Il genocidio e la pulizia etnica continuano…
…ma la Corte internazionale di Giustizia non lo sa.
articoli e video e poesie di Alon Altaras, Amira Haas, Gideon Levy, Federico De Renzi, Giacomo Gabellini, Girolamo De Michele, Pietro Barabino, BDS, Rete universitaria per la Palestina, Moni Ovadia, Gianluca Solera, Alberto Negri, Patrick Lawrence, Eric Salerno, Giovanni Punzo, Primo Levi, Eliana Riva, Francesco Masala
Scrive Alon Altaras (su Il Fatto Quotidiano, il 30 dicembre 2023)
…Un ulteriore fatto – scioccante e clamoroso – è uscito in queste settimane: la testimonianza filmata e registrata nel 2019 in cui davanti a una commissione della Knesset (il parlamento) il premier israeliano descrive fase per fase l’attacco che Hamas ha poi compiuto il 7 ottobre 2023. Il premier “che non sapeva nulla” afferma: “il piano operativo che Hamas prepara è un attacco da diversi lati, prima dall’aria con migliaia di missili lanciati su Israele, poi dal mare con attacco di commando di truppe speciali di Hamas, poi dall’aria con deltaplani, usando sottoterra decine dei tunnel che sbucano sul territorio israeliano e portano unità speciali allenate per questa missione, e si tratta di migliaia, per uccidere gli abitanti dei kibbutz e delle città vicine al confine e rapire ostaggi e portarli dentro la Striscia”.
Chi ha visto i filmati dell’attacco di Hamas si può rendere conto che il premier israeliano ha saputo descrivere l’assalto senza precedenti di Sinwar Yahya e dei capi di Hamas, con 4 anni di anticipo…
Se l’esercito israeliano invade Rafah, cosa ne sarà dei più di 1,5 milioni di palestinesi che vi si sono rifugiati? – Amira Haas
Un’invasione israeliana di Rafah porterà a un esodo di massa di circa un milione di palestinesi in preda al panico. L’IDF pianifica di conciliarlo con l’ordinanza della CIG secondo cui Israele deve prendere ogni misura per evitare atti di genocidio.
Dato che Yahya Sinwar, i suoi stretti collaboratori e i miliziani di Hamas non sono mai stati trovati, prima a Gaza City e poi neppure a Khan Younis, l’esercito israeliano sta prendendo in considerazione di estendere la sua campagna di terra nella città meridionale di Rafah a Gaza. L’esercito sta facendo questo perché ritiene che Sinwar e i suoi aiutanti si nascondano nei tunnel sotto questa zona del sud della Striscia di Gaza, presumibilmente insieme agli ostaggi israeliani che sono ancora in vita. La stragrande maggioranza degli abitanti della Striscia di Gaza, 1,4 milioni di persone, è concentrata a Rafah. Decine di migliaia stanno ancora fuggendo nella cittadina da Khan Younis, dove i combattimenti continuano. Il pensiero che Israele invaderà Rafah e che vi avranno luogo combattimenti in mezzo ai civili terrorizza gli abitanti della città e le persone che vi si trovano come sfollati interni. Il terrore che provano è acuito dalla conclusione che nessuno possa impedire a Israele di mettere in atto le sue intenzioni, neppure la sentenza della CIG che ordina a Israele di prendere ogni misura per evitare azioni di genocidio. I corrispondenti militari israeliani riportano e ipotizzano che l’esercito intenda ordinare agli abitanti di Rafah di spostarsi in una zona sicura. Da quando la guerra è iniziata l’esercito ha sventolato questo ordine di evacuazione come una prova che sta agendo per prevenire danni a “civili non coinvolti”. Tuttavia questa zona sicura, che è stata ed è ancora bombardata da Israele, si sta progressivamente stringendo. In realtà l’unica zona sicura che rimane e che ora l’IDF [l’esercito israeliano, ndt.] sta indicando alla massa di persone a Rafah è Al-Mawasi, un’area costiera del sud di Gaza di circa 16 km2. Non è ancora chiaro con quali formulazioni a parole l’IDF e i suoi esperti giuridici intendano conciliare il fatto di ammassare così tanti civili con le indicazioni impartite dalla CIG. “La zona umanitaria indicata dall’esercito è più o meno delle dimensioni dell’aeroporto internazionale Ben-Gurion (circa 16,3 km2),” hanno concluso i giornalisti di Haaretz Yarden Michaeli e Avi Scharf nel loro articolo all’inizio di questa settimana. Il reportage, intitolato “I gazawi scappano dalle loro case. Non hanno nessun posto a cui tornare,” ha svelato le estese distruzioni nella Striscia di Gaza riprese da immagini satellitari. Il paragone con l’aeroporto internazionale Ben-Gurion ci spinge a ipotizzare una densità al di là dell’immaginabile, ma i commentatori della televisione israeliana non vanno molto più in là dell’approfondita opinione secondo cui l’invasione di terra a Rafah in effetti “non sarà poi così semplice”. Anche se difficile, dobbiamo immaginare ciò che attende i palestinesi a Rafah se il piano dell’esercito verrà messo in pratica. Lo dobbiamo fare non tanto per considerazioni di carattere umanitario o morale, che dopo il 7 ottobre non sono così importanti per la maggioranza dell’opinione pubblica ebrea israeliana, ma a causa delle complicazioni di carattere militare, umanitario e, alla fine, giuridico e politico che sicuramente sono prevedibili se continuiamo su quella strada.
La compressione
Anche se “solo” circa un milione di palestinesi scapperanno per la terza o quarta volta ad Al-Mawasi, un’area che è già piena di gazawi sfollati, la densità sarà all’incirca di 62.500 persone per km2”. Ciò avverrà in una zona aperta senza grandi edifici per ospitare gli sfollati, dove non ci sono acqua corrente, privacy, mezzi di sostentamento, ospedali o ambulatori medici, pannelli solari né la possibilità di caricare i telefonini e tutto il resto, mentre le organizzazioni umanitarie dovranno attraversare o passare nei pressi delle zone di combattimento per distribuire quel poco di cibo che entra nella Striscia di Gaza. Pare che l’unica condizione in cui questa ristretta area potrebbe accogliere tutti quanti sarebbe se stessero in piedi o in ginocchio. Forse sarà necessario formare commissioni speciali che stabiliranno accordi per dormire a turno: qualche migliaio si sdraierà mentre gli altri continueranno a stare svegli in piedi. Sopra il ronzio dei droni e sotto i pianti dei bambini nati durante la guerra e le cui madri non avranno latte o non ne avranno abbastanza, questa sarà la snervante colonna sonora.dell’IDF e le battaglie a Gaza City e Khan Younis, è chiaro che l’operazione di terra a Rafah, se effettivamente ci sarà, durerà molte settimane. Israele crede che la CIG considererà la compressione di centinaia di migliaia o un milione di palestinesi in un piccolo fazzoletto di terra come una “misura” adeguata per evitare un genocidio?
La marcia per fuggire
Prima della guerra nel distretto di Rafah vivevano circa 270.000 palestinesi. Il milione e mezzo che attualmente vi si trova patisce fame e malnutrizione, sete, freddo, malattie ed epidemie, pidocchi nei capelli ed eruzioni cutanee; soffrono di esaurimento fisico e mentale e mancanza cronica di sonno.Si ammassano in scuole, ospedali e moschee, in quartieri di tende che sono spuntati dentro e attorno a Rafah, in alloggi che ospitano decine di famiglie di sfollati. Decine di migliaia di loro sono feriti, alcuni con arti amputati per gli attacchi dell’esercito o le operazioni chirurgiche che ne sono conseguite. Hanno tutti parenti o amici, bambini, neonati e genitori anziani, che sono stati uccisi negli ultimi 4 mesi.
Le case della maggior parte di loro sono state distrutte o gravemente danneggiate. Tutto ciò che possedevano è andato perso. Il loro denaro è stato speso a causa del prezzo esorbitante del cibo. Molti sono sfuggiti alla morte solo per caso e hanno assistito a scene spaventose di cadaveri. Non hanno ancora pianto i morti perché il trauma continua. Insieme alle dimostrazioni di appoggio e solidarietà ci sono state anche discussioni e scontri. Alcuni hanno perso la memoria e la salute mentale per tutto quello che hanno subito. Come è stato fatto in altre zone della Striscia, per mantenere l’effetto sorpresa, l’IDF diffonderà un avvertimento circa due ore prima di un’invasione di terra a Rafah. Quel giorno ciò lascerà un lasso di tempo di qualche ora per evacuare la città. Immaginate questa carovana di sfollati e il panico di massa delle persone che scappano verso Al-Mawasi a ovest. Pensate agli anziani, ai malati, ai disabili e ai feriti che saranno “fortunati” ad essere trasportati su carri trainati da asini o da carretti improvvisati e in macchine che viaggiano con olio da cucina. Tutti gli altri, malati o sani, dovranno andarsene a piedi. Probabilmente dovranno lasciarsi dietro il poco che sono riusciti a raccogliere e portare con sé nei precedenti spostamenti, come coperte e teli di plastica come riparo, vestiti pesanti, un po’ di cibo e oggetti indispensabili come piccoli fornelli.
Questa fuga forzata probabilmente attraverserà le rovine di alcuni edifici bombardati da Israele non molto tempo fa, o i crateri creati sulla strada dagli attacchi. Tutto il convoglio allora si fermerà ancora finché non avrà trovato una deviazione.Alcuni inciamperanno, un carretto rimarrà impantanato. E tutti,affamati e assetati, terrorizzati dall’imminente attacco o dal bombardamento incombente dei carrarmati, continuerà ad andare avanti. Bambini piangeranno e verranno persi. Persone si sentiranno male. Squadre mediche lotteranno per raggiungere chiunque abbia bisogno di cure. Solo 4 km separano Rafah da Al-Mawasi, ma ci vorranno ore per arrivarci. Le persone in marcia verranno tagliate fuori da ogni possibilità di comunicare, anche solo a causa della quantità di gente in marcia e del sovraffollamento. Nella zona dovranno lottare per trovare lo spazio dove sistemare una tenda. Dovranno lottare con chi riesce a stare più vicino possibile a un edificio o a un pozzo per l’acqua. Sveniranno per la sete e la fame. Questa immagine si ripeterà svariate volte nei prossimi giorni: una marcia di palestinesi affamati e terrorizzati inizia a scappare nel panico ogni volta che l’IDF annuncia un’altra zona i cui abitanti dovrebbero evacuare, mentre carrarmati e truppe di fanteria avanzano verso di loro. Il bombardamento e le truppe di terra saranno più vicini agli ospedali che stanno ancora funzionando. Carrarmati li accerchieranno e a tutti i pazienti e al personale medico verrà chiesto di andarsene nell’affollata zona di Al-Mawasi.
L’operazione di terra
È difficile sapere quanti di loro decideranno di non andarsene. Come abbiamo imparato da quello che è successo nei distretti settentrionali di Gaza e di Khan Younis, un numero significativo di abitanti preferisce rimanere in una zona che è destinata a un’operazione di terra. Tra loro ci saranno decine di migliaia di sfollati, gazawi malati e gravemente feriti che sono stati ricoverati negli ospedali, donne incinte e altri che decideranno di rimanere nelle proprie case e in quelle di parenti o nelle scuole trasformate in rifugi. Le poche informazioni che avranno dalle zone di concentrazione di Al-Mawasi saranno sufficienti a scoraggiarli dal raggiungerle. Soldati e comandanti dell’IDF, tuttavia, interpretano l’ordine di evacuazione in modo diverso: chiunque rimanga nella zona destinata all’invasione di terranon è considerato un civile innocente, non è considerato “non coinvolto”. Chiunque rimanga nella propria casa ed esca per prendere l’acqua da una struttura della città che stia ancora funzionando o da un pozzo privato, personale medico chiamato per curare un paziente, una donna incinta che cammina verso un ospedale vicino per partorire, tutti, come abbiamo visto durante la guerra e le scorse campagne militari, sono considerati criminali agli occhi dei soldati. Sparare e ucciderli segue le regole di ingaggio dell’IDF. Secondo l’esercito questi attacchi avvengono rispettando le leggi internazionali perché tali individui sono stati avvertiti che dovevano andarsene. Persino quando i soldati fanno irruzione in case durante i combattimenti i gazawi, per lo più uomini, rischiano la morte colpiti da armi da fuoco. Un soldato che spara a qualcuno perché si sente minacciato o segue gli ordini, non importa. È successo a Gaza City e può avvenire a Rafah. Così come le squadre di soccorso non sono autorizzate o non sono in grado di raggiungere il nord della Striscia di Gaza per distribuire cibo, non potranno distribuirlo nelle zone dei combattimenti a Rafah. Il poco cibo che gli abitanti sono riusciti a conservare gradualmente finirà. Chi rimane nella propria casa sarà obbligato a scegliere il minore tra due mali:o esce e rischia di essere colpito dal fuoco israeliano o muore di fame in casa. La maggior parte già soffre per la grave carenza nutrizionale. In molte famiglie gli adulti rinunciano al cibo in modo che i figli possano essere nutriti. C’è il concreto pericolo che molti muoiano di fame mentre sono a casa propria quando fuori i combattimenti infuriano.
I bombardamenti
Da quando è iniziata la guerra l’esercito ha bombardato edifici residenziali, zone aperte e auto di passaggio in ogni luogo che aveva definito come “sicuro” (ai cui abitanti non era stato chiesto di andarsene). Non importa se gli attacchi hanno preso di mira strutture di Hamas, i miliziani dell’organizzazione o altri membri che sono rimasti con le loro famiglie o che erano usciti dai nascondigli per andarli a trovare, i civili sono quasi sempre uccisi.I bombardamenti non sono ancora neppure finiti a Rafah. Giovedì notte due case sono state bombardate nel quartiere occidentale di Rafah, Tel al-Sultan a Rafah. Secondo fonti palestinesi 14 persone, tra cui 5 minori, sono state uccise.
Le fonti hanno anche affermato che il 7 febbraio una madre e la figlia sono state uccise in un attacco israeliano contro una casa nel nord di Rafah e che il giorno prima un giornalista è stato ucciso insieme a madre e sorella nella parte occidentale di Rafah. Sempre il 6 febbraio, secondo le fonti, sei poliziotti palestinesi sono stati uccisi in un attacco israeliano mentre stavano proteggendo un camion di aiuti nell’est di Rafah.Questi attacchi segnalano che i calcoli sui cosiddetti danni collaterali approvati dagli esperti giuridici dell’IDF e dall’ufficio del procuratore generale sono estremamente permissivi. Il numero di palestinesi non coinvolti che è “permesso” uccidere per colpire un bersaglio dell’esercito è più alto che in qualunque altra guerra. La gente di Rafah teme che l’IDF applicherà questi criteri permissivi anche ad Al-Mawasi e attaccherà anche là se nella zona c’è un obiettivo tra le centinaia di migliaia che vi si rifugeranno. È così che un riparo annunciato come sicuro diventerà una trappola mortale per centinaia di migliaia di persone.
(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)
Se questo è un uomo- Primo Levi
Voi che vivete sicuri
nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
che lavora nel fango
che non conosce pace
che lotta per mezzo pane
che muore per un si o per un no.
Considerate se questa è una donna,
senza capelli e senza nome
senza più forza di ricordare
vuoti gli occhi e freddo il grembo
come una rana d’inverno.
Meditate che questo è stato:
vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
stando in casa andando per via,
coricandovi, alzandovi.
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
la malattia vi impedisca,
i vostri nati torcano il viso da voi.
Gideon Levy: non entrate a Rafah
L’opinione pubblica israeliana deve svegliarsi, e con essa l’amministrazione Biden. Questa emergenza è più grave di qualsiasi altra durante questa guerra
L’unica cosa che possiamo fare ora è chiedere, implorare, piangere: non entrate a Rafah. Un raid israeliano su Rafah costituirebbe un attacco al campo profughi più grande del mondo. Trascinerà l’esercito israeliano a commettere crimini di guerra di una gravità che nemmeno lui stesso ha ancora raggiunto. In questo momento è impossibile invadere Rafah senza commettere crimini di guerra. Se le Forze di Difesa Israeliane (IDF) invadessero Rafah, la città diventerà un’impresa di pompe funebri.
Attualmente a Rafah si contano circa 1,4 milioni di sfollati, alcuni dei quali si stanno rifugiando sotto sacchetti di plastica trasformati in tende. L’amministrazione americana, presunta custode della legge e della coscienza israeliana, ha condizionato l’invasione di Rafah al piano israeliano di evacuare la città. Esiste e non può esistere un piano del genere, anche se Israele riuscisse a inventare qualcosa.
Nella devastata Striscia di Gaza non c’è più nessun posto dove andare.È impossibile trasportare un milione di persone totalmente indifese, alcune delle quali già sfollate due o tre volte, da un luogo “sicuro” a un altro, luoghi che diventano sempre campi di sterminio. È impossibile trasportare milioni di persone come bestiame. Nemmeno il bestiame può essere trasportato con tanta crudeltà.
Inoltre, non c’è nessun posto dove evacuare questi milioni di persone. Nella devastata Striscia di Gaza non c’è più nessun posto dove andare. Se i rifugiati di Rafah verranno trasferiti ad Al-Mawasi, come proporrà l’IDF nel suo piano umanitario, Al-Mawasi diventerà teatro di un disastro umanitario come non abbiamo mai visto nella Striscia.
Yarden Michaeli e Avi Scharf riferiscono che l’intera popolazione della Striscia di Gaza, 2,3 milioni di persone, dovrebbe essere evacuata in uno spazio di 16 chilometri quadrati, grande all’incirca quanto l’aeroporto internazionale Ben-Gurion. Tutta Gaza nello spazio aeroportuale, immaginatevi.
Amira Hass ha calcolato che se un milione di persone si recasse ad Al-Mawasi, la densità abitativa sarebbe di 62.500 persone per chilometro quadrato. Ad Al-Mawasi non c’è niente: niente infrastrutture, niente acqua, niente elettricità, niente alloggi. Solo sabbia e ancora sabbia, per assorbire il sangue, i liquami e le epidemie. Pensare a questo non solo fa gelare il sangue, ma mostra anche il livello di disumanizzazione che Israele ha raggiunto nella sua pianificazione.
Il sangue verrà versato ad Al-Mawasi, come è stato recentemente versato a Rafah, il penultimo rifugio sicuro offerto da Israele. Il servizio di sicurezza dello Shin Bet troverà un funzionario affiliato ad Hamas che dovrà essere eliminato lanciando una bomba da una tonnellata sulla nuova tendopoli. Moriranno venti passanti, la maggior parte dei quali bambini. I corrispondenti militari ci racconteranno, con occhi lucidi, del meraviglioso lavoro che l’IDF sta facendo per liquidare l’alto comando di Hamas. La vittoria totale è vicina; Ancora una volta gli israeliani saranno soddisfatti.
L’opinione pubblica israeliana deve svegliarsi, e con essa l’amministrazione Biden. Questa emergenza è più grave di qualsiasi altra durante questa guerra. Gli americani devono bloccare l’invasione di Rafah con i fatti, non con le parole. Solo loro possono fermare Israele.
Gli americani devono bloccare l’invasione di Rafah. Solo loro possono fermare Israele.
Il settore cosciente della comunità israeliana cerca fonti di informazione diverse dalle emittenti locali, che trasmettono “caramelle per i soldati” e che si autodefiniscono canali di notizie. Guardate le immagini di Rafah su qualsiasi canale straniero – non vedrete nulla in Israele – e capirete perché non può essere evacuata. Immaginate Al-Mawasi con i due milioni di sfollati e capirete come proliferano i crimini di guerra.
Sabato è stato ritrovato il corpo di Hind Hamada, una bimba di sei anni. Questa bambina era diventata famosa in tutto il mondo dopo i momenti di terrore che lei e la sua famiglia hanno vissuto il 29 gennaio davanti a un carro armato israeliano – momenti che sono stati registrati in una telefonata con la Mezzaluna Rossa palestinese, fino alla cessazione degli attacchi. Tutti gli otto membri della sua famiglia sono morti.
Hind è stata trovata morta nell’auto bruciata di sua zia in una stazione di servizio a Khan Yunis. È stata ferita e ricoperta dai sette cadaveri dei suoi parenti; è morta dissanguata prima di poter scendere dal veicolo. Hind e la sua famiglia avevano risposto all’appello “umanitario” di Israele di evacuare. Chi vuole altre migliaia di Hind, invada Rafah, la cui popolazione sarà evacuata ad Al-Mawasi.
Fuga dall’ospedale Nasser assediato dai cecchini e dai carri armati
di Eliana Riva 14 Feb 2024
Pagine Esteri, 14 febbraio 2024. Centinaia di persone provano a uscire dall’ospedale Nasser assediato, circondato dai cecchini, privato dell’elettricità, dei rifornimenti medici, del cibo e dell’acqua. Il più grande ospedale del sud di Gaza, a Khan Yunis, diventato rifugio per centinaia di palestinesi sfollati, sta per essere invaso dai militari israeliani che nelle ultime settimane hanno attaccato in diversi modi la struttura pur di costringere medici, pazienti e famiglie in fuga ad abbandonarla per andare chissà dove.
Sono stati lanciati volantini, poi si sono posizionati i cecchini che per giorni hanno sparato, senza far differenza tra donne, uomini e bambini, a chi cercava di entrare nell’ospedale o di uscirne. Sono numerosi i video diffusi dai giornalisti e dalle persone che si rifugiano nel Nasser o nelle scuole proprio di fronte, che mostrano le persone colpite e lasciate a terra. Una madre con suo figlio, lei morta e il bambino gravemente ferito, un ragazzino di cui non sono riusciti per ore a recuperare il cadavere, a causa dei fucili di precisione sistemati dai soldati sui tetti delle case sgomberate nei dintorni. Mentre il corpo era ancora sull’asfalto, proprio all’ingresso della struttura sanitaria, un piccolo drone è stato mandato dai soldati per ordinare a tutti con un messaggio vocale di andare via. I cecchini, denunciano i medici, hanno iniziato a colpire attraverso le finestre dell’ospedale le persone che si trovano al suo interno. Almeno due bambini sono stati così feriti, e un infermiere, mentre si trovava in sala operatoria…
GAZA. Oms: “L’ospedale Nasser ora è fuori servizio”. Esercito israeliano ha arrestato altri medici
a cura di Eliana Riva
Domenica 18 Febbraio ore 11
L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha comunicato che l’ospedale Nasser, il secondo più grande della Striscia di Gaza, è “fuori servizio”. Il Ministero della Sanità palestinese ha dichiarato che l’esercito israeliano ha trasformato l’ospedale Nasser in un avamposto militare e lo ha messo fuori servizio: “Le forze israeliane hanno trattenuto il personale medico per lunghe ore nella sala maternità, hanno legato loro le mani, li hanno aggrediti e spogliati dei loro vestiti. Le forze israeliane hanno arrestato 70 operatori sanitari all’ospedale Nasser. All’ospedale Nasser rimangono solo 25 membri del personale medico, incapaci di gestire i casi che richiedono cure critiche. L’esercito israeliano ha arrestato decine di pazienti immobili, li ha caricati su barelle militari all’interno di camion e li ha trasportati in un luogo sconosciuto, mettendo in pericolo le loro vite. La carenza di ossigeno ha portato finora alla morte di 7 pazienti, e temiamo la morte di decine di casi critici. Tre donne, tra cui un medico, hanno partorito al Nasser Medical Complex in condizioni terribili e pericolose. Le acque reflue allagano i reparti di emergenza nell’edificio chirurgico del Nasser Medical Complex e gli israeliani si rifiutano di coordinarsi per ripararlo”…
IL DIRITTO DI UN CANTANTE DI DIRE STOP AL GENOCIDIO – GIROLAMO DE MICHELE.
Scrive Brecht, alla vigilia della seconda guerra mondiale: Quali tempi sono questi, quando discorrere d’alberi è quasi un delitto, perché su troppe stragi comporta silenzio!
Il tempo dei pensieri indulgenti verso gli anni bui, quello in cui all’umano un aiuto è l’umano, non è venuto: così è toccato a un italiano del sud del Mediterraneo, Mahmood, ricordarci, con le parole di Lucio Dalla, che la storia umana è storia di violenze contro i poveri scaraventati in mare e di guerre dei poveri per conquistare uno scherzo di terra; che chi comanda non è disposto a fare distinzioni poetiche; e che il pensiero dà fastidio, perché come il mare non lo puoi recintare – è per questo che stanno bruciando uccidendo umiliando piegando il mare. E tocca ad altri due italiani del sud del Mediterraneo, Darghen e Ghali, ricordarci che per un pezzo di terra o una linea di confine stanno bombardando gli ospedali, che in questo momento ci sono bambinз sotto le bombe senza acqua, senza cibo. Italianз verз, davvero: che non si limitano a galleggiare in superficie.
Tanto è bastato perché un tale che vanta amicizie di famiglia con Ignazio La Russa sin dai tempi in cui l’attuale presidente del Senato non aveva problemi a dichiararsi fascista – uno che ha il coraggio di affermare che “la destra politica italiana che mai ha mancato di schierarsi con Israele in politica estera è in prima fila nella condanna dell’Olocausto e delle orrende leggi razziali, la più grande tragedia della Shoah”, abbia tuonato contro questi “messaggi che creano antisemitismo”, parole che “portano divisioni che causano odio”. Sovrapponendo, non per la prima volta, il proprio parere alla carica di presidente della Comunità Ebraica di Milano, Walker Meghnagi ha dettato la linea, sostenendo di parlare a nome di “gran parte del mondo culturale”: quello di Sanremo è “uno spettacolo che dovrebbe unire gli italiani” che non può “affrontare temi che non allietano le famiglie”, perché “in un momento di guerra si cerca moderazione”. Che parlino di alberi, questi cantanti!
A Meghnagi si è aggiunto l’ambasciatore israeliano Alon Bar, parlando di diffusione “di odio e provocazioni in modo superficiale e irresponsabile” dal palco di Sanremo. Meghnagi e Bar hanno condito la sua intemerata con un elenco delle atrocità compiute da Hamas e Jihad il 7 ottobre, col consueto sottinteso: che le brutali violenze del 7 ottobre devono non solo antecedere ogni parola sulle atrocità in corso a Gaza (quando in anticipo sul tuo stupore verranno a chiederti di condannare Hamas…), ma di fatto imporre il silenzio su queste stragi: chi esercita il potere, anche in una microcomunità, non è disposto a fare distinzioni poetiche verso quel pensiero libero che dà fastidio – come volevasi dimostrare.
Ghali e lз altrз cantantз non hanno bisogno di essere difesi: la loro lingua batte perché la mente vuole, e Ghali lo ha dimostrato rispondendo senza esitazioni. Ma è giusto sostenerlз in questo linciaggio mediatico, sottolineando aspetti indegni, quando non fascisti, dei linciatorз.
In primo luogo, che la presunzione di colpevolezza verso chiunque non nomini e dettagli l’orrore del 7 ottobre sottende in modo subdolo una duplice equazione: che chiunque non sia al fianco del governo di Israele è nemico degli ebrei, dunque antisemita; e che ogni palestinesə (compresз quellз nella West Bank) è responsabile, dunque merita la punizione che viene inflitta a un intero popolo.
A costo di ripetermi, se costretto a premettere qualcosa, premetto che lз palestinesз non sono terroristi, e lз israelianз non sono coloni: sono due popoli, al cui interno ci sono molteplici differenze che non si lasciano rinchiudere in un’etichetta. E identificare un intero popolo con una sua parte, con una fazione, con uno stile di vita, con una posizione politica, è una pratica fascista. E che, per chi ha un’età e un vissuto cui i nomi di Tell-al Zaatar e Sabra e Shatila significano qualcosa, è il massimo dell’orrore vedere sopravvissutз di quei massacri agire come fecero lз massacratorз dei loro avi. Tal quale lo è vedere discendenti dellз scampatз ai lager e ai pogrom europei costruire lager, compiere pogrom nei villaggi, colpire mercati e abitazioni civili con lo stesso disprezzo per l’Altro dei carnefici europei dei loro avi.
Quanto alla pornografia morale che si esprime nelle descrizioni con dovizia di particolari gore e splatter del 7 ottobre, viene in prima battuta da chiedersi in cosa l’orrore di un padre che ricompone il cadavere del figlio sgozzato in un kibbuz è diverso dall’orrore di un padre che raccoglie e porta via in un sacchetto dei rifiuti le sparse membra del figlio dilaniato da un missile in un campo profughi. Quali sono i parametri di valutazione, le quantificazioni numeriche fra l’uno e l’altro orrore? Ma soprattutto: cosa c’è nella coscienza morale di chi è dispostə a intraprendere questi calcoli, a trarne le somme e istituire giudizi di merito fra il peggio e il meno peggio?
Quale differenza c’è fra chi pianifica e attua una strage indiscriminata come quella del 7 ottobre, e chi programma con un algoritmo un sistema di intelligenza artificiale (ma di programmazione umana) denominato Habsora (“The Gospel”) in uso nell’esercito israeliano che può generare obiettivi quasi automaticamente, ponendo in essere una “fabbrica di omicidi di massa”? Che l’IDF usi questo programma lo ha rivelato un’inchiesta realizzata da due testate israeliane, +972 Magazine e Local Call, ripresa dal Guardian (e, in Italia, da Internazionale e il manifesto). Uno dei militari dell’IDF intervistato ha dichiarato:
Niente succede per caso. Quando una bimba di tre anni viene uccisa in una casa a Gaza, è perché qualcuno nell’esercito ha deciso che la sua morte non è un dramma – che è un prezzo accettabile da pagare per poter colpire un obiettivo. Non siamo Hamas. Non lanciamo razzi a caso. Tutto è intenzionale. Sappiamo esattamente quanti danni collaterali ci sono in ogni casa [Nothing happens by accident. When a 3-year-old girl is killed in a home in Gaza, it’s because someone in the army decided it wasn’t a big deal for her to be killed – that it was a price worth paying in order to hit [another] target. We are not Hamas. These are not random rockets. Everything is intentional. We know exactly how much collateral damage there is in every home]
Elencare nel dettaglio i particolari dello scannatoio è qualcosa che concerne la responsabilità morale di chi fa informazione, così come del narratorə. Ne La Storia di Elsa Morante a due donne, la sedicenne Mariulina e sua madre, i nazisti fanno qualcosa che sarebbe potuto accadere loro il 7 ottobre in un kibbuz; nondimeno Morante, che pure fu accusata di suscitare facili commozioni, si guarda bene dal fornire dettagli al lettore, lasciando alla sua maestria di scrittura il far comprendere ciò che non viene detto: è la differenza fra arte narrativa e pornografia morale. Ma c’è un altro aspetto di questa perversa arte del dettaglio, messo in luce dallo storico Enzo Traverso: queste descrizioni contengono il sottinteso che “noi” certe cose non le facciamo, che le fanno “quellз altrз” per quello che sono; e siccome “noi” siamo occidentali, “loro” sono orientali, e tutto ciò che l’occhio coloniale occidentale designa come tratto orientale (compresi l’essere, oltre che barbaro e selvaggio, arabo e musulmano) viene a costituire quella visione dell’altro dall’occidente che Edward Said definiva “orientalismo”.
E invece “certe cose” le facciamo, e le abbiamo fatte, anche “noi” occidentali civilizzatз e cristianз. Le fecero le milizie paramilitari serbe (cristiano-ortodosse) in Criozia, quelle croate (cattoliche) nella Kraijna, ed ambedue contro lз musulmanз e rom di Bosnia: ma le fecero a telecamere spente, perché non avevano necessità di raggiungere l’opinione pubblica globale. “Quelle cose” le fanno le guerre, e al loro interno gli esseri umani in quanto tali; è una delle differenze fra specie umana e altre specie viventi, ed è quello che l’alieno chiede al terrestre nella canzone di Ghali:
Ma, come fate a dire che qui è tutto normale / Per tracciare un confine
Con linee immaginarie bombardate un ospedale / Per un pezzo di terra o per un pezzo di pane.
Colpisce la coda di paglia di chi ha immediatamente identificato nell’aviazione israeliana l’autore delle bombe sugli ospedali, in una canzone (peraltro scritta prima del 7 ottobre) dove non viene nominato il luogo; e colpisce, al contrario, la puntualità della denuncia del rapper, che risuona nei giorni in cui un’inchiesta del New York Times (ripresa da Internazionale) dimostra che l’esercito israeliano sta demolendo sistematicamente interi quartieri che non sono obiettivi militari (compresi acquedotti e sistemi fognari), rendendo di fatto impossibile il ritorno dei profughi, in evidente esecuzione di un disegno di pulizia etnica.
È genocidio? La sentenza giuridica la lascio agli organi di giustizia internazionale, che hanno comunque deliberato per l’ammissibilità dell’accusa. Sul piano morale e politico, che è altra cosa, io dico sì: ma soprattutto, dico che è legittimo pensarlo, e dirlo.
Lo può dire un cantante a un festival di musica leggera? C’è qualcosa di patetico nel negarlo, perché ritornano in mente i tempi in cui Battisti e Mogol fondarono l’etichetta “Acqua Azzurra” per contrapporre la musica disimpegnata e sentimentale all’ondata di impegno politico che stava egemonizzando i testi e le musiche di cantanti e gruppi. Ma ancora più indietro negli anni, c’era un ebreo comunista berlinese, Walter Benjamin, che propose in un congresso internazionale di scrittori antifascisti (erano tempi in cui gli intellettuali facevano cose del genere, invece di lamentarsi dello spoil system attuato dalla controparte politica) la politicizzazione dell’estetica: l’uso dell’arte per risvegliare le coscienze. Anni dopo Hannah Arendt avrebbe riproposto lo stesso tema, e cioè la necessità di mantenere viva la capacità di distinguere il bene dal male (la facoltà di giudizio) in un’epoca nella quale la banalizzazione della quotidianità e il prevalere della ragione strumentale e utilitaristica causano l’assopimento di questa capacità, sino a generare quella banalità del male che consiste nel non chiedersi se sia giusto o meno (al limite: ci si chiede se sia utile, o bello) un determinato comportamento.
È quella banalizzazione cui ci stiamo abituando nel considerare le guerre in corso con spirito da ultras, o come male necessario ma utile; senza peraltro mettere in discussione, a fronte dell’immane macello al limite del genocidio attuato, la pochezza dei risultati ottenuti dal governo israeliano.
Ghali, al contrario dei suoi linciatori, una coscienza civile e morale ce l’ha: lo ha dimostrato lo scorso anno, donando la lancia Bayna (stesso nome della canzone in arabo cantata a Sanremo il 9 febbraio) a Mediterranea.
Ghali ha tutto il diritto di dire quel che pensa – così come ha il diritto di triggerare lз razzistз cantando “Italiano vero” –, soprattutto se le sue parole sono queste:
Continua questa politica del terrore, e non va bene. La gente ha sempre più paura di dire “stop alla guerra” e “stop al genocidio”. Le persone sentono che perdono qualcosa se dicono “viva la pace”, non deve succedere questo. Ci sono i bambini di mezzo: io da bambino sognavo e ieri sono arrivato quarto a Sanremo. Quei bambini stanno morendo, chissà quante star, quanti dottori, quanti geni ci sono tra loro.
Ascoltandole, mi sono ricordato di altre parole, che io stesso tradussi 25 anni fa; sono andato a ricercarle, eccole:
Un giorno ho pensato – un giorno memorabile, il giorno in cui mi assegnarono il premio Nobel: chissà quanti geni che avrebbero potuto salvare il mondo; geni che avrebbero potuto trovare la cura dell’AIDS, che avrebbero potuto scrivere un poema contro la fame, l’umiliazione; qualcuno che avrebbe forse trovato la cura per il cancro. Chissà quanti bambini futuri geni, redentori della società, sono stati uccisi all’età di dieci anni, o di tre.
Era il 5 settembre 1989, a pronunciare queste frasi era Elie Wiesel (nella presentazione del suo romanzo L’oublié, a Parigi). Non poteva sapere che l’esercito israeliano avrebbe, un giorno, programmato un algoritmo per consentire a un razzo di uccidere una bambina di tre anni senza alcuno scrupolo morale.
Il collasso del sistema sanitario di Gaza come genocidio – Pietro Barabino
Alle voci che si alzano a livello internazionale per chiedere il cessate il fuoco e la fine dell’offensiva militare israeliana nella Striscia di Gaza si unisce un nutrito team di medici e scienziati che hanno redatto un paper intitolato “Sul dovere internazionale di proteggere la popolazione di Gaza, come il collasso del sistema sanitario indica l’intenzione di genocidio”.
Il dettagliato documento è stato redatto a fine gennaio da una ventina di medici e ricercatori di calibro internazionale ed è attualmente in revisione al Journal of Public Health and Emergency, autorevole rivista scientifica specializzata in analisi su sanità pubblica ed emergenze sanitarie.
Nel testo gli autori affrontano la questione da un punto di vista strettamente sanitario, utilizzando il termine “genocidio” perché ritengono il deterioramento del sistema sanitario a Gaza non sia un “effetto collaterale”, ma un atto deliberato per infliggere danni massicci alla popolazione. Un attacco sistematico e intenzionale contro un gruppo di persone, e nel contesto specifico, attraverso la negazione dei diritti alla salute e alla sopravvivenza. “Attacchi militari e bombardamenti degli ospedali, assedio e occupazione delle strutture sanitarie, privazione di carburante e forniture mediche, cibo e acqua, uccisione del personale e detenzioni indiscriminate”. Nell’articolo scientifico la conta delle vittime degli attacchi al sistema sanitario al 22 gennaio: 374 tra medici e infermieri uccisi e 99 sanitari arrestati per non aver obbedito agli ordini di evacuazione. (continua)
Con la spesa critica si può colpire l’occupazione Israeliana: i marchi da boicottare
Tanti in questi giorni si stanno chiedendo cosa poter fare concretamente per mostrare il proprio sdegno nei confronti della carneficina di civili palestinesi che sta compiendo Israele e, più in generale, per diventare parte attiva nella lotta contro l’occupazione. La buona notizia è che non serve inventarsi nulla di particolarmente nuovo: basta prendere esempio dalla storia. La ricetta l’hanno scritta nel lontano 1959 un gruppo di militanti sudafricani che si battevano contro il regime di apartheid coloniale che esisteva in quel Paese: «Non vi chiediamo niente di speciale – scrissero – vi chiediamo solamente di ritirare il vostro sostegno al regime di apartheid smettendo di comprare prodotti sudafricani». Ci vollero anni ma alla fine la decolonizzazione divenne realtà, e il boicottaggio – colpendo al cuore l’economia del colonizzatore – ebbe un ruolo cruciale. Anche verso Israele esiste da tempo una campagna di boicottaggio, coordinata dalla Rete BDS (Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni): è così temuta dallo stato israeliano che i suoi coordinatori sono stati accusati nientemeno che di “terrorismo”. Ma la loro attività prosegue ed esiste una lista precisa di marchi che si invitano a non acquistare allo scopo di rendere l’occupazione economicamente insostenibile e partecipare attivamente alla sua fine.
La campagna di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele é nata nel 2005. Dopo aver partecipato alla conferenza mondiale contro il razzismo in Sud Africa, un gruppo di attivisti palestinesi hanno capito che il regime che li opprimeva da decenni aveva un nome preciso: apartheid. Una verità che negli anni successivi è stata sancita anche da numerosi rapporti indipendenti. Per questo proposero uno di quegli stessi strumenti che si inventarono nel 1959 un gruppo di militanti sudafricani esuli a Londra: il boicottaggio. Smettere di comprare i prodotti israeliani e le merci che arrivano dai territori occupati palestinesi; fare pressioni a istituzioni e aziende affinché tolgano i propri investimenti dalle banche e dalle compagnie israeliane; spingere i propri stati a emettere sanzioni contro Israele.
La campagna BDS ha tre obiettivi principali: mettere fine all’occupazione israeliana e alla colonizzazione delle terre palestinesi; riconoscere i diritti fondamentali dei palestinesi cittadini d’Israele e garantirgli la piena uguaglianza; rispettare il diritto al ritorno dei profughi palestinesi. Più di 170 gruppi della società civile palestinese sottoscrissero la sua nascita e oggi è sostenuto da individui, associazioni, sindacati, chiese, organizzazioni non governative e movimenti che rappresentano milioni di persone in tutto il mondo.
La campagna é da anni una spina nel fianco del governo israeliano, che l’ha definita una minaccia “esistenziale” e “strategica”. «Chi promuove il boicottaggio di Israele, di qualsiasi sua parte, non è amico di Israele. È suo nemico. Quindi va combattuto», ha dichiarato in passato Kuperwasser, ex-capo della divisione di ricerca nella divisione dell’intelligence militare della Forza di difesa israeliana. Per cercare di arginarla, Israele non si è limitata a emettere una legge che vieta l’ingresso nel paese agli stranieri che hanno appoggiato pubblicamente il boicottaggio di Israele, ha anche fatto pressione sui governi occidentali affinché condannassero la campagna BDS. Francia e Germania – che avevano prontamente iniziato a perseguitare gli attivisti pro-palestinesi – hanno dovuto ritirare le condanne verso chi proponeva pubblicamente il boicottaggio dei prodotti israeliani dopo la sentenza della CEDU (Corte Europea dei Diritti dell’Uomo) del 2020. La Corte infatti emise all’unanimità una sentenza secondo la quale la condanna penale dei sostenitori del boicottaggio di Israele da parte della Corte suprema francese violava l’articolo relativo alla libertà d’espressione della Convenzione europea dei diritti umani (articolo 10). Per Strasburgo quindi criticare Israele e chiedere il boicottaggio dei suoi prodotti non è antisemitismo, ma libertà di espressione.
I marchi al centro della campagna di boicottaggio
Ma quali sono i marchi coinvolti direttamente o indirettamente nell’appoggio all’occupazione israeliana? Gli attivisti di BDS hanno compilato una lunga lista, piena di prodotti che ogni giorno finiscono sulle nostre tavole e non solo.
CARREFOUR, multinazionale della grande distribuzione alimentare con sede in Francia, oltre ad aver aperto una franchising con aziende israeliane direttamente coinvolte nel progetto coloniale dello stato ebraico l’anno scorso, é accusata di essere nuovamente complice per aver donato migliaia di pacchi personali all’esercito israeliano. Nel post di sostegno si vedono i soldati con ai piedi sacchetti della spesa marca Carrefour.
McDonald’s, Domino’s Pizza, Pizza Hut e Papa John, hanno fatto generose donazioni all’esercito di Israele che sta mietendo migliaia di vittime civili solo in queste settimane. La filiale di McDonalds israeliana ha dichiarato recentemente di aver regalato 100mila pasti all’esercito e ha inoltre dichiarato di offrire uno sconto del 50% per i soldati e le forze dell’ordine israeliane. Forte lo scalpore e l’indignazione scoppiato nei paesi arabi, e in Turchia, Libano, Egitto, numerose sedi McDonald’s sono state vandalizzate durante i cortei. Gli attivisti hanno inoltre chiamato i cittadini al boicottaggio della multinazionale degli hamburger, obbligando numerose filiali – dall’Oman alla Turchia all’Arabia Saudita – a prendere le distanze dalle attività della filiale israeliana. Varie filiali hanno così dichiarato di essere contro il massacro in Palestina e hanno raccolto soldi e aiuti da mandare alla popolazione di Gaza. In Libano i manifestanti hanno anche attaccato uno Starbucks e il cancello della università Americana di Beirut.
In un’altra delle foto che circolano sui social, si vedono dei soldati israeliani con i panini di Burger King sorridenti; accanto, il testo dell’azienda: «siamo usciti per rafforzare la nazione di Israele. Le nostre squadre stanno lavorando diligentemente per continuare a donare migliaia di pasti ai nostri eroi». Scegliere di finanziare i soldati israeliani in questo momento é una precisa scelta politica: significa aiutare direttamente le azioni di guerra israeliane. Per gli attivisti BDS “Tutte meritano il boicottaggio e il disinvestimento, a prescindere dall’affermazione che le loro filiali nei vari Paesi sono interamente o parzialmente di proprietà di aziende locali. La società madre è complice per aver permesso alla sua filiale in Israele di sostenere un’aggressione militare in corso”. Scrivono su un loro comunicato: “Incoraggiamo una pressione continua sulle entità che sostengono l’apartheid di Israele e la sua guerra genocida contro il nostro popolo a Gaza.”
Le aziende il cui coinvolgimento nell’apartheid é più che comprovato sono molte, e la campagna BDS chiama al loro boicottaggio. La multinazionale statunitense dell’informatica HP (Hewlett Packard) aiuta Israele a limitare gli spostamenti dei palestinesi fornendo un sistema di identificazione biometrico. I cosmetici AHAVA hanno il loro sito di produzione in un insediamento israeliano illegale. DANONE è una multinazionale francese di prodotti alimentari che detiene il 20% delle azioni dell’azienda alimentare israeliana Strauss Group, investendo nei territori occupati. AXA investe in banche israeliane che finanziano il furto di terre e risorse naturali palestinesi. PUMA sponsorizza l’Associazione calcistica israeliana, che comprende squadre negli insediamenti di Israele sulla terra palestinese occupata. SODA STEAM è attivamente complice della politica israeliana di sfollamento dei cittadini beduini-palestinesi autoctoni di Israele nel Naqab (Negev), oltre ad avere una lunga storia di maltrattamenti e discriminazioni nei confronti dei lavoratori palestinesi. SIEMENS è complice attiva nella proliferazione delle colonie israeliane in territorio palestinese attraverso la costruzione del progetto dell’Interconnettore EuroAsia. Questo collegherà la rete elettrica israeliana con quella europea, permettendo agli insediamenti illegali di beneficiare dell’elettricità prodotta. SABRA Dipping Company è una joint venture che produce prodotti alimentari ed è co-proprietaria di PepsiCo e del Gruppo Strauss, che fornisce sostegno finanziario all’esercito israeliano. STARBUCKS sponsorizza anche raccolte di fondi per Israele.
Frutta, verdura e vini provenienti da Israele sono spesso erroneamente etichettati come “Made in Israel” quando invece provengono da terre palestinesi occupate. Un codice a barre che inizia con 729 indica solitamente un prodotto di Israele. Non è del tutto affidabile, perché in verità la cifra identifica il Paese dove l’azienda ha ottenuto il prefisso aziendale, quindi possono esserci casi in cui non si rivela in metodo preciso, ma nella gran parte dei casi lo è.
COCA-COLA sostiene lo stato di Israele dal 1966. La società svizzera NESTLÈ possiede il 50,1% dei capitali della catena alimentare Osem israeliana. INTEL produce la maggior parte dei chip PENTIUM 4 utilizzati dagli elaboratori PC nella sua fabbrica di Kyriat Gat, installato nel sito di Iraq Al-Manshiya, un villaggio palestinese raso al suolo dopo il suo sgombro nel 1949 da parte dei soldati egiziani. L’Oréal ha anche investito milioni creando un’unità di produzione a Migdal Haemeck, a tal punto che il congresso ebreo americano ha espresso la sua soddisfazione nel vedere L’Oréal “diventare un amico caloroso dello Stato di Israele”. ESTÉE LAUDER, oltre ai suoi investimenti, ha come direttore il presidente di una delle organizzazioni sioniste più potenti negli Stati Uniti, il Fondo Nazionale Ebreo. DELTA GAIL é un’impresa israeliana che subappalta prodotti tessili; numerosi indumenti intimi di marchi stranieri come Marks & Spencers, Calvin Klein, DKNY tra altri arrivano da lì.
LEVI STRAUSS JEANS E CELIO finanziano le nuove colonie in Palestina ma anche le scuole degli estremisti religiosi nel mondo. Il presidente di TIMBERLAN, Jeffrey Swartz, è un membro attivo della lobby sioniste negli Stati Uniti. Ha incoraggiato la Comunità ebraica americana a trasferirsi in Israele e i soldati israeliani a dirigere la propaganda pro-israeliana negli USA. NOKIA commercia attivamente con lo Stato di Israele, dove ha un centro di ricerca. CATERPILLAR contribuisce alla distruzione delle case in Palestina con i suoi bulldozer giganti. La catena alberghiera ACCORHOTEL ha molti hotel in Israele ha anche una succursale nei territori siriani occupati, il Golan.
L’importanza del boicottaggio
Manifestare a sostegno della Palestina e condannare il genocidio é importante soprattutto in Occidente, dove si sta cercando di eliminare qualsiasi narrativa che non sia quella dell’appoggio incondizionato a Israele dei governi e dei grandi media. Serve a dimostrare che l’opinione pubblica non condivide le azioni del governo: ma non basta.
«Esistono fondamentalmente due tipi di proteste: le proteste dimostrative, e quelle distruttive» spiega l’analista Shahid Bolsen. Per lui, gridare il proprio dissenso senza creare un problema concreto a Israele ha una portata limitata: «Affinché le proteste in Occidente diventino davvero distruttive [e con distruttive intende realmente problematiche per il governo, ndr], è necessario che si focalizzino sul settore privato». Colpire le tasche delle imprese che guadagnano dai loro affari con Israele. Insomma, boicottaggio, disinvestimento e sanzioni. «Non voglio che l’occidente venga a salvarci. Non sto chiedendo all’Occidente d’invadere Israele. Chiedo solo che smetta di finanziare la nostra oppressione. L’obbligo etico più profondo in questi tempi è quello di agire per porre fine alla complicità. Solo così possiamo sperare di porre fine all’oppressione e alla violenza», ha scritto recentemente Omar Barghouti, co-fondatore del movimento del BDS, per rilanciare la campagna che da anni mette in difficoltà Israele.
Sono 16 anni che Gaza é sotto embargo e assedio. 54 anni che migliaia di palestinesi vivono in campi profughi senza poter tornare nella propria terra. Le occupazioni israeliane continuano ad allargarsi, distruggendo terreni, case e rubando l’acqua ai palestinesi che si ostinano a vivere dove sono nati. L’apartheid continua in Israele e nei territori occupati, appoggiata dai governi occidentali e supportata attivamente da decine di grandi aziende. «E’ nostro compito far sì che appoggiare il genocidio diventi costoso, troppo costoso, insostenibile» dice Bolsen nel video in cui invita ad agire e a fare pressioni affinché tutte le aziende e le istituzioni prendano una posizione sul massacro in corso. I danni economici sono una delle poche cose che, forse, il governo israeliano ad un certo punto sarà costretto ad ascoltare.
Eppure una soluzione ci sarebbe, se l’ONU contasse qualcosa – Francesco Masala
Dopo tanti anni nei quali Israele ha rubato territori ai palestinesi. Ha fatto pulizia etnica e qualsiasi ingiustizia possibile e immaginabile, e non ha permesso la formazione di uno stato di Palestina, grazie al servo-padrone che sono gli Usa.
L’ONU delibera a stragrande maggioranza che:
Nel deserto egiziano, dietro congrua compensazione finanziaria allo stato egiziano, si individui uno spazio pari a quello attribuito dall’ONU allo stato d’Israele nel 1948, si costruisca una muraglia insuperabile, sorvegliata a vista da milizie dell’Onu per evitare qualsiasi tentativo di fuga.
All’interno vadano obbligatoriamente trasferiti tutti i sionisti, cristiani ed ebrei, presenti adesso in Israele e nei Territori Occupati, solo fra loro possono convivere. Inoltre verranno costruite a grandezza naturale il Muro del Pianto e tutti i luoghi di culto che vorranno, a loro spese.
Dal Giordano al mare si formi uno Stato unitario fra tutti i cittadini, compresi i palestinesi fuoriusciti, che possono tornare dopo la Nakba del 1948 e quella del 2023-2024, un unico Stato che comprenda Israele, Cisgiordania e striscia di Gaza, con il riconoscimento di cittadinanza e pari diritti per tutti gli abitanti, a prescindere da etnia o religione.
Il sionismo verrà dichiarato fuori legge e i palestinesi rientreranno in possesso di tutti i territori espropriati dall’illegittimo stato occupante e di tutti gli edifici eventualmente costruiti illeggittimente secondo le norme internazionali.
Richiesta urgente del Sudafrica alla Corte di Giustizia sull’offensiva a Rafah
Il governo sudafricano ha presentato una richiesta urgente alla Corte internazionale di giustizia (ICJ) per valutare se la decisione annunciata da Israele di estendere le operazioni militari a Rafah, che è l’ultimo rifugio per i sopravvissuti a Gaza, richieda che la corte utilizzi il suo potere di prevenire ulteriori imminenti violazioni dei diritti dei palestinesi a Gaza.
Ai sensi dell’articolo 75, comma 1, del Regolamento della Corte, “La Corte può decidere in qualsiasi momento di esaminare proprio motu se le circostanze del caso richiedano l’indicazione di misure provvisorie che dovrebbero essere adottate o rispettate da parte di uno o tutti i soggetti parte.”
In una richiesta presentata alla Corte ieri (12 febbraio 2024), il governo sudafricano ha affermato di essere seriamente preoccupato che l’offensiva militare senza precedenti contro Rafah, annunciata dallo Stato di Israele, abbia già portato e si possa tradurre in ulteriori attacchi su vasta scala. uccisioni, danni e distruzioni. Ciò costituirebbe una violazione grave e irreparabile sia della Convenzione sul Genocidio che dell’Ordinanza della Corte del 26 gennaio 2024.
Il Sudafrica confida che questa questione venga affrontata con la necessaria urgenza alla luce del bilancio quotidiano delle vittime a Gaza.
Fonte: ufficio stampa del Governo Sudafricano; traduzione equipe traduttori Pressenza
Voci ebraiche per la pace: “Dire no alle politiche di guerra di Netanyahu non significa essere antisemiti”
Siamo un gruppo di ebree ed ebrei italiani che, dopo la ricorrenza del Giorno della Memoria e nel vivere il tempo della guerra in Medio Oriente, si sono riuniti e hanno condiviso diversi sentimenti: angoscia, disagio, disperazione, senso d’isolamento. Il 7 ottobre, non solo gli israeliani ma anche noi che viviamo qui siamo stati scioccati dall’attacco terroristico di Hamas e abbiamo provato dolore, rabbia e sconcerto. E la risposta del governo israeliano ci ha sconvolti: Netanyahu, pur di restare al potere, ha iniziato un’azione militare che ha già ucciso oltre 28.000 palestinesi e molti soldati israeliani, mentre a tutt’oggi non ha un piano per uscire dalla guerra e la sorte della maggior parte degli ostaggi è ancora incerta. Purtroppo sembra che una parte della popolazione israeliana e molti ebrei della diaspora non riescano a cogliere la drammaticità del presente e le sue conseguenze per il futuro. I massacri di civili perpetrati a Gaza dall’esercito israeliano sono sicuramente crimini di guerra: sono inaccettabili e ci fanno inorridire.
Si può ragionare per ore sul significato della parola “genocidio”, ma non sembra che questo dibattito serva a interrompere il massacro in corso e la sofferenza di tutte le vittime, compresi gli ostaggi e le loro famiglie. Molti di noi hanno avuto modo di ascoltare voci critiche e allarmate provenienti da Israele: ci dicono che il Paese è attraversato da una sorta di guerra tra tribù – ebrei ultraortodossi, laici, coloni – in cui ognuno tira l’acqua al proprio mulino senza nessuna idea di progetto condiviso.
Quello che succede in Israele ci riguarda personalmente: per la presenza di parenti o amici, per il significato storico dello Stato di Israele nato dopo la Shoah, per tante altre ragioni. Per questo non vogliamo restare in silenzio. Abbiamo provato forte difficoltà di fronte all’appena trascorso Giorno della Memoria: non possiamo condividere la modalità con cui lo si vive se lo si riduce a una celebrazione rituale e vuota. Riconoscendo l’unicità della Shoah, consideriamo importante restituire al 27 gennaio il senso e il significato con cui era stato istituito nel 2000, vale a dire un giorno dedicato all’opportunità e all’importanza di riflettere su ciò che è stato e che quindi non dovrebbe più ripetersi, non solo nei confronti del popolo ebraico.
Il 27 gennaio 2024 è stato una scadenza particolarmente difficile e dolorosa da affrontare: a cosa serve oggi la memoria se non aiuta a fermare la produzione di morte a Gaza e in Cisgiordania? Se e quando alimenta una narrazione vittimistica che serve a legittimare e normalizzare crimini? Siamo ben consapevoli che esiste un antisemitismo non elaborato nel nostro Paese e nel mondo, ne sentiamo l’atmosfera e l’odore in questi mesi soprattutto dal 7 ottobre, quando abbiamo visto incrinarsi i rapporti, anche personali, con parte della sinistra. Ma ci sembra urgente spezzare un circolo vizioso: aver subito un genocidio non fornisce nessun vaccino capace di renderci esenti da sentimenti d’indifferenza verso il dolore degli altri, di disumanizzazione e violenza sui più deboli.
Per combattere l’odio antiebraico crescente in questo preciso momento, pensiamo che l’unica possibilità sia provare a interrogarci nel profondo per aprire un dialogo di pace costruendo ponti anche tra posizioni che sembrano distanti. Non siamo d’accordo con le indicazioni che l’Unione delle Comunità ebraiche italiane ha diffuso per la giornata del 27 gennaio, in cui viene sottolineato come ogni critica alle politiche di Israele ricada sotto la definizione di antisemitismo. Sappiamo bene che cosa sia l’antisemitismo e non ne tolleriamo l’uso strumentale. Vogliamo preservare il nostro essere umani e l’universalismo che convive con il nostro essere ebree ed ebrei. In questo momento, quando tutto è difficile, stiamo vicino a chi soffre provando a pensare e sentire insieme…
L’università e il genocidio – Rete universitaria per la Palestina
La guerra finirà con la loro distruzione. Netanyahu non cambia idea. È stato chiaro, mentre ordinava l’avanzata su Rafah, l’ultima città della Striscia di Gaza, quella in cui si sono rifugiate un milione e mezzo di persone alla fame, quella da cui non possono più fuggire. La danza macabra sui negoziati per una “tregua” è un vecchio gioco di prestigio che i leader israeliani mettono in scena, con maestria impareggiabile, da decenni, chiedete a chi ne ha memoria. Oggi serve soprattutto a tentare di frenare la rabbia e la disperazione dei familiari dei 130 ostaggi di Hamas e a fornire argomenti a Biden che ha firmato sanzioni economiche contro 4 (quattro!) coloni israeliani responsabili di violenze in Cisgiordania. E allora? Non resta che assistere impotenti a uno sterminio che non ha precedenti in 75 anni di guerra coloniale? Non resta che rassegnarsi a sentirci rivolgere – fra due, cinque dieci anni – quella tremenda domanda dai nostri bambini: voi dove eravate? Cosa avete fatto per fermare l’orrore di quei settemila corpi sepolti sotto le macerie di Gaza che non entrano nelle statistiche? “Se dovessimo partecipare ogni giorno al funerale di una bambina o un bambino assassinati in questi quattro mesi dal sionismo a Gaza, passeremmo i prossimi 27 anni a farlo. Ogni giorno per ventisette anni… La retorica dominante e le nostre lealtà istituzionali rimangono intatte…”, scrive la Rete universitaria per la Palestina in un testo scritto “non per ripetere frasi vuote sui mali della violenza né recitare proclami umanitari…”, ma per “invitare alla comunicazione tra quelli di noi che hanno bisogno di fare qualcosa in modo collettivo…”
[Il sommario e l’editing di questo articolo sono di Marco Calabria, scomparso improvvisamente l’8 febbraio 2024]
Alcuni parlano, altri discutono, altri piangono, c’è anche chi si rallegra per il genocidio in corso. In ogni caso, solo chi promuove la Nakba fa qualcosa. Ed è così che si cancella una città davanti ai nostri occhi che, però, non vedono più nulla (Rodrigo Karmy Bolton).
Colonialismo di insediamento e insediamento del collaborazionismo
Questo testo è stato scritto a partire dalla più profonda nausea morale e dalla più esausta delle vergogne politiche. Non intende ripetere frasi vuote sui mali della violenza né recitare proclami umanitari, vuole invece invitare alla comunicazione tra quelli di noi che hanno bisogno di fare qualcosa in modo collettivo perché non possiamo più sopportare tanta ipocrisia mascherata da moralità, tanto disgusto celato da formalismo e tanta banalità che invoca democrazia. Si sta creando una Rete Universitaria per la Palestina per coordinare l’organizzazione congiunta di eventi accademici nel maggior numero possibile di università, a quattro mesi dall’inizio dell’ultimo e più sanguinoso capitolo dei settantacinque anni di storia della pulizia etnica di una Palestina nelle mani di quel progetto coloniale genocida chiamato sionismo, di quell’alibi chiamato Stato di Israele e del suo papà, l’Asse del Genocidio, ovvero la “comunità internazionale”.
La macchina criminale sionista – che è il prodotto più moderno e impazzito di secoli di suprematismo, massacri e saccheggi perpetrati da e per l’Europa e i suoi figli prediletti in nome dello sviluppo e della prosperità – continua a sparare, radere al suolo, bruciare, amputare, avvelenare, dissanguinare, rubare, demolire, torturare, mentire, gioire dell’immunità, promettere di non fermarsi (Amalek!) e criminalizzare qualsiasi ostacolo sul suo cammino. Il ruolo geopolitico svolto da Israele è solo la punta di lancia di questa macchina criminale e la portata del suo business as usual continua ad essere enorme, anche se la sua salute è sempre più cagionevole.
Davanti a quella macchina, il popolo palestinese resiste da più di un secolo, giorno dopo giorno, generazione dopo generazione, superando l’orrore assoluto. Con ogni minuto di sopravvivenza, con ogni metro di resistenza, si fa strada verso la sua liberazione. L’orrore assoluto non è solo dover seppellire tanti bambini carbonizzati quanti l’arsenale dell’aggressore decide. Orrore assoluto è anche chiudere i pozzi con il cemento, avvelenare le falde acquifere e legiferare sul divieto di raccogliere l’acqua piovana. L’orrore assoluto è che Israele prometta e metta in atto una “seconda Nakba” dopo decenni in cui ha negato l’esistenza della prima. Orrore assoluto è ricevere un messaggio di questo tipo da una persona cara: “La cosa peggiore che ti può capitare è essere arrestato, la morte è molto meglio”. Però gli “animali umani”, quelli che vivono così lontani dal nostro “giardino”, rispondono all’orrore con una poesia sovrumana:
Da sotto le macerie lasciate dal missile estraggono un bambino semi-incosciente che, prima di aprire gli occhi, alza le dita in segno di vittoria.
E i giardinetti della nostra accademia, che fanno? C’è qualche risposta? Un accenno di opposizione? C’è una certa massa critica indignata? C’è qualche disperato non nel mio nome? Per caso noi, più o meno ipocriti, non sapevamo che cosa stava succedendo? Sì, ci sono stati segnali, azioni, gesti, elenchi di aderenti ad appelli meritevoli – nessuno di essi a livello istituzionale – ma le schiaccianti manifestazioni di sostegno, complicità, giustificazione, equidistanza, collaborazionismo e umiliazione intellettuale danno un altro resoconto dello stato della questione. Mentre assistiamo in diretta, con tutti i dettagli richiesti, all’insopportabile verità di un enorme massacro, la reiterata prescrizione di “non mescolare scienza e politica” ci rende così subumani:
Schivando i detriti lasciati da ogni missile cammina un distratto battaglione di accademici che evita di guardare in faccia i testimoni della loro miseria.
Il messaggio che questa distrazione invia è molto chiaro:
Continua a morire, se necessario, mentre qui ci sentiamo al sicuro.
Se dovessimo partecipare ogni giorno al funerale di una bambina o un bambino assassinati in questi quattro mesi dal sionismo a Gaza, passeremmo i prossimi 27 anni a farlo. Ogni giorno per ventisette anni. Il numero di bambine e bambini uccisi a Gaza in quattro mesi supera di gran lunga la somma di tutti gli israeliani uccisi dalla Resistenza palestinese dal 1948 a oggi. C’è qualcosa da esigere di fronte a questa realtà? La retorica dominante e le nostre lealtà istituzionali rimangono intatte. Il peculiare (e inesistente) diritto a difendersi di un regime occupante che può sterminare generazioni senza che venga battuto ciglio continua ad essere scrupolosamente rispettato. Se la Corte Internazionale di Giustizia non chiede di fermare quell’emorragia, chi sono io per chiederlo? È il mercato – delle armi, dell’energia, di tutto –, il finanziamento di progetti, il “trasferimento delle conoscenze”, “l’innovazione”, “la collaborazione”… il neolinguaggio e il tono istituzionale adornano la patetica reazione dell’accademia di fronte all’orrore assoluto: condannare ogni forma di violenza come si condanna la forza di gravità, spiegare che le violazioni del diritto internazionale sono una cosa molto brutta, ignorarne però le conseguenze e scrivere articoli soporiferi su concetti come terrorismo o antisemitismo, per citare i due esempi più abusati e redditizi.
A considerare la noia e il torpore che ormai entrambi i termini producono, valgano due brevi cenni. Da un lato, il concetto di terrorismo non rimanda ad alcuna categoria analitica. Resta una parola con cinquecento definizioni che serve solo a capire una cosa: quell’etichetta è distribuita e ridefinita dallo stesso potere che la inventa. Seppelliamo i dibattiti seri accumulando luoghi comuni e sciocchezze ripetute mille volte. Qualcuno può spiegare con il minimo rigore necessario cos’è questo artefatto chiamato terrorismo, a cosa serve, a chi serve, quante versioni ha e come vengono utilizzate? Qual è la radice storica del termine? Il 1789? Gli anni ’70? Il 2001? Il 2023? Mandela ha smesso di essere un terrorista, secondo gli Stati Uniti, nel 2008. Nel 2024 sarà la volta dell’UNRWA. Quando lo Yemen applica la Risoluzione1674 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sulla responsabilità di proteggere i civili, diventa automaticamente ancora una volta un pericoloso foco terroristico. Quali terrorismi dovremmo condannare, dunque, e quali no? E ancora, quel che è peggio: a qualcuno importa più qualcosa di tutto questo? Ci si dimentica, intanto, che occupare e colonizzare è illegale, accettiamo il fatto che la violazione di decine di risoluzioni ONU faccia di Israele un faro dell’Occidente sviluppato e che settemila cadaveri che marciscono sotto le macerie a Gaza siano un danno collaterale compiuto dell’”unica democrazia del Medio Oriente”. Sono coloro che raccomandano di “non mescolare scienza e politica” – come se ciò fosse possibile! – che hanno perso la vergogna intellettuale necessaria per discutere, analizzare, approfondire le genealogie, porre domande e osare ascoltare le risposte. La critica ci spinge ad approfondire le radici dei processi, e questo è ciò che significa “radicale”.
D’altra parte, ci sono le patetiche lagne sull’antisemitismo. Solo il nostro proverbiale ombelico accademico continuerà a perdere tempo con le invettive presuntuose per giustificare il fatto che non siamo antisemiti. Beh, certo che non lo siamo. E basta. Nel dizionario, discendente di Sem nella tradizione biblica o appartenente a uno dei popoli che compongono la famiglia formata dagli arabi, dagli ebrei e da altri. Gli ultimi quattro mesi hanno dimostrato che la parola in questione è uno strumento rotto nella bocca del sionismo. La maggioranza dei sionisti sul pianeta non sono ebrei. La maggioranza di quel sessanta per cento degli ebrei che vivono fuori da Israele non sono sionisti. A ciò va aggiunto che la stragrande maggioranza dei cittadini ebrei di Israele non è semita. Quanto è tutto assurdo: il sionismo stesso ha trasformato il termine in uno straccio sporco. Il jolly si è rotto proprio per essere stato usato così tanto, ma per alcuni non c’è nessuno che li possa fermare quando arrivano al limite.
Tanto merito e tanti complimenti
Le reazioni a questo genocidio hanno messo in luce tre macchie che permeano la vita quotidiana della nostra fauna e flora accademica.
Uno. Sguazziamo con orgoglio in una pozza di povertà intellettuale imbavagliata dalla colonialità del potere. Uno stupefacente processo di congelamento epistemico ha svuotato il nostro linguaggio, aprendo l’abisso tra la parola e la realtà materiale. Qualcuno ricorda quando abbiamo deciso di trasformare l’uccisione sistematica di migliaia e migliaia di bambini in una “catastrofe umanitaria”? Perché l’Asse del Genocidio “intensifica le sue operazioni” e le migliaia di cadaveri sono persone “morte nel corso del conflitto”? Perché buttiamo nella spazzatura la definizione più elementare della voce “guerra” per giustificare il catalogo canonico dell’aggressione genocida facendo ricorso al “diritto a difendersi” di coloro che per decenni hanno perpetrato quell’aggressione? Siamo arrivati fin qui e il nostro meritevole sforzo ci è costato molto.
Due. Con la colonna sonora dei nostri valori che suona come un disco rotto, dosi selettive di amnesia condiscono montagne di curriculum creati nel calore di una peculiare economia morale. Chi ricorda oggi i primi mesi di guerra in Ucraina? Chi si ricorda di quella definizione di razzismo di cui avete discusso in classe l’altro ieri? Quante carriere accademiche sono state costruite su floride analisi decoloniali o su patinate ricerche sull’uguaglianza, la tolleranza e i diritti fondamentali?
Tre. La somma dei primi due punti, il pasticcio più appiccicoso assegna compiti tra una varietà di soggettività prodotte dall’accademia-mercato coloniale. Uno di quei profili rifiuta di ammettere che l’occupazione coloniale è un crimine (semplice ovvietà) e, di conseguenza, evita di riconoscere che è giusto resistervi, per quanto l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite “riaffermi la legittimità della lotta dei popoli per l’indipendenza, l’integrità territoriale, l’unità nazionale e la liberazione dalla dominazione coloniale, dall’apartheid e dall’occupazione straniera con tutti i mezzi a sua disposizione, compresa la lotta armata; […] anche il diritto inalienabile del popolo palestinese e di tutti i popoli sotto occupazione straniera e dominazione coloniale all’autodeterminazione, all’indipendenza nazionale, all’integrità territoriale, all’unità nazionale e alla sovranità senza interferenze straniere…” (Risoluzione 45/130, 68a sessione plenaria, 14-12-1990). In effetti, ogni popolazione occupata ha riconosciuto il proprio diritto a resistere all’occupazione coloniale con tutti i mezzi a sua disposizione. La ratifica di questo diritto è avvenuta 33 anni fa, dopo secoli di massacri evangelizzatori, civilizzatori e democratizzatori, tutti fatti in nome di valori che legittimano, giustificano e naturalizzano l’invasione, l’esproprio e l’umiliazione di intere società, sotto una nozione di “guerra giusta” che nessuno accetta o ammette più nella stragrande maggioranza del pianeta.
Invece di ammettere queste ovvietà, non poche eccellentissime autorità si sforzano di censurare ogni pronunciamento sui diritti umani che faccia appello agli statuti di ciascuna istituzione. Lo fanno, curiosamente, in nome del lustro e dello splendore dell’istituzione stessa. Molti di quei laboriosi censori sono gli stessi rinomati signori che, seduti sulle poltrone da diversi cicli di sei anni, occupano le posizioni gerarchiche più alte nei rispettivi feudi del nostro illustre giardino universitario. Quelli con meno pudore continueranno a ricordarci che “nessuno può battere un democratico” e che “loro sono dovuti scappare di fronte ai grigi” (sic) (grigio era il colore delle uniformi della polizia di Franco, ndt). Oggi sono sempre di più quelli che potranno raccontare di esser dovuti fuggire di fronte alla polizia di coloro che dovevano scappare davanti ai grigi. Alcuni sono impegnati ad abbattere bandiere e striscioni in nome del sacro ordine igienista. Alcuni interrompono le comunicazioni nei canali interni dell’istituzione. Alcuni lavorano su ricerche super interessanti e scrivono articoli fichissimi su postcolonialità, decolonialità e cavolonialità, ma sembrano aver giurato, per la gloria della loro autostima, che non ci sarà alcun conflitto genocida che ostacolerà la loro carriera. Alcuni sanno cosa dire, ma sono sempre “molto occupati”. Altri, praticanti di una miserabile virtù fotosintetica, guardano da entrambe le parti come fa una mucca al passaggio di un treno.
Uno scenario del genere ci colloca nel posto peggiore che la storia riserverà a coloro che, di fronte a un genocidio trasmesso in diretta e in alta definizione, pur potendo fare molto, hanno deciso di godersi il loro margine di manovra privilegiato per non far nulla. A causa del nostro comportamento saremo conosciuti come la maggioranza degli Stati europei che hanno collaborato incondizionatamente con il genocidio, come coloro che si sono mossi in difesa di Israele davanti alla Corte internazionale di giustizia, come i “guardiani della prosperità” nello Stretto di Mandeb (Mar Rosso, ndt), come la stessa Corte Internazionale di Giustizia mentre dà l’estrema unzione all’idea di giustizia, come il Regno di Spagna che esprime preoccupazione pur continuando a sostenere la macchina genocida, come l’UE che si suicida – un’altra volta – mentre recita la fallacia della “soluzione a due Stati”.
Ecco come andrà a finire. La nozione stessa di giustizia universale, fondata da queste parti e distrutta dai suoi stessi creatori, ci ha già inviato il suo ultimo avvertimento. Congratulazioni ai guardiani della prosperità dell’accademia nel Regno di Spagna, tra i quali irrimediabilmente includiamo tutte e tutti noi.
Rete universitaria per la Palestina
L’obiettivo della Rete Universitaria per la Palestina (#RUxP) è coordinare a livello statale l’organizzazione di eventi accademici di denuncia della Nakba permanente, iniziata nel 1948 con la pulizia etnica della Palestina e che continua con il genocidio in corso, così come appoggiare le mozioni volte a sospendere i rapporti di cooperazione con università e imprese israeliane nei dipartimenti, consigli e senati accademici delle Università dello Stato spagnolo. I dipartimenti di Geografia e Antropologia Sociale dell’Università di Barcellona, insieme al Dipartimento di Educazione Fisica dell’Università di Valencia, hanno già chiesto al rettorato di sospendere le relazioni, e il senato accademico dell’Università Politecnica della Catalogna è stat il primo, lo scorso 31 gennaio, a chiedere che il governo della sua Università faccia lo stesso.
Maggiori informazioni: redxpalestina@gmail.com
UNRWA. I tagli erano già previsti: la tragica omissione dei media – Piccole Note
L’accusa israeliana contro 12 dipendenti dell’UNRWA, che avrebbero preso parte all’assalto del 7 ottobre, in seguito alla quale sono stati tagliati tutti i finanziamenti all’Agenzia delle Nazioni Unite che assiste i palestinesi, non è stata inviata alle autorità dell’Agenzia medesima.
Lo ha denunciato il Commissario generale dell’Agenzia Philippe Lazzarini in un accorato appello in cui denuncia la tragica situazione in cui versano i palestinesi di Gaza dopo il taglio dei finanziamenti, che sta facendo collassare l’organismo assistenziale e morire di fame e malattie i rifugiati.
Accuse non supportate da prove
Queste le parole di Lazzarini: “Abbiamo chiesto e chiediamo la piena collaborazione delle autorità israeliane per condividere le prove“ delle accuse, che ancora, stranamente, non sono arrivate all’Agenzia, che pure ha subito sospeso il personale in questione e ha aperto un’indagine. Perché nasconderle, se sono tanto schiaccianti da convincere mezzo mondo a tagliare gli aiuti ai palestinesi?
Il punto è che non c’è nessuna prova a supporto di tali accuse. Lo scrive Responsible Statecraft in un articolo dal titolo più che significativo: “I media minimizzano la mancanza di prove nello scandalo dei dipendenti dell’UNRWA“. La nota, a firma di Ben Armbruster, spiega che il documento prodotto da Israele “non contiene informazioni dirette che provano che i 12 dipendenti dell’UNRWA abbiano partecipato o assistito all’attacco del 7 ottobre”.
E registra come solo alcuni report abbiano riferito correttamente ciò che contiene il dossier israeliano, e li cita: “L‘Associated Press, ad esempio, ha notato che gli israeliani non hanno fornito alcuna prova. Debora Patta, di CBS News, nel programma Nightly News”, dopo aver dato notizia del documento contro i 12 dipendenti dell’UNRWA, ha ha aggiunto che Tel Aviv ‘non ha ancora fornito prove a sostegno di tali accuse”.
“La CNN – prosegue Armbruster – ha riferito che “non hanno visto l’intelligence che sta alla base della sintesi delle accuse” e che tale sintesi “non fornisce prove a sostegno delle affermazioni contenute”.
La tragica omissione dei media
Armbruster osserva che, nonostante l’assenza di prove, i “principali media statunitensi che hanno riferito sul tema hanno ampiamente accettato le affermazioni israeliane o sono addirittura andati oltre la narrativa israeliana sull’UNRWA”.
“Il New York Times, ad esempio, ha pubblicato diversi articoli sull‘UNRWA e in nessuno di questi era precisato che nel dossier israeliano non ci sono prove specifiche (forse vale la pena notare che uno dei reporter che si è occupato del caso per il Times ha prestato servizio nelle forze di difesa israeliane)”.
“Il Wall Street Journal ha pubblicato un lungo articolo che accredita le accuse israeliane e un altro in cui si riferisce che il dossier ‘costituisce lo sguardo più dettagliato registrato finora sui diffusi legami tra i dipendenti dell’UNRWA e i militanti’. Un altro articolo del Journal affermava che le accuse sono ‘un duro colpo’ per l’UNRWA, senza informare i lettori che il dossier non fornisce prove”.
“Il report riguardante il dossier a cura di ABC World News Tonight non solo ha omesso di dire ai suoi telespettatori che esso non contiene prove specifiche, ma è andato oltre, affermando che ‘le Nazioni Unite non hanno negato le affermazioni’. Altri, come NBC Nightly News e il Washington Post, hanno dato un’ampia copertura alle accuse israeliane, aggiungendo solo di sfuggita che non avevano verificato in modo indipendente le accuse”.
Eliminare l’UNRWA: da decenni è un obiettivo dichiarato
“[…] La maggior parte dei media mainstream omettono anche informazioni contestuali chiave, come ad esempio il fatto che l’UNRWA fornisce regolarmente al governo israeliano l’elenco dei nomi dei suoi dipendenti, o che molti della destra israeliana e i loro alleati negli Stati Uniti da decenni cercano di chiudere l’UNRWA perché ritengono che l’agenzia delle Nazioni Unite legittimi le rivendicazioni dei palestinesi sulla terra che dicono sia stata rubata loro da Israele”.
Sul punto, Armbruster riferisce le dichiarazioni di Joel Braunold, direttore generale del Centro S. Daniel Abraham per la pace in Medio Oriente: “Da molto tempo i repubblicani e alcuni democratici del Congresso perseguono l’obiettivo di tagliare i fondi all’UNRWA, molto prima del 7 ottobre, perché ritengono che la difesa del diritto al ritorno [dei palestinesi ndr] da parte dell’Agenzia faccia sì che tale questione pesi sempre più sullo status finale” dei territori contestati.
Inutile dire che nella colonia italiana, eccezioni a parte, si è obbedito alla linea dettata dall’Impero. L’articolo di Ambruster chiude con le parole in controtendenza del portavoce del Consiglio di Sicurezza Usa John Kirby: “Penso che sia importante ricordare che l’UNRWA svolge un lavoro importante in tutta la regione, soprattutto a Gaza. [L’UNRWA] ha salvato migliaia di vite e non dovremmo mettere in discussione l’ottimo lavoro di un’intera agenzia a causa delle terribili accuse mosse contro un piccolo numero dei suoi dipendenti”. Va ricordato che l’UNWRA conta 30mila operatori.
POLITICO. Gli Usa hanno dato il via libera a Israele per uccidere i civili a Rafah
Gli Stati Uniti hanno dato a Israele il via libera per uccidere i civili a Rafah nonostante i commenti pubblici dei funzionari statunitensi che chiedevano di elaborare un piano per proteggere i civili nella città, che ospita circa 1,5 milioni di palestinesi.
Funzionari statunitensi hanno riferito a POLITICO che l’amministrazione Biden non stava pianificando alcuna conseguenza per Israele se avesse portato avanti un grande assalto a Rafah, che avrebbe inevitabilmente ucciso un numero enorme di civili. “Non è in programma alcun piano di rimprovero, il che significa che le forze israeliane potrebbero entrare in città e danneggiare i civili senza affrontare conseguenze americane”, si legge nell’articolo.
Il portavoce del Consiglio di Sicurezza Nazionale della Casa Bianca, John Kirby, ha chiarito lunedì scorso, in una conferenza stampa, che gli Stati Uniti non stavano pensando di tagliare fuori Israele dagli aiuti militari se avesse portato avanti l’assalto. Quando gli è stato chiesto se gli Stati Uniti hanno minacciato di sospendere gli aiuti, Kirby ha risposto: “Continueremo a sostenere Israele… E continueremo ad assicurarci che abbiano gli strumenti e le capacità per farlo”.
Il presidente Biden inoltre non sta riconsiderando il suo pieno sostegno al massacro israeliano a Gaza, nonostante le notizie secondo cui avrebbe denigrato il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu in conversazioni private.
Anche il Congresso è d’accordo nel continuare a sostenere l’uccisione di massa dei palestinesi mentre il Senato ha votato per approvare un disegno di legge sugli aiuti militari stranieri da 95 miliardi di dollari, che include 14 miliardi di dollari per Israele. Solo 20 repubblicani hanno votato a favore del disegno di legge, ma l’opposizione è dovuta alla mancanza di un accordo sui confini, poiché praticamente tutti i repubblicani sono a favore del sostegno incondizionato a Israele, ancor più dei democratici al Congresso.
La popolazione di Rafah prima della guerra era di 275.000 abitanti, il che significa che i palestinesi sfollati da altre aree della Striscia hanno quintuplicato la popolazione.
La maggior parte dei palestinesi della città si rifugiano in tende per le strade, il che li rende particolarmente vulnerabili ad un attacco israeliano. Gli attacchi aerei israeliani su Rafah da domenica notte a lunedì mattina hanno ucciso 27 bambini e 22 donne.
Cosa c’entra la Namibia con Gaza? – Gianluca Solera
La guerra a Gaza è come un tango macabro che avanza contando gli edifici distrutti e le vite annientate a centinaia, sulle note di una folle melodia. Ma com’è possibile? Gianluca Solera ci propone di guardare a quello che noi occidentali siamo e abbiamo dimenticato di essere, dei colonizzatori, e ci ricorda cosa è accaduto in Namibia tra il 1904 e il 1908
Per quanto tempo dovremo ancora scrivere di una guerra che uccide a passo di danza, un passo indietro e due passi avanti, uno di lato ed uno in avanti? Che, come un tango macabro, conta gli edifici distrutti e le vite annientate a centinaia sulle note di una folle melodia?
Anche nelle ore successive alla sentenza provvisoria della Corte di Giustizia Internazionale, che intimava al governo di Gerusalemme di prendere immediatamente sei misure preventive per ridurre il rischio di genocidio, tra cui le misure necessarie ad evitare l’uccisione di Palestinesi, o la deliberata imposizione di condizioni di vita tali da provocarne la distruzione fisica totale o parziale[1], a Gaza sono stati uccisi dalle bombe più di trecento civili.
E così è continuato questo stillicidio di vite umane a ritmi sostenuti, come se non ci fosse stata nessuna sentenza[2]. Un passo indietro e due avanti, verso la vendetta. Poi, una compagine di stati occidentali, tra cui l’Italia, poche ore dopo la sentenza, ha preso la decisione straordinaria di congelare i fondi di UNWRA, l’Agenzia ONU per i rifugiati palestinesi, in attesa della conclusione delle indagini sul presunto coinvolgimento di dodici dipendenti dell’Agenzia negli attacchi terroristici del 7 ottobre 2023.
L’indagine UNWRA è necessaria ed è in corso, ma per una dozzina di mele marce, viene minacciata di inattività la struttura che maggiormente contribuisce ad alleviare le sofferenze quotidiane degli abitanti della Striscia di Gaza, e che impiega in quel pezzo di terra tredicimila dipendenti[3]. La tempistica dell’azione fa sorgere sospetti. Sviare l’attenzione pubblica dalle risoluzioni della Corte dell’Aja? Lanciare un messaggio contro l’ostinazione dell’ONU nella difesa dei diritti umani?
Non si evocano sui mezzi di informazione misure sospensive simili nei confronti di Israele, con cui gli stessi Paesi che si annoverano in quella compagine hanno numerosi accordi di cooperazione, a titolo bilaterale o multilaterale, come l’accordo di associazione con l’Unione europea. Solamente la piccola Irlanda, che per secoli conobbe il giogo britannico, e che non fa parte di quella compagine, ha assunto una posizione diversa, chiedendo agli altri governi europei di rivedere quest’ultimo accordo[4]; senza esito, per ora. Ancora, un altro passo di danza di lato ed uno in avanti verso il raggiungimento degli obiettivi della guerra?
Eppure, la distruzione fisica non ha precedenti, e sono rispettate testate internazionali a misurarne lo spessore. Il New York Times parla di interi quartieri rasi al suolo attraverso la cosiddetta politica delle demolizioni controllate.
Almeno la metà degli edifici della Striscia sono stati danneggiati o distrutti dall’inizio della guerra, secondo le stime delle analisi satellitari. Sebbene la maggior parte dei danni sia dovuta agli attacchi aerei e ai combattimenti, le demolizioni controllate rappresentano alcuni degli episodi più distruttivi[5]. Le Monde ha invece contato il numero di cimiteri danneggiati, profanati o completamente distrutti durante le operazioni militari nella Striscia: sono 22 su 45[6]. Neanche i morti, insomma, sfuggono alla morte. Di nuovo, un altro passo di danza in avanti, e poi un altro ancora, verso la rimozione della memoria e delle condizioni di abitabilità.
Esiste una parola che racchiuda e giustifichi questa danza senza pietà? Se questa esiste, non può che essere la parola “colonialismo”. Un colonialismo non più fatto di schiavitù e possesso materiale di intere nazioni, ma fatto di prepotenza e doppie misure, di giustificazioni storiche e securitarie, insomma di senso di superiorità e necessità.
Ho trovato quantomeno curioso, ma sicuramente illuminante, la presa di posizione della Namibia, un paese solitamente assente da cronache e analisi internazionali. Durante le udienze processuali della Corte dell’Aja sulla petizione sudafricana per crimini di genocidio contro Israele, il governo tedesco ha preso la difesa di quest’ultimo, e la Namibia è salita alla ribalta delle cronache. Il suo presidente Hage Geingob ha chiesto alla Germania di riconsiderare la sua decisione di intervenire come parte terza in difesa di Israele, argomentando che Berlino, moralmente, non può esprimere la sua adesione alla Convenzione ONU contro il genocidio e allo stesso tempo difendere nelle aule Israele[7].
Ora, che cosa c’entra la Namibia con il Medio Oriente? Beh, c’entra eccome, perché i coloni tedeschi massacrarono più di settantamila Herero e Nama tra il 1904 e il 1908 in quello che viene considerato il primo genocidio del Ventesimo secolo. Nel 2021, il governo di Berlino riconobbe che la Germania aveva commesso un genocidio in Namibia, ma per molti namibiani, i discendenti degli autori di quei crimini non gli hanno ancora pienamente “espiati”, e solo un atteggiamento di “solidarietà coloniale” poteva spingere quei discendenti a difendere pratiche militari altrui quantomeno sospette di generare un genocidio.
In realtà, non vi volevo parlare dell’Aja, ma della Namibia. Quella che era l’Africa del Sud-Ovest restò sotto occupazione tedesca dal 1884 al 1915. Il genocidio fu perpetrato per reprimere una ribellione e si stima che i 4/5 di quelle popolazioni venne eliminato. Secondo la Namibian Genocide Association, il riconoscimento tedesco di tre anni fa e l’offerta di compensazioni tramite investimenti allo sviluppo non sono però sufficienti. Non si tratta solo di riparare a un eccidio di massa con investimenti, ma anche di riportare giustizia tra coloro che hanno perduto le loro terre ancestrali, ora nelle mani della comunità germanofona, che rappresenta meno dell’1% della popolazione namibiana[8]. Ad oggi, i namibiani stanno ancora aspettando.
Conosco la Namibia, che visitai in lungo e in largo per un mese, circa vent’anni fa. Ho conosciuto la bellezza selvaggia dei suoi immensi paesaggi, che ti rendevano minuscolo, ma anche l’orgoglio della gente, e soprattutto ho toccato con mano le cicatrici del colonialismo e le ferite ancora aperte nella sua società. Windhoek, con quelle sue folate spaventose di vento che spazza via passato e presente, mi aveva accolto nelle prime ore del mio viaggio; ma fu nel profondo sud, a Swakopmünd in particolare, che mi resi conto della presenza diffusa di segni del dominio coloniale e di una certa nostalgia coloniale. Dalla reverenza con cui i dipendenti neri trattavano il padrone bianco negli esercizi alberghieri, ai negozi di simboli dell’impero prussiano e del Terzo Reich.
Dalla toponomastica dei centri abitati principali, alle alte reti elettrificate che proteggevano le proprietà della comunità germanofona, evocando immagini di luoghi molto più sinistri. Era solo lontano dal centrocittà che respirava a pieni polmoni l’anima nera e indigena del Paese. Quell’anima nera e indigena, che si ritrova anche nei quartieri popolari di Johannesburg, e che viene rappresentata così precisamente nel museo dell’Apartheid della stessa città[9], spiega perché quei Paesi abbiano avuto il coraggio di rompere il silenzio e di sollecitare la Corte di Giustizia Internazionale ad esprimersi su quello che sta succedendo a Gaza. Non sono stati né i Paesi arabi, né i Paesi musulmani, né tantomeno quelli occidentali a prendere l’iniziativa legale, ma i neri che hanno conosciuto in tutte le sue manifestazioni più brutali il colonialismo europeo.
Anche lo Stato di Israele è nato in seguito ad un progetto coloniale, quello di dare una patria al popolo ebraico. Anche la Palestina è passata di mano in mano nel corso dei secoli, durante i quali si sono succeduti regimi diversi, la maggioranza dei quali arrivati da terre lontane. È questo nostro passato coloniale che ci impedisce di vedere il legame tra gli orribili crimini del 7 ottobre 2023 e la nakba[10], tra la vocazione al martirio di intere generazioni di palestinesi e il furto quotidiano delle loro terre; ma anche tra la barbarie della macchina di distruzione di Gaza da parte della Tsahal e la comodità delle prese di posizione tattiche di molte cancellerie occidentali. Siamo tutti un poco figli di secoli di relazioni asimmetriche, di pregiudizi razziali e dei benefici dello sfruttamento delle risorse di terre lontane – che lo vogliamo o no – e quanto succede in Palestina non è che l’esito di una deflagrazione causata da una miscela esplosiva di orientalismo, colpe storiche e orgoglio coloniale.
Non mi stancherò tuttavia di ripeterlo: sono ebrei e palestinesi uniti contro i crimini del passato e quelli del presente a rappresentare l’unica speranza di riscatto nella regione. La soluzione non verrà da paesi che hanno fomentato il colonialismo per secoli, non almeno in questa fase, in cui ancora si fa fatica a riconoscere i crimini del proprio passato coloniale e il diritto ad autodeterminarsi di nazioni senza stato. Ebrei e palestinesi uniti contro i crimini del passato e quelli del presente dovranno fare come e imparare da quei paesi africani che hanno percorso la via dell’autodeterminazione nella sofferenza di una difficile riconciliazione, e lo dovranno fare senza guardare in faccia nessuno.
Vedo questa speranza nei movimenti bi-nazionali tra arabi ed ebrei che sono sorti negli ultimi due decenni, da Combatants for Peace a Ta’ayyush[11], a Standing Together. Sono movimenti sovente osteggiati e considerati traditori dall’una o dall’altra parte, e questo dà l’idea della difficoltà di un’impresa sociale, politica e culturale necessaria, ma malvista da molti. Forse in altre parti del mondo non è così, ma certamente lo è in questo momento in Palestina. La pace si costruisce negoziando con il cosiddetto “nemico” e riconoscendo il suo diritto ad esistere – non cercando di distruggerlo. Ce lo hanno insegnato gli africani.
Un passo avanti e due passi indietro, è tempo di cambiare il ritmo di questa danza macabra che porta alla distruzione. Dovremmo rendercene conto, anche in Occidente, fare un passo indietro per davvero, fermarci, rinunciare a dichiarazioni che non portano a nulla, chiamare i crimini per quello che sono, e smettere di vestire le vesti del colono…
L’Unione Africana espelle la delegazione israeliana dal suo vertice
“La delegazione israeliana ha cercato di presentare il suo punto di vista sulla guerra di Gaza, ma l’Unione africana (UA) non le ha permesso di partecipare al suo 37° vertice ad Addis Abeba, la capitale dell’Etiopia”, ha riferito, ieri, l’emittente del Qatar Al-Jazeera.
Un alto funzionario dell’organizzazione, a condizione di restare anonimo, ha spiegato che anche l’Unione africana si è opposta alla partecipazione del direttore generale del ministero degli Esteri israeliano a tale incontro.
“La delegazione israeliana ha cercato di convincere alcuni paesi africani a sostenere l’adesione di Israele a questa unione come membro osservatore”, ha sottolineato.
Tuttavia, fonti mediatiche di Al-Mayadeen hanno confermato che la missione israeliana partecipa segretamente all’evento.
Secondo queste fonti, questa delegazione è arrivata ad Addis Abeba due giorni fa per consultarsi con i paesi alleati e sull’acquisizione da parte di Israele dello status di osservatore nell’Unione africana.
Nel 2021, Israele ha ottenuto lo status di osservatore nell’Unione Africana (UA) dopo decenni di sforzi diplomatici, scatenando la protesta di diversi membri del blocco di 55 nazioni, tra cui Mauritania, Sud Africa e Algeria. Alla fine, il provvedimento fu stato revocato e non si è più parlato di un possibile inserimento di Israele come osservatore nell’organismo panarabo.
Il XXXVI vertice dell’Unione Africana si è tenuto alla fine di febbraio dell’anno scorso con il motto “Accelerare la creazione dell’area africana di libero scambio”, anche se in un primo momento era stato invitato a partecipare Israele, ancora una volta, sotto le pressioni di Algeria e Sudafrica era stata annullata la partecipazione.
Tuttavia, la delegazione israeliana si è intrufolata nella sala nel bel mezzo della riunione, ma è stata espulsa dalle forze di sicurezza a causa della protesta di alcuni membri.
Gaza. La risposta di Tajani sull’appalto Eni: non si sa ridere o piangere – Alberto Negri
Il Manifesto (15 febbraio 2024)
Non si sa se ridere o piangere leggendo la risposta del ministro degli esteri Tajani all’interrogazione di Verdi-Sinistra sull’appalto per lo sfruttamento del gas offshore palestinese nelle acque di pertinenza della Striscia di Gaza.
Un appalto da parte di Israele a un consorzio di cui fa parte l’Eni, società a maggioranza governativa.
Il ministro Tajani si arrampica sugli specchi. Dice che non c’è sfruttamento delle risorse palestinesi. Lo sfruttamento dei giacimenti non c’è «ancora», semplicemente perché non è iniziato e deve terminare la fase esplorativa.
Siamo ai giochi di parole che non fanno certo onore a un governo che al vertice con l’Africa sul Piano Mattei si è vantato di non fare «capitalismo predatorio», Questo è peggio: è «capitalismo neocoloniale» per il solo fatto che Israele assegna le concessioni sul gas su parti di mare che non le appartengono. Qui si ruba e basta.
Ma c’è dell’altro – come abbiamo scritto sul manifesto domenica scorsa. La concessione è stata assegnata all’Eni in luglio, prima del massacro di Hamas del 7 ottobre e della terrificante ritorsione israeliana, ma il ministro dell’Energia di Tel Aviv ha dato l’annuncio della firma del contratto il 29 ottobre, quando la guerra era già esplosa.
In una situazione del genere l’Eni e il governo avrebbero dovuto comunicare una sospensiva del contratto. Invece abbiamo saputo di questo affare soltanto qualche giorno fa, dopo che alcuni gruppi palestinesi per i diritti umani hanno dato mandato allo studio legale Foley Hoag di Boston di comunicare all’Eni e alle altre società coinvolte una diffida dall’intraprendere attività in queste acque. Evocando il rischio di complicità in crimini di guerra.
Come se non bastasse Tajani aggrava la sua posizione. Afferma infatti ci sono «interessi confliggenti» e «che la via maestra è quella del dialogo».
Bene: non risulta che l’Eni abbia mai negoziato con i palestinesi ma solo con il governo israeliano. Allora informiamo il ministro che lo Stato di Palestina ha aderito alla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare e dal 2019, in linea con la Convenzione, proietta la sua porzione di mare per 20 miglia dalla costa.
Forse a Tajani sfugge che nel 1999 l’Autorità Palestinese concesse una licenza alla British Gas che l’anno successivo scoprì un grosso giacimento al largo delle coste di Gaza, noto come Gaza Marine. Ma i palestinesi non possono estrarre il gas di Gaza Marine: Israele dal 2007 ha infatti dichiarato un blocco navale intorno alla Striscia.
Altro che «interessi confliggenti». Insomma Israele fa quello che vuole, violando come al solito le convezioni internazionali, e noi la seguiamo.
La prossima volta che il ministro e questo governo parleranno di soluzione diplomatica «tra due popoli e due stati» scoppieremo a ridere per il semplice motivo che sono i primi a sbeffeggiarla.
Lingue di legno. Ecco perché non si sa se ridere o piangere.
Il genocidio a Gaza e il collasso della propaganda occidentale – Patrick Lawrence
di Alessandro Bianchi
Assistiamo ad un cambiamento reale della propaganda occidentale nel racconto delle barbarie a Gaza? C’è uno scontro vero nell’oligarchia statunitense al potere sul come relazionarsi con l’alleato israeliano? E se sì, perché adesso?
Queste sono le domande principali che abbiamo rivolto, per “Egemonia”, ad un grande giornalista statunitense, un maestro, Patrick Lawrence – scrittore, inviato per molti anni all’estero principalmente con l’International Herald Tribune ed oggi uno dei massimi conoscitori e svelatori della propaganda occidentale. In un recente articolo su Scheer Post, Lawrence ha illustrato magistralmente il fallimento etico dentro il principale quotidiano statunitense, il New York Times, dove si è prodotta una spaccatura che esemplifica molto bene la frattura morale dell’occidente. “Israele ha osato e ha chiesto qualcosa che ora non è più tollerabile”. La pulizia etnica e le sofferenze indicibili prodotte dallo stato ormai “paria” – lo ribadisce più volte Lawrence nella sua analisi – non può essere più nascosto e sta producendo un cambio di percezione reale. Avvertibile anche in colonia Italia, gli facciamo presente, con articoli di diverso tenore da parte di Repubblica e con il PD che ora ha la “libertà” di presentare una mozione in cui si accorge di 75 anni di massacri.
Il via libera, lo comprendiamo bene nel confronto con Lawrence, è partito dal dibattito che sta nascendo negli Stati Uniti. “Il sostegno alle brutalità quotidiane degli israeliani sta facendo letteralmente a pezzi il mio paese”, sostiene il grande giornalista statunitense, secondo il quale gli storici quando dovranno scrivere “la fase finale dell’impero statunitense vedranno nella crisi di Gaza un ruolo chiave”.
Abbiamo insistito molto, per comprendere insieme a lui il cambio di passo, sul coraggio del Sudafrica, sul chiaro rifiuto della comunità internazionale (meno l’occidente) a chiudere gli occhi sulle barbarie israeliane e abbiamo trovato conferma sul ruolo decisivo avuto dalla decisione del tribunale dell’Aia nel fare implodere definitivamente gli Stati Uniti (e quindi i suoi vassalli). “Dopo Gaza e dopo quella decisione, ora è improbabile che l’Israele dell’apartheid recuperi il posto nella comunità delle nazioni. Ora è tra i paria.”
I veri sconfitti, su questo Lawrence non ha dubbi, sono i media occidentali. Nel commentare il suo lungo reportage su Scheer Post in cui analizza lo scontro enorme all’interno del New York Times – da cui, questo lo aggiungiamo noi, deriva anche la differente percezione in Italia della vicenda – il giornalista ci ricorda come dopo il 7 ottobre il NYT ha subito rivestito il ruolo di apologeta di Israele. “L’intento genocida di Israele era volutamente nascosto e la distruzione di Gaza non veniva mai descritta come sistematica. L’IDF non prendeva di mira i civili”. Come fonti e “prove” venivano prese come dati di fatto le dichiarazioni dei funzionari e dei militari israeliani senza mai che venissero messe in dubbio. “Prendete ad esempio l’articolo del 22 gennaio del NYT di David Leonhardt dal titolo “Il declino delle morti a Gaza” che vuole dimostrare (su fonti israeliane!) che le morti civili palestinesi si siano dimezzate dal mese precedente. Come se 150 morti invece che di 300 al giorno non sia un massacro!”.
L’operazione dei media occidentali che Lawrence analizza alla perfezione è stata quella di far credere che la storia abbia avuto inizio il 7 ottobre. Ci domanda: “Avete per caso letto la storia palestinese sui media italiani? Perché nei media statunitensi non è esistita”. Silenzio.
Il punto di non ritorno, Lawrence non ha dubbi, è stato il lavoro di Jeffrey Gettleman sui presunti stupri “come arma di terrore” da parte delle milizie di Hamas. “Ha infangato il nome del New York Times” e messo “in subbuglio il principale giornale statunitense”. “Tutte le affermazioni di quell’articolo che ha purtroppo fatto il giro del mondo e arrivato come mi dici anche nel vostro paese si basavano su illazioni ridicole, senza nessuna prova. Testimonianze inconsistenti e video che non dimostrano nulla. Fino al tonfo – prosegue Lawrence – della ‘donna con il vestito nero’, in riferimento a un cadavere trovato e filmato sul ciglio di una strada l’8 ottobre. Gli ultimi messaggi della donna smentiscono la ricostruzione del giornalista del New York Times, che ha subito anche gli attacchi della famiglia della donna di nome Abdush, che lo ha accusato di aver distorto le prove e di averle manipolate nel corso del suo reportage. “Blumenthal e Aaron Maté su The Grayzone, hanno iniziato a esaminare i servizi del Times sulle presunte violenze sessuali subito dopo la pubblicazione del primo articolo di Gettleman, il 4 dicembre. Vi invito a leggere il loro lavoro esaustivo. Non c’è veramente null’altro da aggiungere”.
Da quel reportage il giornale è esploso ed ha iniziato a cambiare rotta. “Il merito di Jeffery Gettleman è stato quello di aver alzato il velo di Maya di tutto il mainstream. CNN, The Guardian, MSNBC, PBS e altri ancora: tutti avevano seguito la stessa procedura riproducendo la storia dell’abuso sessuale sistematico così come gli israeliani l’hanno fornita.” Facciamo presente che anche i vari media italiani avevano fatto lo stesso.
Il merito di Gettleman è stato, dunque, quello di aver aperto uno squarcio e, sottolinea Lawrence, da allora il NYT ha iniziato a pubblicare reportage sulle barbarie dei coloni in Cisgiordania e addirittura i video “dei soldati israeliani: Che incitano alla distruzione e deridono i gazesi”. Perché ora? Gli domandiamo. Non ha risposte certe Lawrence, ma un riferimento storico illuminante indica il sentiero da seguire. “Come per il Vietnam, il Times iniziò a scrivere dei massacri nel sudest asiatico quando le oligarchie politiche di Washington iniziarono a dividersi. L’atmosfera a Washington sta cambiando. C’è una frattura a Capitol Hill che diventa sempre più evidente”.
Prima dell’inizio di una campagna elettorale negli Stati Uniti che vedrà inevitabilmente il genocidio a Gaza come uno dei temi di riferimento, l’atmosfera a Washington sta cambiando e si aprono spazi anche in Colonia Italia. Si spiegano così alcuni articoli più neutri di Repubblica, le prese di posizione del Pd e una differente percezione nel mainstream della questione. Perché, come spiega Lawrence, Israele ha chiesto ai suoi propagandisti qualcosa che non poteva essere accettato per un periodo lungo: mettere da parte il minimo senso del pudore etico e di umanità. Il regime israeliano ha rischiato e perso, mettendo l’occidente dinanzi ad un bivio tremendo della sua storia. Tutto questo è stato possibile grazie al coraggio del Sudafrica e di tutta la comunità internazionale, quella vera, che non si è mai piegata alle barbarie e alle tentate imposizioni. E la propaganda occidentale ne esce, nuovamente, sconfitta.
Campo profughi in Egitto per gli sfollati da Gaza segreto inconfessabile – Eric Salerno
Oltre settanta anni di storia segnata da milioni di persone costrette ad abbandonare le loro case, la loro terra. 58 campi profughi in tutta la Palestina e nei paesi vicini. Oggi ci sono 2,3 milioni di rifugiati palestinesi in Giordania, 1,5 milioni di rifugiati a Gaza, 870.000 rifugiati nella Cisgiordania occupata, 570.000 rifugiati in Siria e 480.000 rifugiati in Libano.
L’odio coltivato che moltiplica l’odio
Fadi Jamjoun aveva quaranta anni. Era nato e cresciuto nel campo profughi palestinese di Shuafat, incastrato tra la città santa – Gerusalemme – e l’insediamento israeliano di Pisgat Zeev, una delle tante colonie illegali secondo il diritto internazionale. Il luogo dove viveva o sopravviveva fu fondato dall’UNRWA nel 1965 per rispondere alla richiesta del governo giordano di fornire alloggi alle circa 500 famiglie di rifugiati che vivevano nel sovraffollato campo profughi di al-Mu’askar, nella Città Vecchia di Gerusalemme. Jamjoun, a giudicare dalla sua foto postata su un sito palestinese, era un uomo dedito alla religione.
Ieri, da solo, è sceso da una vettura con targa israeliana a una fermata degli autobus a Kiryat Malachi, non lontano da Ashdod, una città israeliana poco a nord di Gaza, e ha sparato contro quelli che aspettavano l’autobus. Due persone sono morte, altre tre o quattro ferite. E lui è stato ucciso da un giovane colono che si trovava sul posto e che era armato.
Il ministro seminatore al raccolto
Dopo le ambulanze e le forze di sicurezza israeliane, si è precipitato sul posto Il ministro della Sicurezza nazionale, l’estremista di destra Itamar Ben-Gvir, che tra le altre cose sostiene che bisogna rioccupare Gaza e impiantare nuove colonie ebraiche quando sarà finita la guerra. «Questo attacco dimostra ancora una volta che le armi salvano vite umane. Questo mese, ci sono state tutti i tipi di critiche su di me. Non solo non cederò alle critiche, ma amplierò la nostra politica per incoraggiare i cittadini di Israele a portare le armi».
«È così che dovrebbe essere a Gaza, è così che dovrebbe essere in Libano, è così che dovrebbe essere ovunque. Risposta audace, tolleranza zero, guerra fino alla distruzione. Distruggiamoli».
Campo profughi egiziano svelato
Poche ore prima la stampa americana aveva mostrato una serie di foto satellite per raccontare come l’Egitto stia creando un campo vicino al suo confine con Gaza, come contingenza per un potenziale esodo di palestinesi dall’enclave se Israele dovesse andare avanti, come appare sempre più probabile, con un’offensiva di terra su Rafah, la regione di confine dove più della metà della popolazione di Gaza si sta rifugiando.
L’Egitto nega ma scambia favori per sopravvivere
L’Egitto ha ufficialmente negato di aver fatto tali preparativi. Una affermazione in linea con la posizione pubblica ufficiale di essere veementemente contrario allo spostamento dei palestinesi fuori da Gaza. Le prove fotografiche indicano, però, che il primo paese ad aver firmato un accodo di pace con lo Stato ebraico – nell’ormai lontanissimo 1979 – si sta attrezzando rapidamente per bloccare il probabile esodo da Gaza.
Il New York Times conferma
ll quotidiano statunitense confermato il contenuto delle immagini e ha parlato con gli appaltatori del sito in costruzione in tutta fretta nel Sini, che hanno affermato di essere stati assunti per costruire un muro di cemento armato altissimo intorno all’appezzamento di terreno – cinque chilometri quadrati – nel Sinai vicino al confine di Gaza.
Un’altra gabbia, ma fuori da Israele
Da più di una settimana i leader di Hamas e di Israele, tramite americani, europei, arabi stanno negoziando al Cairo per concordare uno scambio ostaggi-prigionieri, per una tregua o fermare la guerra. Tra gli uni e gli altri non sembra che vi sia molto spazio per un’intesa, anche se Washington manda segnali positivi. Forse nel tentativo di trascinare il dialogo a ridosso delle feste islamiche del Ramadan, quando Netanyahu avrebbe promesso di concludere o sospendere i combattimenti.
I moderati scomparsi
Proprio ieri, però, Benny Gantz, ex capo di stato maggiore e uno dei suoi ministri della strana coalizione di estrema destra, è tornato a minacciare: se Hamas non accetta subito i termini per uno scambio, le forze armate israeliane attaccheranno Rafah «anche se sarà tempo di Ramadan». Della popolazione di Gaza, delle famiglie palestinesi accampate nella città a ridosso del Sinai egiziano non ha parlato. Ormai nessuno sembra essere capace, o volere, costringere Israele a fermare il suo micidiale assalto alla zona in cui si è spostata parte notevole della popolazione della Striscia.
Gabbia egiziana a sollecitazione Usa
E, così, il presidente al-Sisi avrebbe deciso: non sparare sui palestinesi per respingerli a morire a Gaza, ma accoglierli come animali in un grande corral da far-west, cemento invece di reticolato di legno o filo spinato. Un altro campo profughi con capacità, dicono i tecnici che stanno lavorando nel Sinai, per centinaia di migliaia di persone. Saranno accolte nelle tende che si stanno scaricando e che devono rapidamente allestire. Una soluzione provvisoria, con le solite garanzie americane, come dovevano essere provvisori i 58 campi situati in tutta la Palestina e nei paesi vicini.
Il diritto internazionale è morto a Gaza
Secondo il diritto internazionale, i rifugiati hanno il diritto di tornare alle loro case e alle loro proprietà da cui furono cacciati. Molti palestinesi dicono di sperare ancora di tornare in Palestina. Alle loro case e terreni in Israele, o almeno in uno Stato palestinese promesso loro molte volte ma sempre di fatto negato. Quei 2,3 milioni di rifugiati palestinesi in Giordania, il milione e mezzo -il 70 per cento dei residenti nella Striscia- rifugiati a Gaza, gli 870.000 nella Cisgiordania occupata, i 570.000 in Siria e i 480.000 rifugiati in Libano.
Popoli scacciati e terre rubate: ferocia antica nel più mite ‘pulizia etnica’ – Giovanni Punzo
L’espressione ‘pulizia etnica’ colse drammaticamente l’attenzione della comunità internazionale alla conclusione del ‘decennio balcanico’, ma in realtà si tratta di una tragedia antica e purtroppo ancora presente.
Di ‘pulizia etnica’ il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ne parla per la prima volta nel 1992. La pulizia etnica non è un crimine in quanto tale, ma, a seconda della portata e della gravità degli atti possiamo avere «crimini contro l’umanità», o «crimini di guerra».
‘Pulizie etniche’ nella storia
L’età moderna
Contrariamente all’immagine crudele e sanguinaria che secondo i contemporanei caratterizza l’antichità, i casi di popoli sterminati da altri per la loro diversità sono piuttosto rari. Non si trattava di un aspetto umanitario, ma semplicemente pragmatico: debellare un popolo sconfitto non era conveniente, perché era meglio assoggettarlo per ottenere dei tributi o schiavizzarlo per sfruttarne il lavoro coatto.
Le prime ‘pulizie etniche’ si verificarono in Europa, agli albori dell’età moderna e la più nota avvenne in Spagna contro arabi ed ebrei, che pure avevano contribuito con le loro competenze e i loro commerci alla prosperità del regno. Tra i cinquanta e i centomila ebrei spagnoli furono costretti ad abbandonare il regno nell’ultimo decennio del XV secolo, messi di fronte all’alternativa tra conversione o imprigionamento.
Cinquant’anni dopo l’Inquisizione rivolse la propria attenzione ai ‘moriscos’, ossia ai musulmani convertiti: a Granada un tentativo di resistenza armata fu stroncato duramente e i superstiti deportati o costretti alla fuga in Nord Africa.
In Germania, durante la Guerra dei Trent’Anni, si mescolarono spesso aspetti religiosi ed etnici: soprattutto in Boemia si tentò di sostituire con elementi tedeschi (cattolici) le popolazioni originarie (protestanti).
Un caso drammatico di ‘pulizia etnica’ si verificò in Irlanda durante la guerra civile inglese ad opera di Oliver Cromwell: in questa lotta si mescolarono infatti sia aspetti religiosi come il conflitto tra cattolici e protestanti, sia politici come la fedeltà al re o alla repubblica ed anche etnici, in quanto gli irlandesi erano gli eredi dell’antica cultura gaelica. Le conseguenze furono devastanti e provocarono la morte di circa trecentomila irlandesi.
«Ho dato la proibizione di risparmiare chiunque fosse in armi nella città e quella notte abbiamo passato per le armi circa duemila uomini …», riferì serenamente Cromwell al parlamento inglese dopo la caduta della città di Drogheda nel 1649.
La conquista degli imperi
Nelle conquiste coloniali si assisté al peggio del peggio. Gli spagnoli penetrarono dapprima nelle isole caraibiche, dove non si trovarono di fronte a stati, ma a piccole comunità spesso in disaccordo tra loro: fu sufficiente eliminare fisicamente le élite e sostituirsi al comando imponendo agli indigeni di lavorare nelle tenute o nelle miniere. Più complessa l’espansione nel continente latino-americano dove esistevano forme statali e di civilizzazione che, nei limiti delle loro capacità, tentarono di opporsi agli invasori.
Cortès, sfruttando abilmente le rivalità tra i diversi gruppi atzechi, fece in modo che si combattessero tra loro con una tale ferocia che fece indignare Bartolomé di Las Casas, vescovo di San Cristobal nel Chiapas: i ‘conquistadores’, che non poterono negare la sostanza dell’energica requisitoria del vescovo, si limitarono allora a contestarne solo i dettagli accusando gli indios di antropofagia. Anche dopo la decolonizzazione e la nascita di stati indipendenti, persecuzioni e stragi contro i nativi non cessarono, come nel caso dell’Argentina nelle sterminate pianure centrali.
Nel 1788 iniziò la colonizzazione inglese in Australia: fu subito chiaro che i nativi non erano in grado di opporre nessuna resistenza, ma sorse anche il problema di quale status assegnare agli aborigeni. I cacciatori-raccoglitori non erano insomma integrabili e in soccorso dei coloni si fece ricorso ad una distorsione delle teorie di Darwin che li convinse di trovarsi di fronte non a una razza, ma ad una specie diversa.
Nel 1889 l’Australia Occidentale ottenne l’autonomia, ma il governo di Londra mantenne le proprie competenze sulla popolazione aborigena: Westiminster, che si trovava comunque dall’altra parte del globo, non manifestò mai alcun interesse per la questione, nè concesse risorse aggiuntive per l’amministrazione. Solo nel 1972 si ottenne la concessione della piena cittadinanza e di una minimale forma di autogoverno, ma dall’altra parte continuò la discriminazione.
Gli Stati Uniti
Più complesso quello che avvenne nel Nord America. I primi episodi di pulizia etnica in Virginia e nel New England, già con spiccate caratteristiche di genocidio, risalgono al XVII secolo. I coloni continuavano ad affluire nel Nuovo Mondo, decennio dopo decennio: coltivavano le terre dei nativi, praticavano la caccia per il loro sostentamento e per rivendere le pelli sottraendo selvaggina agli indiani e costruivano villaggi e strade: le zone in precedenza abitate dai nativi finirono per degradarsi e le condizioni per la loro sopravvivenza peggiorarono. Nel 1617 John Winthrop, commentando un’epidemia di vaiolo che stava mietendo centinaia di vittime tra i nativi, disse che la mano di Dio stava creando nuovi spazi per i coloni riscuotendo approvazione da parte della comunità.
Paradossalmente la situazione si inasprì nel momento in cui in Europa si diffusero le idee illuministe: istruzione e civiltà insomma si potevano apprendere, ma la razza non poteva cambiare. Nel frattempo, a nord nel Canada, i nativi furono coinvolti anche nella guerra tra Francia e Inghilterra svolgendo ruoli di truppe ausiliarie, ma rendendosi anche responsabili di massacri e rappresaglie da ambo le parti che aumentarono la spirale di violenza. La nascita degli Stati Uniti non migliorò le cose: nonostante le buone intenzioni di Washington o Jefferson, i coloni si opposero sempre ai progetti di istruzione e integrazione.
Nel 1860 la popolazione nativa della California – territorio conquistato alla Spagna una decina di anni prima – si era ridotta da centocinquantamila unità a trentamila: il nuovo stato, che aveva sancito nella propria costituzione il suffragio universale maschile – principio molto avanzato per l’epoca –, condusse una politica segregazionista e ostile nei confronti degli indiani, prendendo però decisioni ‘democraticamente’. In altri stati di frontiera alcuni governatori inserirono lo sterminio degli indiani nei programmi elettorali o condussero violente campagne stampa.
Nel 1871, dopo un ennesimo massacro di nativi nei pressi di Tucson, il presidente Ulysses S. Grant intervenne di persona affinché i responsabili fossero processati: la giuria, dopo essersi riunita per venti minuti, assolse tutti gli imputati.
Prossimo futuro n. 160 19 – 25 Febbraio
Bollettino di informazione della redazione di Pressenza sugli eventi della prossima settimana. Inviare le notizie a redazioneitalia@pressenza.com entro la domenica prima dell’evento.
Speciale Assange giorno X
Reggio Emilia proiezione del film documentario “Hacking justice”
Il Movimento Free Assange e Amnesty Reggio Emilia in collaborazione con le Donne in Nero intendono mantenere alta l’attenzione delle cittadine e dei cittadini su questo caso emblematico in prossimità del cosiddetto “giorno X”: proiezione del film documentario “Hacking justice” lunedì 19, ore 21.00, al Circolo Arci “Pigal” (Via Petrella, n.2 Reggio Emilia)
Torino sede di Amnesty aperta per Assange
A Torino, lunedì 19 e martedì 20, la sede di Amnesty International resterà aperta in corso San Maurizio 12 bis: dalle 16:30 alle 19 gli attivisti propongono una foto-petizione a sostegno di Julian Assange e saranno a disposizione per fornire informazioni sulla campagna.
Free Assange: Eventi il giorno X, 20 Febbraio
Il Coordinamento No Green Pass e Oltre, martedì 20 febbraio alle 17.30, sarà in Piazza Ponterosso a Trieste per manifestare in appoggio al giornalista australiano Julian Assange, detenuto dal 2019 nel carcere inglese di Berlmarsh.
20/2 alle ore 16 presso l’Ambasciata britannica di Roma (a Porta Pia, via XX Settembre 68) e poi alle ore 17 a Milano davanti al Consolato britannico (Piazza del Liberty), a Napoli, ore 17, davanti al Consolato USA (Piazza della Repubblica, 2), e a Catania, ore 17, davanti alla Prefettura (Via Prefettura, 14). Perugia in piazza Italia alle 18.
Altre iniziative promosse da Amnesty international si possono vedere nella cartina qui: https://www.amnesty.it/free-julian-assange-mobilitazione-globale/
In occasione dell’udienza a Londra, che stabilirà se a Julian Assange possa essere dato il permesso di fare ancora appello contro l’estradizione negli USA, verrà proiettato il docufilm ITHAKA-A FIGHT TO FREE JULIAN ASSANGE
mercoledì 21 febbraio ore 19:00 a Monserrato (CA) via 31 Marzo 1943 n. 29
prenotazioni 3387131093
Dialogo interattivo “Fare pace, Costruire società” con Gianmarco Pisa
Mercoledì 21 Febbraio 2024 ore 16.00
Centro Studi Sereno Regis, via Giuseppe Garibaldi 13, Torino
Mercoledì 21 febbraio, dalle ore 16 alle ore 18, il Centro Studi Sereno Regis ospita il secondo appuntamento con Gianmarco Pisa, autore del libro “Fare pace, costruire società”. Un rinnovato momento di confronto nato dall’esigenza di dare seguito agli stimoli emersi durante il primo workshop, tenutosi in ottobre. Attraverso alcuni strumenti di dibattito nonviolento, i partecipanti avranno l’opportunità di condividere pensieri e idee, nonché dubbi e domande, sulle tematiche che Gianmarco Pisa tratta nel suo manuale. Nello specifico:
- prendere posizione nel conflitto: se si, quando e come?
- l’attivismo nonviolento: è efficace anche per gli oppressi?
- educazione alla pace e per la pace: qual è il ruolo dei media e dei social media?
- “de-costruire il sistema”: la giustizia sociale è un’utopia?
- evitabilità della violenza: la violenza non è mai la soluzione?
L’evento è gratuito e su prenotazione.
Per partecipare al laboratorio, iscriversi al link: https://forms.gle/kq61p2jiuDchEjYe8
Infoline: https://www.facebook.com/events/1125220605569092
Dal conflitto al confronto
smonta l’odio permetti all’empatia di giocare la partita della vita
19 Febbraio, ore 21 imparare a litigare bene l’arte e la spiritualità della CNV comunicazione non violenta a cura di Gabriella parissi educatrice e pedagogista e Giampaolo pancetti informatico diacono e spiritual councelor
incontri promossi da associazione vie nuove che si svolgeranno presso viale Giannotti 13 Firenze info 3283636770 vienuove@vienuove.it
Inaugurazione dello Scaffale dei libri della Nonviolenza
20 Febbraio 16,30-18,30 Biblioteca del Comune di Roma Ennio Flaiano – via Monte Ruggero 39 Roma
Inaugurazione dello Scaffale dei libri della Nonviolenza con la presentazione del libro IMPARIAMO LA NONVIOLENZA. La regola d’oro per tutte le età con l’autrice Federica Fratini; Intervengono Claudio Roncella de La Comunità per lo sviluppo umano, Paola Ilari, Vicepresidente e Assessora alle Politiche Educative e Scolastiche Municipio Roma III, Nastassja Habdank, Presidente della V Commissione Consiliare Permanente Municipio Roma III
Presentazione del libro di Gianmarco Pisa, Fare pace Costruire società. Orientamenti di base per la trasformazione dei conflitti e la costruzione della pace
Una proposta di «costruzione della pace con mezzi pacifici», di prevenzione della violenza e di trasformazione positiva del conflitto, nel senso della «pace con giustizia» e i diritti umani, per la costruzione di società democratiche, per la fratellanza e l’amicizia tra i popoli.
Dialogano con l’autore: Benedetta Pisani, Giorgio Barazza, Centro Studi Sereno Regis
Giovedì 22 febbraio 2024 ore 20.45
Anfiteatro Comunale
Piazza XXV Aprile, Robassomero (Torino)
La scheda del libro: https://multimage.org/libri/fare-pace
Infoline: https://www.facebook.com/bibliorobassomero
Tour italiano di tre attiviste nonviolente di Ucraina, Russia e Bielorussia
Nell’ambito della mobilitazione “Europe for Peace”, a un anno dall’invasione dell’Ucraina, il Movimento Nonviolento ospita in Italia tre esponenti dei movimenti per la pace e la nonviolenza dei paesi coinvolti nel conflitto: Kateryna Lanko (Ukrainian Pacifist Movement – Ucraina); Darya Berg (Go by the forest – Russia); Olga Karach (Our House – Bielorussia). Sono tre donne pacifiste che rappresentano i movimenti nonviolenti e degli obiettori di coscienza dei rispettivi Paesi (i maschi non possono uscire dai confini a causa del reclutamento militare).
Le date del Tour:
Fiumicino, lunedì 20 febbraio
Roma, martedì 21 febbraio
Roma, mercoledì 22 febbraio
Modena, giovedì 23 febbraio
Ferrara, giovedì 23 febbraio
Verona, venerdì 24 febbraio
Milano, sabato 25 febbraio
Brescia, domenica 26 febbraio
Un’altra visione del mondo
Critica dell’eurocentrismo e delle culture dominanti
Presentazione del libro Eurocentrismo di Samir Amin
Milano – giovedì 22 febbraio 2024 – ore 18.30
Libreria Popolare – Via Alessandro Tadino 18
Migramorfosi: apertura o declino
venerdì 23 febbraio alle 17,30 alla biblioteca delle Oblate di Firenze, all’interno della rassegna “Leggere per non dimenticare” ideata da Anna Benedetti, presentazione dell libro di Ferruccio Pastore “Migramorfosi: apertura o declino” edito da Einaudi con Tommaso Fattori.
24 febbraio Mobilitazione Nazionale per il cessate il fuoco in Palestina ed in Ucraina
La Rete Italiana Pace e Disarmo ha indetto una manifestazione nazionale “Fermiamo la criminale follia di tutte le guerre, la corsa al riarmo, la distruzione del Pianeta” Giornata nazionale di mobilitazione nelle città italiane per il CESSATE IL FUOCO IN PALESTINA ED IN UCRAINA
Tutti gli eventi sono segnalati e in aggiornamento qui
Pace & Giustizia in Medio Oriente
Sabato 24 Febbraio, ore 15 Salone dei Cinquecento, Palazzo Vecchio, Firenze
Luca Milani, Presidente del Consiglio Comunale e Rete Pace e Disarmo in Palestina invitano al dibattito con: Francesca Albanese, Relatrice sPseciale DDUU in Palestina dal 1967; Ruba Salih, antropologa; Mustafà Barghouti, membro del Consiglio Legislativo Palestinese; Sarit Michaeli, B’tselem, Ilan Mappé, storico.
Coordina: Manfredi Lo Sauro, Rete Pace e Giustizia in Medio Oriente
Eventi Casa della Pace La filanda Via Canonici Renani 8 Casalecchio di Reno (BO)
La settimana che va dal 19 al 25 febbraio è ricca di impegni vari e interessanti.
Cominciamo lunedì con la Professoressa Paola Galetti (Docente di Storia Medievale UNIBO) che ci parlerà di Matilde di Canossa; questo per conoscere a fondo questa straordinaria donna, ma soprattutto per essere preparati culturalmente, quando percorreremo a piedi l’itinerario Mantova-Lucca (forse Pisa).
Continueremo mercoledì 21 con Campi elettromagnetici, 5G e salute con un ricercatore dell’Istituto di Genetica Molecolare del CNR di Bologna, Fiorenzo Marinelli.
Venerdì 23 impegnativo alle ore 18,00 presenteremo il libro del giovane Alessandro Marchi “Tu non ci credere mai”, mentre alle 20,30 accoglieremo Lorena Fornasir e Gianandrea Franchi, i due medici che curano i piedi ai migranti della Rotta balcanica.
Sabato 24 alle ore 9,30 alla Casa per la pace ascolteremo la coraggiosa esperienza di Lorena e Gianandrea. Sono state invitate tutte le associazioni che si occupano di accoglienza
Infine domenica 25 alle ore 10 sempre alla Casa per la pace “L’intelligenza del cuore”, un viaggio tra scienza e meditazione con Roberta Roberto.
Info: Maurizio Sgarzi sgarzura@gmail.com
Presidio per Cutro
25 Febbraio 14.30 Largo Cairoli Milano
Un anno dopo basta morti in mare, ai confini, nei CPR organizzato dalla rete “Nessuna persona è illegale”.