso modo la vostra stessa risposta e ha fatto di tutto per mettere insieme i 14 mila dollari necessari a far scappare dall’Iran lei – fragile, sola, determinata a vivere all’occidentale – e suo figlio, di 8 anni. Il bambino bellissimo, si chiama Faraz Nemati.
Marjan e Faraz arrivano in Turchia, vanno fino alla costa. Nella notte tra il 22 e il 23 di ottobre dell’anno scorso salgono a bordo di una barca a vela. Destinazione Europa. La barca è di quindici metri. Dentro ci sono un centinaio di persone.
Sottocoperta, stipata con lei e Faraz, c’è tanta gente, ci sono anche alcune famiglie iraniane, parlano persiano come lei.
Si scambiano numeri di telefono. Il cibo scarseggia, quasi subito finisce l’acqua.
Tensioni. Liti per accaparrarsi un posto dove circoli un po’ d’aria. Un giorno, durante la traversata, mentre lei è stesa assopita, con il bambino accanto, che non sta dormendo, si sveglia di soprassalto sentendosi mani che le si infilano sotto i vestiti.
Le palpano, il seno, il sedere, provano a scoprirla. Lei strilla.
Chiede aiuto alle persone stipate insieme a lei lì sotto. Solo un ragazzo la difende. Iraniano, come lei. Si chiama Amir Babai. La pagherà carissima.
Dice ai quattro di smettere, di lasciarla in pace. Parte un litigio. Faraz guarda immobile, terrorizzato. I quattro sono furibondi. Si chiamano Rahen Khalid Rasul, Rahman Izadi, Mohammed Lateef Hasan e Ali Bishwan Darwish. Tutti e quattro iracheni.
L’ultimo, Ali Bishwan Darwish, dice Marjan, era uno dei capitani.
Il più violento, dice lei, era Rahen Khalid Rasul. Bishwan Darwish la minaccia: te la faccio pagare. Ci sono persone che possono confermare? La barca era stracolma. Sì, dice Marjan. Sono tutti iraniani quelli che dopo l’hanno un po’ aiutata. Alì Hussein, Irfan Barzigar, Mortaza Abbasi ed Aronzo Abbasi.
Qualcuno alla Procura di Locri l’ha cercati?
Perché poi, quando la barca è intercettata e i migranti nel porto di Roccella identificati, alla solita domanda che gli agenti di polizia fanno agli sbarcati “chi sono gli scafisti?” i quattro a rispondere sono proprio Rahen Khalid Rasul, Rahman Izadi, Mohammed Lateef Hasan e Ali Bishwan Darwish, gli aggressori della ragazza.
E chi indicano?
Lei e Amir Babai, l’iraniano che l’ha difesa. Ora, qualcuno si è chiesto se siano attendibili le accuse di quattro iracheni, maschi, sunniti, contro due iraniani sciiti?
E soprattutto, dato per assodato che sono state prese per buone quelle accuse (uniche prove per sbattere in galera due persone su cui non grava nessun altro indizio) qualcuno si è assicurato di avere gli accusatori a disposizione per un incidente probatorio comandato dalla legge? No.
E gli accusatori ovviamente, arrivederci e grazie e sono spariti.
Questo succede tutti i santi giorni. Chi arriva da clandestino e viene identificato ha subito notificato il reato commesso (ex articolo 10). Non si ferma lì cortesemente ad aspettare di passare altri guai. Si allontana prima possibile.
Qualcuno si è preoccupato di ascoltare la ragazza indicata come scafista?
Eppure è strano che in una barca gremita di 100 persone comandi una ragazza.
Lei viene identificata. Nel verbale di identificazione c’è scritto che lei parla e capisce l’arabo.
Non è vero.
L’interprete che le traduce quelle domande e quelle risposte fondamentali per la sua vita è un iracheno, maschio, sunnita che non capisce il persiano che lei parla ma al verbale di tutto ciò niente risulta. Tanto poco capisce l’interprete/mediatore che non capisce nemmeno come si chiama la ragazza. Maryam Qaderi, sta scritto nel rapporto, nata il primo gennaio del 1995. Sbagliato anche il nome del bambino. Ora bastava guardare nell’iphone che la ragazza aveva con sé per trovare le foto dei passaporti con i nomi corretti e le date di nascita.
Gli accusatori vengono lasciati liberi di sparire, insieme a loro e a tutti gli altri spariscono pure gli scafisti iracheni. Insieme a Marjan e l’iraniano che l’ha difesa viene fermato un egiziano che dirà poi di essere uno scafista e dirò pure che quei due iraniani, la ragazza e il ragazzo che l’ha difesa, sono dei passeggeri.
D’altra parte basta fare una minuscola inchiesta, cioè due telefonate, una al padre della ragazza e una all’agenzia dove sono stati pagati i soldi per il viaggio il cui nome è scritto bello grosso sulla ricevuta di pagamento, per verificare che qualcuno ha pagato 14mila dollari il viaggio di Marjan e di suo figlio: 9mila per lei e 5mila per il bambino.
Niente di tutto ciò è stato fatto dagli inquirenti.
Non sembra per la verità che nessuno abbia indagato un bel nulla, è stato preso presi il verbale con le dichiarazioni dei migranti accusatori (lasciati sparire nel nulla senza occuparsi di assicurarseli disponibili per un incidente probatorio come comanderebbe la legge) con le traduzioni all’accusata fatte da un interprete che non parlava la lingua della accusata di un reati infame, il 27 Marjam è stata fermata, il 30 convalida del fermo dal Gip di Locri.
Il bambino affidato dal tribunale dei minori a una famiglia afghana in una comunità in Calabria. La madre portata a Reggio, in carcere. Dove non è mai stato portato suo figlio fino a pochi giorni fa. Un bambino di otto anni, strappato dalla madre dopo una odissea dall’Iran al porto di Roccella, non ha visto sua madre fino a febbraio. A lei sono stati notificati tutti i documenti in arabo, nonostante Teheran sta in Iran e in Iran si parla iraniano.
Viene fatta istanza di revoca o sostituzione della misura detenzione, perché almeno possa essere mandata mandata ai domiciliari con tutte le misure di sicurezza ritenute necessarie nella comunità. La presenta per lei l’avvocato Giancarlo Liberati. Istanza respinta in mezza paginetta dal gip di Locri.
Vengono anche trasmessi gli atti in procura segnalando la sostituzione di identità: come se fosse colpa di Marjan l’errore nel nome e non di chi le ha preso i dati senza nemmeno guardare il telefono dove le foto dei passaporti coi nomi c’erano. La ragazza da ottobre ad oggi non è mai stata sentita, avrebbe molte cose da dire utili agli investigatori. Saprebbe indicare i capitani, i testimoni.
Il suo difensore dice: “Ho chiesto l’interrogatorio alla pm Luisa D’Elia, siccome non mi rispondeva sono andato fisicamente lì il 27 gennaio, a chiederglielo di persona. Lei ha detto di no, che non l’avrebbe interrogata perché, mi ha detto, aveva già ha chiesto il giudizio immediato. Ma non era vero che il 27 aveva già depositato la richiesta di giudizio immediato. Anche se sull’atto c’è scritta la data del 26, la sua richiesta l’ha depositata registrata il 29”.
Ora, a parte che il giudizio immediato si chiede quando le prove a carico dell’imputato sono schiaccianti, va notato che la pm ha chiesto il giudizio immediato senza aver nemmeno sentita l’accusata e dopo che il difensore in termini di legge ha chiesto l’interrogatorio.
L’udienza è fissata per l’11 marzo nella Procura di Locri. L’accusata in carcere ha già due volte tentato di ingurgitare overdosi di psicofarmaci. Vuole vedere suo figlio, è preoccupatissima per il bambino. Il bambino, dicono sempre rigorosamente anonimi dalla comunità dove sta, chiede sempre della mamma.
Qualcuno in Procura, in questi cinque mesi, si è domandato come mai i quattro accusatori che hanno indicato la “donna scafista” e poi sono stati lasciati liberi di rendersi irreperibili, nella loro dichiarazioni non hanno menzionato l’esistenza del bambino? Non si erano accorti che insieme a lei c’era un bambino di 8 anni?
Ora leggete bene cos’è uscito l’11 gennaio su Avvenire: “È stata lei, assieme a due complici, a gestire il viaggio che lo scorso 27 ottobre ha portato 105 migranti su una barca a vela fino al porto di Roccella Jonica (…). Per lei non era la prima volta. Gli investigatori della Polizia hanno, infatti, accertato che la giovane donna aveva fatto già altri due viaggi, cambiando nome e età. Non con ruoli secondari. Non guidava le barche ma si occupava soprattutto della parte economica, intascando i soldi pagati dai migranti per il viaggio dalla Turchia e dando loro ordini a bordo. Ma questa terza volta si era portata il figlio di dieci anni, non è chiaro se voleva chiudere con questa attività illegale o se, molto più probabilmente, lo aveva portato per meglio confondersi tra gli altri migranti, una mamma in fuga da guerre e violenze come altre sulla barca. Un modo per mimetizzare i suoi affari tra i dolori e le sofferenze. Ma il trucco non le è riuscito, grazie alle indagini degli investigatori del Commissariato della Polizia di Siderno. Alcuni migranti hanno raccontato del suo ruolo di comando, con autorità e risolutezza. Ma anche di come durante i cinque giorni del viaggio tra il porto turco di Izmir e le coste calabresi, avesse più volte assunto cocaina”.
Pezzo simile su Il Giornale: “I poliziotti del commissariato di Siderno sono risaliti a lei grazie alle testimonianze dei migranti. La stessa donna infatti era stata individuata nel ruolo di scafista altre due volte, nelle quali aveva presentato documenti e identità differenti. (…) Durante i cinque giorni di viaggio dalla Turchia alla Calabria, la donna più volte avrebbe fatto uso di cocaina. Accertamenti in tal senso sono ancora in corso”.
Al giornalista che firma il pezzo di Avvenire ieri ho chiesto chi gli avesse dato queste informazioni preziose, i due viaggi precedenti, il ruolo a bordo e la cocaina.
Mi ha risposto che la notizia veniva da persone della comunità dove è il bambino e che a loro le aveva presumibilmente date il mediatore, il traduttore, l’iracheno che parla arabo e traduceva dal persiano. Presumibilmente.
(*) Tratto da L’Unità.
***
dalla pagina FB di Ilaria Cucchi – ilariacucchiofficial
Vi chiedete mai come procede la caccia del governo Meloni agli scafisti?
Lascio valutare a voi, raccontandovi un caso che penso la dica lunga sulla nostra catena di comando e sulle sue idee. È la storia di Marjan Jamali.
Marjan oggi è in carcere: per il governo forse si tratta di una vittoria, ma la sua storia racconta un fallimento totale.
Marjan è iraniana. Partita con il figlio di otto anni per raggiungere l’Europa, nel corso di un viaggio in condizioni disumane è stata vittima di violenze sessuali. Marjan e il figlio sono riusciti ad arrivare. Un miracolo. È finito il tempo della disumanità, avrà pensato toccando la nostra costa alla fine di ottobre.
Invece i suoi guai non erano ancora finiti.
Marjan è stata accusata di essere una scafista. Ma lei non è una trafficante. Lei ha pagato, e tanti soldi, per rincorrere una speranza. Dopo averla raggiunta, è stata presa e sbattuta, mesi e mesi, in una cella. Senza suo figlio. Tutto perché le indagini sul conto di Marjan, le nostre istituzioni non le hanno mai fatte partire.
Si è deciso che doveva essere rinchiusa in gabbia, alcuni giornali hanno pensato che fosse addirittura il caso di parlare di quote rosa tra gli scafisti. Tutto il peggio che sappiamo offrire di questi tempi, lei lo ha passato.
In questi mesi, il governo ha rincorso soluzioni sbagliate. Ha propagato altra violenza contro i migranti. Molti li ha segregati, proprio come Marjan, dove la loro voce non poteva più essere ascoltata.
Tutto questo racconta molto di noi, dell’Italia, di un clima di odio che si è fatto irrespirabile. E inaccettabile.
| Grazie a @domanieditoriale e @unita_quotidiano per avere fatto emergere la storia
Un solo commento: ci sarà pure un giudice a Berlino?