Il giardino dei ciliegi
di Susanna Sinigaglia
Il giardino dei ciliegi
di Anton Čechov
Regia di Alessandro Serra
Il sipario si apre mostrando una stanza buia in cui sono distesi immobili, l’uno accanto all’altro, i personaggi. È una visione potente, onirica e angosciosa nello stesso tempo. È come se tutto fosse finito ancora prima di cominciare, il dramma si fosse già consumato; e lo spettacolo a venire sia solo una ricostruzione in feedback.
Perciò quando gli attori si dileguano e rientrano solo i primi due protagonisti si resta piuttosto sconcertati di fronte al loro un po’ banale, e frivolo, dialogo. E la stessa frattura si ripete per tutta la durata dello spettacolo. In un primo momento avevo giudicato molto male questa evidente dicotomia.
L’anno scorso ero andata a vedere Macbettu, versione del Macbeth in lingua sarda di Alessandro Serra, attratta da alcune caratteristiche dell’opera; soprattutto dal tipo di traduzione ma anche dalla ripresa di alcune figure del folclore dell’isola e dalla scelta di figure maschili per l’interpretazione di quelle femminili che avrebbe portato un altro elemento di forte innovazione e suggestione all’opera shakespeariana. E infatti ne ero rimasta entusiasta: questo sì che è teatro – avevo pensato dopo la visione di Macbettu – finalmente una compagnia italiana che sa interpretare Shakespeare e il suo linguaggio!
Avevo anche molto apprezzato alcuni passaggi della presentazione scritta dallo stesso Serra. “Le parole devono uscire dall’attore non dal personaggio: è l’attore che deve parlare, deve cantare… Dire e non recitare, cercando la vitalità della lingua parlata… Il suono della lingua veicola l’immagine…”.
Nel Giardino di Serra, invece, la frattura fra testo recitato e immagini è flagrante; come se sulle sequenze di un film si fossero sovrapposti i dialoghi di tutt’altro film.
Le immagini hanno una forte impronta surreale, gli oggetti di scena, le luci, i chiaroscuri evocano il teatro di Becket, Kantor, Grotowski che sono, infatti, i riferimenti del regista mentre il tipo di recitazione è simile a quello che si è già sentito e risentito perché Strehler e il suo Giardino han fatto scuola.
In un secondo momento però, mi è sembrato di capire l’intenzione di una tale dicotomia che forse dicotomia non è. Forse è il risvolto di una stessa medaglia. Le immagini surreali fanno da contrappunto ai dialoghi e ne mostrano la vanità, la mancanza di presa sulla vita reale che va in una direzione che porterà i personaggi sempre più lontano dal vagheggiato mondo aristocratico di cui è simbolo il giardino dei ciliegi (che non si vede mai, resta sempre nascosto dietro la parete del fondale).
Alla fine i ciliegi vengono tagliati e la casa acquistata da Lopachin, il figlio del contadino diventato mercante, rappresentativo suo malgrado di quell’avida borghesia della cui voracità abbiamo visto nel secolo scorso, come vediamo oggi, gli esiti devastanti. Nella casa ormai deserta resta solo, dimenticato, il vecchio servo con il suo carico di dolori e di ricordi.