Il gioco della guerra, di Philip K. Dick

di Mauro Antonio Miglieruolo

Adesso so e sono implacabilmente certo di quel che affermo. Dick non è dei nostri. Delle due ambedue: o si tratta di un agente segreto di Ganimede oppure di una mostruosa emanazione intellettuale, super mutante, cyborg o posseduto che dir si voglia, al servizio della massoneria plutocratica bancaria globale (personalmente preferirei fosse la prima quella giusta). A meno che non sia anche una terza cosa, meno probabile, ma comunque plausibile: uno scrittore impazzito non più in grado di dominare ciò che scrive; o quantomeno incapace di comprendere dove sta andando a parare. Nel qual caso, pur non potendo correggere ciò su cui sta lavorando

(i racconti sono creature terribili, eterni adolescenti ribelli, non fanno mai quel che l’autore vorrebbe facessero, ma sempre quello che garba loro. E loro hanno la inveterata abitudine a procedere in coerenza con le VERE intenzioni di chi li ha concepiti, non con le intenzioni che il concepitore confessa a se stesso. Pretendono inoltre di imporsi, che sia dato loro retta, altrimenti sono guai. Si guastano e iniziano a sviluppare, contro chi avuto cura di metterli al mondo, un enorme commercio di opinioni denigratorie con il pubblico. Si tratta di disfunzioni che una volta percepite risultano rovinose per la fama, la rispettabilità, la credibilità e il prestigio del povero genitore),

potrebbe quantomeno correggere se stesso, nel senso di farsi più prudente e scandagliare meglio nelle proprie opinioni, sulle nascosto delle intenzioni e l’autenticità delle aspirazioni.
05nov-dickmagesPersonalmente ritengo Dick sia una cellula ideologica dormiente del terrorismo finanziario mondiale che non si è mai svegliata. Neppure quando l’FBI lo ha stuzzicato per saggiarne le reazioni. Si sa gli scrittori, come tutti gli artisti, sono imprevedibili, pretendono di capirne più degli altri (purtroppo non solo in letteratura) e hanno la spiacevole tendenza a lasciarsi influenza dalle “atmosfere” più che dai fatti. Le “atmosfere” sono il percepibile di un’epoca, una sorta di riassunto veritiero di ciò che sta succedendo; i fatti invece ciò che le oligarchie costruiscono e gettano sui piedi delle masse per condizionarne (guidarne?) il cammino.
Per convincersi di quanto affermo basta gettare un’occhiata non troppo distratta su “Il gioco della guerra” (Fanucci, Tutti i racconti 1955-1963, febbraio 2012, pagg. 483/499), bellissimo racconto al cui significato profondo in verità sono arrivato a comprendere solo in seguito a una terza lettura. Bello perché ben costruito, privo di eccessive sbavature e di evidenti torsioni per fargli assumere un andamento di comodo. La presenza del deus-ex-machina, gioia e dolore della narrativa fantascientifica, quasi non si avverte (parlo dell’ipotesi di comodo che permette all’affabulazione di avere luogo), il tutto appare verosimile, permette una identificazione apprezzabile, diverte e fornisce anche di che pensare: opportunità consustanziale alla narrativa fantascientifica.

Narra il lavoro di collaudo che alcuni funzionari dell’Ufficio Terrestre di Importazione svolgono sui giochi che il pianeta ostile Ganimede (satellite mediceo di Giove, nemico della Terra) chiede siano autorizzati a commerciare sulla loro pianeta. I funzionari sanno che dentro questi giochi i ganimediani sogliono inserire veri e propri Cavalli di Troia tendenti a compromettere le difese terrestri. La loro attenzione si concentra su un gioco di guerra nel quale dieci mini soldati in termoplastica indistruttibile, alti quindici centimetri, vengono lanciati all’assalto di una cittadella fortificata. Il gioco presenta aspetti preoccupanti. I soldatini iniziano a sparire, con velocità crescente, senza che si riesca, non nell’immediato, a capire in quale modo. Mentre studiano il gioco dei soldatini iniziano l’esame di un secondo, un gioco simile al Monopoli che, considerata la sua natura e la preoccupazione prevalente per il gioco di guerra, testano con relativa disattenzione. L’esame di quest’ultimo, il gioco di guerra, nonostante produca momenti di straordinaria tensione, finirà con il rivelarsi innocuo. Uno degli esaminatori però non nasconderà la propria inquietudine in merito. Ammette anche lui che probabilmente è innocuo, ma lo complessità del gioco medesimo impone prudenza, quantomeno una ulteriore pausa di riflessione. Quel che però effettivamente lo preoccupa è la singolare sensazione che la effettiva pericolosità del gioco stia in una sorta di funzione di “depistaggio”, della quale non ha chiara la natura. Viene deciso di metterlo in quarantena in attesa di ulteriori approfondimenti. Del gioco del Monopoli (che Dick definisce “della Sindrome”) invece si autorizza l’importazione. Si tratta di un passatempo palesemente innocuo, adattissimo ai bambini.

05nov-Dick-Tutti i Racc-1955-1963
Nel finale un certo Hauck, direttore di un negozio di giocattoli, porta a casa una copia abusiva della Sindrome che regala ai suoi bambini. È a quel punto che si scopre l’insidiosa ideologia che la “Sindrome” nasconde. Vincitore non è chi accumula più proprietà, ma chi se ne spoglia. La morale è che perdere è bello. Dick ci tiene a specificare che in quel modo i giovani imparano a “cedere con naturalezza i loro averi. Davano via le proprietà e il denaro con avidità, in una sorta di trepido abbandono.” In precedenza, qualche paragrafo prima, aveva fatto dire a uno dei ragazzi impegnati nella competizione che “bisogna disfarsi dei propri averi. Sei fuori del gioco papà”. Questo ribaltamento del meccanismo del gioco, che a ben guardare costituisce l’essenza del punto di vista borghese su ciò che è il comunismo (che non è pauperismo, come mostrano di credere i tuttologi televisivi, ma il regno dell’abbondanza messo a disposizione di tutti), svela la vera essenza dell’ideologia borghese (che palesemente Dick condivide), che è, prima di ogni altra cosa, identificazione dell’essenziale di una persona nella proprietà privata. Di più: i due giochi sono opposti nel convergere sul medesimo valore di fondo, che l’uno in positico (il Monopoli) l’altro in negativo (la Sindrome) contribuiscono a valorizzare. L’uomo è ciò che possiede, ed è se possiede. Infatti è un individuo con il culto dell’individualismo, non un uomo che fa propri determinati valori, che lavora per l’ulteriore umanizzazione dell’umanità. In quest’ottica il modello d’uomo vincente, l’uomo perfetto, è colui che oltre ad avere, dimostra d’essere capace di accumulare. Cioè di togliere al prossimo per aumentare se stesso. Se questa capacità è inibita (come avviene nelle costituende società socialiste) è inibita anche la costituzione dell’uomo in cittadino, la formazione della sua personalità, la possibilità (metaforica nel nostro caso) di concepire la possibilità di difendersi. D’altronde sono i piccoli proprietari delle colonie inglesi che promuovono la guerra, e la vincono, contro la madrepatria. La Gran Bretagna (una sorta di Ganimede del Settecento) perde quella guerra perché i coloni non accettano di spogliarsi di parte dei loro beni a beneficio degli insidiosi espropriatori d’oltreoceano.

i05Nov-dickndexIl racconto dunque si caratterizza per l’accentuata valorizzazione della proprietà privata, per la cosale identificazione del bene con la capacità di autodifesa. Solo chi sa difendere la proprietà delle azioni, delle case, dei terreni e del danaro saprà anche rivelarsi buon patriota, ottimo difensore dell’intangibilità della Terra contro i complotti e i Cavalli di Troia giocattoli che Ganimede invia nella speranza di scardinarne le difese materiali insieme alle difese psicologiche. Dick, insomma, stabilisce sembra credere che l’inclinazione a disperdere i beni equivalga all’incapacità di difendere il territorio. Un’equazione arbitraria che non dà voce a nessuna effettiva preoccupazione e pratica sociale. È pura ideologia, astratta credenza. Non si capirebbe altrimenti perché la difesa della “patria” (che nella maggioranza dei casi è un eufemismo con la quale si nasconde la violazione di quella altrui) sia affidata proprio a coloro che per lunga secolare prassi sono stati educati a accettare di doversi privare di tutto, di perdere persino i beni essenziali per la sopravvivenza. Se fosse vero l’assunto su cui Dick costruisce il racconto, non si capirebbe l’atteggiamento della classe dominante che da una parte espropria quotidianamente i lavoratori del frutto del lavoro, cioè li educa a accettare, anzi a considerare inevitabile tale espropriazione (li prepara, secondo l’assunto di Dick, a lasciarsi spogliare anche della sovranità, ove il “nemico”, cioè un altro capitalista, decidesse di attaccare); mentre dall’altra li usa massicciamente quando gli è necessario per l’attuazione delle varie operazioni militari con le quale espande la propria area di influenza.
Non rimprovero Dick di questa sua (più o meno segreta) convinzione. La svelo soltanto. Che non vorrei qualcuno estendesse abusivamente ciò che di positivo ha fatto per ampliare (mettendo in dubbio le concezioni che ne avevamo) il principio di realtà a ciò che invece sempre più chiaramente appare essere la sua posizione sul piano umano sociale; la dove in diversi racconti e su differenti questioni sociali (particolarmente pernicioso ciò che è capace di dire sulle donne) ha invece assunto posizioni apertamente conservatrici, se non reazionarie. Lo scopo primo comunque è illustrare la dinamica nascosta (ma non tanto nascosta) di un racconto che, pur se ben costruito, è costruito su falsi assunti (diciamo, paranoici? La paranoia è parte del sistema di potere, di qualsiasi potere, anche di un potere borghese esercitato da persone che si considerano comuniste e portano avanti con equivoca sincerità un progetto che ingenuamente considera comunista – Stalin), assunti che è bene rivelare. Non si tratta, si badi, di svelare il segreto di Pulcinella della forte vocazione ideologica della fantascienza, della quale “Il gioco della guerra” rappresenterebbe una sorta di esemplare paradigma. Lo scopo è di avvicinare, chi desideri interessarsene, al modo con il quale vengono costruiti e si autocostruiscono i racconti di fantascienza: intorno a un nodo ideologico che però, come è nel caso, non ha una sola determinazione. Ne ha diverse, come diverse sono quelle di “Il gioco della guerra”: una apparente contro la guerra; una seconda più sostanziosa sulle trappole che gli uomini costruiscono per ingannarsi reciprocamente; una terza implicita e robusta sulla necessità di prendere posizione e posizione favorevole alla propria parte; una quarta (determinazione che somiglia molto a quella delle “donne del velo” di dantesca memoria) sull’influenza che l’avidità ha l’egoismo nel determinare le scelte complessive, stravolgendo la razionalità delle stesse; nonché una quinta (forse ne esistono altre: quest’ultima che elenco mi sembra essere la più importante) fondata sulla concezione dominante di ciò che è l’uomo. Che non è il lavoro, identificato erroneamente come etica della borghesia, ma il guadagno e l’accumulo di guadagni, la cui profondità in quanto ispiratrice dell’ideologia dominante appare appunto nel racconto di Dick. È di Dick. Il quale purtroppo, eguale in questo a tanti altri scrittori di fantascienza, non si pone domande sulla coerenza e sul valore effettivo delle idee attorno alle quali costruisce i propri racconti (eppure dovrebbe saperlo, come ho accennato, che si tratta dell’elemento trainante di questa forma letteraria! Lo è almeno nella convinzione di molti, e con una certa tiepidezza nella mia). Evita di porsele non per cattiva volontà, ma per non dover affrontare un enorme lavoro di ristrutturazione del pensiero e della personalità; lavoro che ordinariamente gli esseri umani, se non vi sono costretti, evitano di affrontare.
Non aggiungo altro (non occorre) continuo nella rilettura della cospicua produzione del grande statunitense. Ci sarà modo di aggiungere altro quando mi imbatterò in qualcosa che provocherà il mio interesse: la mia inesausta voglia di parlare di questo per molti versi straordinario autore. Di Philip K. Dick.

Miglieruolo
Mauro Antonio Miglieruolo (o anche Migliaruolo), nato a Grotteria (Reggio Calabria) il 10 aprile 1942 (in verità il 6), in un paese morente del tutto simile a un reperto abitativo extraterrestre abbandonato dai suoi abitanti. Scrivo fantascienza anche per ritornarvi. Nostalgia di un mondo che non è più? Forse. Forse tutta la fantascienza nasce dalla sofferenza per tale nostalgia. A meno che non si tratti di timore. Timore di perdere aderenza con un mondo che sembra svanire e che a breve potrebbe non essere più.

  • Ieri ho cercato di leggere il post di Mauro Antonio e “il sistema” (oh) mi impediva di aprirlo: subito ho pensato a una beffa (dada) di Mau. Invece stamattina scopro che il testo c’era ma era “tecnicamente” invisibile. Ma adesso che il problema è “risolto” e l’ho letto, intuisco che si è trattato di una vendetta di Philip contro Mau per qualcosa tipo “lesa maestà”. Un testo molto interessante e provocatorio ma sono d’accordo solo in parte con Mau. Mi sto per buttare nella nebbia imolese ma quando torno (se torno: la nebbia spesso inghiotte chi non l’ama e ne risputa solo i calzini) provo a” difendere “il mio amato Pkd. Non che ne abbia troppo bisogno: le incoerenze sono un diritto umano…

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