Il lavoro che uccide

di Umberto Franchi. A seguire un articolo ripreso da riforma.it

PERCHE’ CONTINUANO GLI OMICIDI SUL LAVORO ?  CHE FARE ?

Nei primi 7 mesi dell’anno 2022 (da gennaio a luglio) le morti sul lavoro sono state 569, con una diminuzione rispetto allo stesso periodo del 2021 del 16% , dovuta  soprattutto alla riduzione dei morti per covid dei lavoratori nel comparto sanitario.

Anche se le morti sono in calo aumentano gli “infortuni” di ben il 41% con la cifra enorme di 441.431 infortuni, sempre nei primi 7 mesi dell’anno 2022.

Nonostante siano  trascorsi 28 anni dal recepimento delle Direttive Europe attraverso la legge 626 e la successiva 81 del 2008 (Testo Unico sulla Sicurezza) continua lo stillicidio di gravi incidenti e con una media di 3 morti a giorno sul lavoro.

Dobbiamo quindi domandarci quali sono le cause ? Cosa  fare ?

Ho svolto per anni incarichi sindacali in CGIL ai vari livelli (provinciale, regionale, nazionale) di diversa natura e anche come responsabile nella categoria dei Chimici, in quella dei metalmeccanici e Confederale sulla sicurezza nei luoghi di lavoro. Quindi le mie considerazioni sulle cause – e sul cosa fare – partono dalle mie esperienze.

Queste le mie considerazioni :  

 

  • Primo: Gli aspetti fondamentali della legge 81 “Testo Unico Sulla Sicurezza” si basano su un sistema di prevenzione partecipativa che coinvolge cinque diversi soggetti : il datore di lavoro, il responsabile alla prevenzione e protezione dell’azienda, il medico competente, RLS (cioè Rappresentanti Lavoratori alla Sicurezza) e l’insieme dei lavoratori. In realtà quel che avviene nella valutazione dei rischi e nell’eventuale programma di interventi da effettuare per eliminarli viene effettuato in modo sostanzialmente burocratico al fine di riempire gli appositi moduli e mettere in regola l’azienda con “la legge” senza coinvolgimento delle RSU, cioè le rappresentanze sindacali, e soprattutto senza il coinvolgimento reale dei lavoratori. Quindi le RLS quando vanno al confronto con gli altri soggetti (datore di lavoro, RPP, medico competente) rischiano di non avere le giuste conoscenze provenienti dai lavoratori e dalla valutazione dei rischi esistenti, restando subordinate alle indicazioni degli altri soggetti, tutti legati all’interesse della parte “datoriale”.

 

  • Secondo: l’altra riflessione che dobbiamo fare riguarda la qualità dei processi produttivi e degli interventi necessari alla prevenzione.

 

  • Sappiamo che la stragrande maggioranza degli “infortuni” è dovuta al mancato rispetto delle norme e delle regole nonché dalla qualità dei processi produttivi e dell’organizzazione del lavoro. Se verifichiamo con attenzione la qualità e l’incidenza degli incidenti, ci accorgiamo che avvengono in stragrande maggioranza fra i precari, quelli che lavorano in appalto e subappalto, nelle false cooperative, nelle piccole  aziende… dove spesso le imprese per incrementare produttività nonché profitti tolgono perfino le misure protettive sugli impianti. Inoltre molti lavoratori finito il proprio turno continuano con gli straordinari per arrotondare il salario, aumentando i rischi a causa della stanchezza. E’ quindi del tutto evidente che non basta la definizione delle norme di sicurezza in modo burocratico, ma è invece necessario intervenire “mettendo le mani” nella qualità dei processi industriali, negli orari di lavoro e salari, in quelli produttivi ed organizzativi, nonché su una adeguata formazione, informazione e addestramento dei lavoratori interessati.

 

  • Terzo: certo le strategie industriali non sono identiche e sicuramente vi sono anche imprenditori che spendono risorse verso ricerca, innovazione tecnologica dei processi e dei prodotti , puntando a qualità ed efficienza con un occhio di riguardo anche  gli investimenti da destinare alla prevenzione … però la maggioranza delle imprese italiane vedono ancora gli investimenti da destinare a prevenzione e sicurezza come costi aggiuntivi da evitare o limitare. Inoltre  cercano di risparmiare sul costo del lavoro, adottando un modello organizzativo con molti lavoratori flessibili, precari, senza diritti.  Un esempio macroscopico lo troviamo nella cantieristica navale dove per ogni lavoratore fisso ve ne sono almeno due assunti a tempo determinato o in false cooperative, o in appalto, o in affitto, o occasionali sempre con contratti “pirata” senza diritti e paghe di merda. Questi lavoratori non solo sono costretti ad accettare condizioni di lavoro vessatorie ma spesso anche ogni sorta di ricatto perché se reclamano, magari ricorrendo alla RLS, vengono licenziati.

 

  • Quarto: da troppo tempo assistiamo a una logica imprenditoriale e governativa che considera il lavoratore “merce”: una impostazione ideologica liberista che vede i lavoratori con contratti a tempo indeterminato come privilegiati e corporativi. Ed è per questo che in Italia nel febbraio 2003 Berlusconi varò la legge “Biagi” che prevede ben 45 forme di lavoro flessibile e precario; legge che non è stata abolita da nessun governo di centrodestra o di centrosinistra ed è ancora in atto. Così il 75% di tutti i nuovi assunti avviene tramite la legge “Biagi”. Poi il 29 agosto 2014 (quando gli operai erano ancora in ferie) Renzi ha abolito l’articolo 18 dello Statuto dei Diritti dei Lavoratori in attuazione del Jobs Act,  dando la possibilità alle imprese di licenziare senza un giusto motivo anche i lavoratori con contratto fisso a tempo indeterminato.  Il fatto che le imprese abbiano ottenuto di licenziare “liberamente” non ha portato più occupazione come andavano dicendo ma solamente più ricatti, infortuni e  morti sul lavoro.

Fatte le suddette considerazioni credo che oggi dobbiamo prendere atto che il modello di sviluppo economico (che si è gradualmente affermato negli ultimi 30 anni) ha una logica perversa: nei luoghi di lavoro, anziché prevenire i rischi mette in conto circa 1400 morti ogni anno. In sostanza si è affermato un modello di sviluppo  economico profondamente distorto che si basa sulla centralità del profitto a danno della qualità del lavoro e soprattutto della vita.   

Quello che serve nasce quindi dalla situazione sopra descritta, ed è il governo reale dei processi produttivi eorganizzativi, con un Sindacato che non lasci sole le RLS e i lavoratori ma si prefigga di contrattare nel profondo le necessarie modifiche organizzative (compresi gli orari di lavoro) nei processi lavorativi, gli investimenti di prevenzione alla fonte sugli impianti, l’abolizione della legge “Biagi” , la reintroduzione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, il disconoscimento dei sindacati non rappresentativi e i loro contratti pirata.

Di fronte al suddetto scenario è il sindacato confederale e di categoria che deve intervenire a partire dai luoghi di lavoro.

Ma per avere risposte certe con la riduzione degli “infortuni” e dei morti sul lavoro bisogna ritornare al metodo adottato negli anni 70 . Occorre:

  1. Fare assemblee in ogni reparto, promosse da sindacato assieme alle RSU/RLS, al medico competete e ai periti dei servizi di medicina del lavoro, dove (anche tramite questionari) si individuano i rischi esistenti negli impianti, nell’ambiente, nei processi produttivi ed organizzativi…  valorizzando la partecipazione e la soggettività dei lavoratori;
  2. Successivamente il servizio di medicina del lavoro della ASL deve procedere all’indagine tecnica e medica, a partire dalle indicazioni pervenute dai lavoratori;
  3. Svolta l’indagine e scritta la relazione tecnica e medica è necessario aprire un confronto con la direzione aziendale, per contrattare tutti gli interventi di prevenzione e sicurezza previsti, da effettuare senza limitare i costi, sviluppando il conflitto se necessario;
  4. Infine occorre che i lavoratori rifiutino ogni forma di lavoro a rischio, ma per poterlo fare è necessario ripristinare l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e abolire la legge 30 detta “Biagi”.

Se di lavoro si muore, ci si ammala e ci si ferisce

della redazione di riforma.it

Ogni giorno il numero di morti sul lavoro cresce, come aumentano – dai dati resi noti dall’Inps e dall’Inail – gli infortuni e le malattie 

Altri due operai sono morti ieri sul lavoro. Un operaio di 21 anni, invece, è in fin di vita dopo essere caduto in un silos mentre stava eseguendo lavori di manutenzione: «Un bollettino di guerra, che purtroppo non conosce sosta – ricorda Marco Bazzoni, operaio metalmeccanico e Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza che documenta le morti sul lavoro –. Non fredde statistiche, non numeri, ma persone che avevano dei sogni, che avevano degli hobby, che avevano una vita. Lo voglio ricordare a chi continua a parlare sempre e solo di numeri, quando accadono queste tragedie sul lavoro».

Vero, eppure le statistiche e i numeri fanno rabbrividire, soprattutto se come ricorda Bazzoni ai numeri si affiancano nomi di persone, di padri, di mogli e figli colpiti da questa tragedia. 

«Le denunce di infortunio sul lavoro presentate all’Inail tra gennaio e luglio sono state 441.451: +41,1% rispetto allo stesso periodo del 2021, 569 delle quali con esito mortale (-16,0%). In aumento le patologie di origine professionale denunciate, che sono state 36.163 (+6,8%)», a ricordarlo è il sito di Rainews

Nei sette mesi presi in considerazione, dunque, è stato registrato, «un deciso aumento delle denunce di infortunio, dovuto in parte al più elevato numero di denunce di infortunio da Covid-19 e in parte alla crescita degli infortuni tradizionali’ un calo di quelle mortali (per il notevole minor peso delle morti da contagio».

Entrando nel dettaglio dei dati resi noti dall’Inps si rileva ancora che, le denunce di infortunio (su sette mesi) rese note lo scorso luglio sono state «441.451, in aumento del 41,1% rispetto alle 312.762 dei primi sette mesi del 2021 (+52,8% rispetto alle 288.873 del periodo gennaio-luglio 2020 e +16,6% rispetto alle 378.671 del periodo gennaio-luglio 2019). 

I dati rilevati al 31 luglio di ciascun anno evidenziano a livello nazionale per i primi sette mesi del 2022 un incremento rispetto al pari periodo del 2021 sia dei casi avvenuti in occasione di lavoro, passati dai 273.282 del 2021 ai 392.516 del 2022 (+43,6%), sia di quelli in itinere, occorsi cioè nel tragitto di andata e ritorno tra l’abitazione e il posto di lavoro, che hanno fatto registrare un aumento del 23,9%, da 39.480 a 48.935.

Nello scorso mese di luglio il numero degli infortuni sul lavoro denunciati ha segnato un +38,8% nella gestione Industria e servizi (dai 265.499 casi del 2021 ai 368.545 del 2022), un -4,2% in Agricoltura (da 15.450 a 14.798) e un +82,7% nel Conto Stato (da 31.813 a 58.108)».

Si osservano incrementi generalizzati degli infortuni in occasione di lavoro in quasi tutti i settori produttivi, in particolare nella Sanità e assistenza sociale «(+143,4%), nel Trasporto e magazzinaggio (+137,1%) e nelle Attività dei servizi di alloggio e di ristorazione (+85,2%). L’analisi territoriale evidenzia un incremento delle denunce di infortunio in tutte le aree del Paese: più consistente nel Sud (+58,1%), seguito da Isole (+54,3%), Nord-Ovest (+48,6%), Centro (+44,0%) e Nord-Est (+23,6%). Tra le regioni con i maggiori aumenti percentuali si segnalano principalmente la Campania (+105,5%), la Liguria (+69,6%) e il Lazio (+66,6%)».   

L’aumento – aggiunge la nota dell’Inps – che emerge dal confronto di periodo tra il 2022 e il 2021 «è legato sia alla componente femminile, che registra un +67,1% (da 112.829 a 188.509 denunce), sia a quella maschile, che presenta un +26,5% (da 199.933 a 252.942). L’incremento ha interessato sia i lavoratori italiani (+44,1%), sia quelli extracomunitari (+28,8%) e comunitari (+23,6%). Dall’analisi per classi di età emergono incrementi generalizzati in tutte le fasce. Quasi la metà dei casi confluisce nella classe 40-59 anni».

Le denunce di malattia professionale protocollate dall’Inail nei primi sette mesi del 2022 sono state «36.163, in aumento di2.298 casi (+6,8%) rispetto allo stesso periodo del 2021 (10.958casi in più, per un incremento del 43,5%, rispetto al pari periodo del 2020 e 2.338 malattie denunciate in meno, con una riduzione del 6,1%, rispetto al periodo gennaio-luglio 2019). 

Le patologie del sistema osteo-muscolare e del tessuto connettivo, quelle del sistema nervoso e dell’orecchio continuano a rappresentare le prime tre malattie professionali denunciate, seguite dai tumori e dalle malattie del sistema respiratorio».

Questa amara vignetta è di Vincenzo Apicella.

 

 

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