Il lavoro è schiavitù anche in Europa?
da «Vite senza permesso» (Emi) cioè «Interviste ad ambulanti immigrati» di Manuela Foschi
Sono in fila allo sportello “immigrati” di un piccolo comune romagnolo. Devo incontrare una mediatrice culturale cinese e non so più qual è il mio turno. Chiedo al signore cinese che siede di fronte a me. Dapprima non capisce la domanda e mi dice che dentro c’è il figlio. Poi sorride. Gli chiedo il nome e ci presentiamo.
Vorrebbe parlare, ma non sa come fare, conosce poco l’italiano.
Gli domando: “Da quanto tempo è qui?”. Tira fuori un foglio azzurro con la fototessera e me lo mostra. È il suo permesso di soggiorno. Gli dico grazie e faccio capire che non mi interessa. Mi offre una sigaretta. A un certo punto esce la mediatrice culturale che stavo aspettando e, dopo un breve scambio d’informazioni, si rende disponibile (circa tre ore) a fare da interprete.
“Sono nato il 20 maggio 1963 nella popolosa provincia di Fujian, con 4-5 milioni di abitanti, di fronte a Taiwan. Abitavo in un paese di campagna e insegnavo scienze nelle scuole medie. Mi piaceva molto finché non è arrivato il mio secondo figlio. In Cina c’è la legge di pianificazione delle nascite. Per il secondo figlio è necessario ottenere il nullaosta. Quello regolare è possibile averlo solo se il primo figlio è handicappato o ha altri problemi, altrimenti si pagano sanzioni molto alte. Così ho iniziato a comportarmi come tutti i miei colleghi che hanno avuto due figli. Ho iniziato a fare il ruffiano con il funzionario che metteva il timbro del nullaosta. Sono andato a trovarlo e ogni volta mi chiedeva tre o quattro volte il mio stipendio. L’ultima volta ha promesso che non c’era problema e che mi avrebbe fatto il timbro entro un mese. Guadagnavo 100 yen al mese, circa 10 euro. Mia moglie, insegnante elementare, aveva già perso il lavoro. Non aveva accettato di abortire nonostante pressioni di persone specializzate in quella pratica. Aspettai il secondo e il terzo mese, ma il timbro non arrivava mentre il bambino stava per nascere. Un amico mi disse che non avrei dovuto pagare il funzionario prima di ricevere il timbro ma ormai era tardi. Per evitare le spese e soprattutto per non essere identificati, il medico consigliò di partorire a casa. Da quel momento iniziò la nostra odissea”.
La moglie di Shaohan ha un parto molto difficile, ha un’emorragia e sarà portata d’urgenza in ospedale dove per fortuna si salverà, ma le spese sanitarie per questo intervento, che non ha alcuna copertura pubblica trattandosi del secondo figlio, sono cospicue. Shaohan come insegnante, da quel preciso istante, perderà tutti i punteggi e i gradi conquistati in anni di lavoro e non avrà alcuna possibilità di carriera. Il suo stipendio diminuirà e i colleghi lo isoleranno completamente. Siamo all’inizio degli anni ’90.
Visibilmente turbato, Shaohan continua.
“Ero diventato pericoloso, un traditore. Il sistema comunista cinese è molto corrotto (lo sottolinea più volte). È basato tutto sulle relazioni con le persone. Se hai appoggi e conosci qualcuno in alto sei salvo, altrimenti ti fanno morire. Già guadagnavo poco, pensate dopo quell’avvenimento. La nostra famiglia aveva appezzamenti di terra dove coltivavamo riso e tabacco, ed era una fortuna dato che i miei soldi non bastavano per vivere. Ero l’unico a lavorare, una situazione molto difficile. Per anni è stato così. Da noi in Cina con mille euro ci si può considerare una famiglia benestante. Noi invece avevamo accumulato un debito di quella cifra”.
Shaohan prende la decisione di lasciare la Cina. Emozionato ed eccitato, narra l’inizio della nuova avventura.
“Ho chiesto un visto di tre mesi. Me lo hanno dato per l’Ungheria. Eravamo in due e abbiamo preso un treno per l’Europa. Prima di arrivare ci hanno bloccato due volte. In Ungheria ci hanno fermato e portato direttamente in un campo di concentramento, scusa si dice Cpt. Si mangiava pochissimo e cose davvero strane. Per fortuna c’era l’interprete. Non capivo nemmeno dove mi trovavo. Così gli dissi che avevo fame e chiesi cibo cinese. Gli ho dato 10 dollari, in tutto ne avevo 110. Quando mi ha portato da mangiare ne ho approfittato per chiedergli il nome del ristorante cinese dove era andato. Non l’ho più visto”.
Insomma al suo primo viaggio, Shahoan si ritrova rinchiuso in una struttura per clandestini, in un Paese che non conosce, senza sapere una parola che non sia cinese. Sta vivendo un incubo eppure non si perde d’animo.
“Non sapevo come, ma dovevo fare in modo di uscire da
quel posto. Il fatto tragico è che parlavo solo cinese e nessuno mi
capiva. Per fortuna per due ore al giorno potevamo uscire dal
quel Cpt. Forse pensavano che stavamo bene e non conveniva
fuggire. Cercai quel ristorante cinese come un pazzo ma non lo
trovai. La gente non capiva quello che volevo dire. Dopo alcuni
giorni, facendo sempre lo stesso gesto con la mano verso la
bocca per dire “mangiare” lo trovai. Dissi al gestore di avere un
amico a Budapest. Gentilmente, non so come, lo rintracciò e gli
telefonò. Con mia sorpresa quel ristoratore si offrì di pagarmi il
viaggio fino alla capitale. Non sapevo cosa fare. Non sapevo
nemmeno in quale città mi trovavo. Stavo scappando da un Cpt,
di sicuro non potevo prendere il treno, dove già mi avevano bloccato e non avevo abbastanza soldi per un’auto. Come potevo
fare? Così accettai l’offerta del ristoratore. Mi sono venuti a
prendere in taxi e dopo tre ore ero a Budapest in un emporio.
Sono stato lì per una decina di giorni. La mia idea era che, una
volta in Ungheria dove c’erano amici e parenti, avrei potuto fare
l’imprenditore contando sul loro aiuto. Ma in quei giorni passati
lì mi resi conto che quel Paese non poteva garantire un futuro
alla mia famiglia”.
Riprende il viaggio. Meta l’Italia.
“Questa volta non ho preso il treno. Sono andato a piedi”.
“Cosa?” esclamo stupita. Shaohan, fiero, continua il racconto
della sua traversata fra le nevi e i monti.
“Ho camminato per tre giorni con brevi tratti in auto. Ero con
altri stranieri. Camminavamo solo di notte. Ci guidava un’organizzazione, non so dire di che Paese. Siamo arrivati al confine con la Slovenia o con l’Austria, non sapevo in effetti dove eravamo. In mezzo alle montagne, un gran freddo. Ci hanno corso
dietro i cani. Siamo fuggiti. Quando ci siamo ritrovati mancavano
due del gruppo. Non li abbiamo più visti. Nessuno ha mai
saputo se li hanno presi, se sono vivi o morti. Riuscii a scappare.
Mi sono salvato, ma faceva troppo freddo. Poi dalle montagne
austriache o quel che erano siamo giunti in Italia”.
Ha il viso contratto e gli occhi spalancati, quasi non crede di
essere sopravvissuto, di essere qui a raccontarlo. Smette per poco
di parlare e osserva lo stupore sulle facce intorno. Per raggiungere
l’Italia ha attraversato le Alpi in inverno, di notte, a piedi.
Chiedo se hanno bevuto e mangiato qualcosa in quei giorni.
“Mangiare? Non sapevamo nemmeno cosa voleva dire. Ho
mangiato un pezzo di pane duro per tutto il viaggio”.
Shaohan arriva in Italia in condizioni fisiche disastrose, ha
dovuto sopportare temperature al limite dell’umano. Siamo fra
dicembre ’97 e gennaio ’98 quando in alta quota il termometro
scende decine di gradi sotto lo zero. Shaohan non ricorda la data
dell’arrivo.
“Durante il viaggio mi sono ammalato. Avevo la febbre
molto alta. Quando sono arrivato a Empoli, dal male non riuscivo
nemmeno a parlare. Avevo la bocca tutta bianca e la pelle
della lingua si staccava a pezzi. Per fortuna mi ha ospitato un
amico, anche se per pochi giorni. Tramite lui ho trovato subito
un lavoro a Reggio Emilia, in un’azienda di cinesi”.
Shaohan è un ciclone. Parla animatamente, ci tiene a far conoscere
le sue tragedie. Gesticola di continuo, come tanti italiani, e
ama molto ironizzare. Eppure i cinesi sono considerati chiusi, timidi e riservati. Basterebbe parlare con loro per mutare opinione.
“In quella fabbrica facevo il tuttofare per quindici-sedici ore
al giorno per 800mila lire al mese. Dovevo cucinare per tutti e
pulire, dato che mangiavamo e dormivamo lì. E tagliare i fili dei
vestiti quando c’era bisogno. Avevo un grande debito da pagare
in Cina. Più lavoravo, meglio era. In più ero clandestino e il mio
datore di lavoro mi ricattava. Così accettai di farlo per un po’ ma
pensavo: il lavoro anche in Europa è una schiavitù?”.
La sua ironia è raffinata, pungente. Devono essere state tante
le domande che Shaohan si è posto in quei primi mesi in Italia,
a contatto con un mondo che aveva potuto solo immaginare,
dopo aver vissuto per trentacinque anni in un Paese blindato dal
punto di vista dell’informazione, dove tuttora anche la navigazione in rete non è libera.
“Lavorando tre mesi in quelle condizioni, ho trovato una
grande differenza con quello che facevo in Cina. Non riuscivo ad
adattarmi. In più ero lontano dalla famiglia. Non sapevo l’italiano
e nemmeno come si faceva a prendere l’autobus. Faticavo
molto e pensavo troppo. Accusavo forti dolori alla testa. La mia
vita era molto stressata”.
L’ex insegnante finisce “tuttofare” in un’azienda di connazionali
che lo sfruttano. Gli chiedo se il “comunismo” cinese
tutela maggiormente i lavoratori.
Come un fulmine mi risponde: “Non mi parlare di comunismo.
Non lo sopporto”.
E l’impatto con gli italiani? Shaohan è una sorpresa continua.
“Gli italiani sono meglio di noi cinesi. Mi sono trovato
benissimo da subito. Conoscevo Galileo Galilei e altri scienziati.
Li ho studiati a scuola, come del resto Roma e Venezia, ma
non potevo sapere come erano le persone. Invece sono gentili e
passionali. Ogni volta che non trovavo un indirizzo, ho sempre
incontrato un italiano che mi accompagnava direttamente sul
posto. Li trovo onesti nello stabilire i prezzi. In Cina è la norma
che in due province differenti lo stesso prodotto abbia costi completamente diversi. In Italia c’è minore speculazione. Se avessi conosciuto l’inglese mi sarei integrato meglio. Per fortuna oggi si possono studiare le lingue anche in Cina. Fino a pochi anni fa era vietato, dovevamo essere isolati dal mondo”.
Vive il primo anno sballottato da un lavoro a un altro, senza
sosta, con le forze dell’ordine che lo perseguitano.
“Dopo quella fabbrica sono andato a Milano a vendere occhiali e accendini per strada, in metropolitana, per un mese. Appena ho guadagnato qualcosa, ho comprato una valigia e vestiti. Non avevo più niente. Lì alcuni amici cinesi mi hanno consigliato di andare al mare perché avrei guadagnato di più. Così in treno ho raggiunto la riviera adriatica e ho iniziato a vendere in spiaggia per tutto maggio. Le forze dell’ordine mi hanno preso tre volte, e dato che non avevo la licenza mi hanno sequestrato la merce. Per ben tre volte. Come facevo a scappare? Erano irriconoscibili senza la divisa”.
Shaohan è visibilmente stupito e dispiaciuto insieme. Non si
dà pace di essere stato beccato tante volte. Pensando alla scena e
alle sue buffe espressioni, mi vengono in mente vecchi film francesi con Louis De Funès.
“Sono finito in questura e mi hanno preso le impronte. Poi
mi portavano via in auto e mi lasciavano in aperta campagna,
lontano dal mare. Non sapevo dove. Per tornare a casa chiedevo
la strada per Cattolica. Camminavo per chilometri fino a casa.
Abitavo a Misano, pagavo 300mila lire al mese. Eravamo sei in
quell’appartamento. Altre volte sequestravano solo la merce e
poi mi lasciavano andare”.
Shaohan comprende che è impossibile continuare così perché
non sta guadagnando niente e viene fermato troppe volte.
“Ho pensato: cosa faccio? Ho chiesto a un amico d’insegnarmi
a fare i massaggi. Almeno così non avevano niente da
sequestrarmi. Non avevo niente addosso, solo un po’ di olio”.
Lascia senza parole la capacità di Shaohan di raccontare con
le espressioni del viso, la tonalità della voce e rendere teatrali
anche episodi tragici.
“A giugno ho iniziato a fare i massaggi e mi hanno fermato
quattro volte. Avevo tanta paura. Ero angosciato dal pensiero di
essere braccato in ogni momento. In luglio chiesi agli amici come
potevo uscirne. Volevo imparare un mestiere. Un amico mi ha
presentato a una fabbrica cinese di pellame dove cercavano un conciatore. Sono andato ad Avellino e ho lavorato gratis un mese,
per imparare. Quelli erano gli accordi. Ma ad agosto il lavoro si
ferma. Sono rimasto bloccato lì, senza soldi. A settembre finalmente inizio il lavoro vero e proprio. Non arrivo alla fine del
primo mese che c’è un blitz della polizia. Eravamo sette operai di
cui tre clandestini, me compreso. Stavamo dormendo. I poliziotti
ci hanno arrestato. Li abbiamo seguiti in caserma dove hanno
preso le impronte digitali e chiesto le generalità. Ho dato un nome
falso, altrimenti mi avrebbero spedito in Cina, dopo tutti quei
fermi e quei verbali a mio nome… Tutti i clandestini sanno che
sia col nome falso che con quello vero ti fanno un verbale di
espulsione, un foglio di via dall’Italia, e poi ti rilasciano. Ma i
clandestini cinesi sanno leggere? No, quindi restano”.
Shaohan strappa un’altra risata. La sua storia potrebbe diventare
un’opera teatrale tragicomica sui clandestini.
“Ogni volta che mi hanno preso c’erano gli estremi per l’espulsione, ma ho sempre resistito. Non potevo tornare in Cina.
Non in quelle condizioni. Ma il blitz di Avellino aveva esaurito
la mia capacità di sopportazione con tutti quegli arresti e quei
fermi in pochi mesi. Inoltre mi spaventava anche la povertà in
cui mi trovavo. Ho chiamato mia moglie dicendole che non ce la
facevo più, che la vita era troppo difficile e ho pianto. Poi ho
subito dimenticato”.
In Cina era un insegnante modello che non aveva fatto niente
per essere arrestato o punito fino al giorno in cui aveva scelto
di far nascere il secondo figlio. Qui in Italia sarà fermato decine
di volte. Ma supera anche questi momenti di grande sconforto e
rassegnazione e riprende la sua vita di clandestino.
“Mia moglie mi disse che se davvero non ce la facevo dovevo
tornare. Ma pensai che non potevo rientrare in Cina. Là insegnavo,
non avrei più potuto riprendere quell’attività. Cosa avrei
fatto? Ero arrivato fin qui con tanta fatica, valeva la pena rimanerci”.
Come considera le forze dell’ordine italiane, visti tutti i
fermi e i sequestri?
“Non mi hanno mai toccato fisicamente. Solo una volta un poliziotto ha alzato le mani per picchiarmi, ho urlato: ‘Aiuto’, e
mi sono salvato”.
La dura disciplina cinese c’entra con la sua capacità di cavarsela
brillantemente in situazioni drammatiche?
“Sono nato in piena epopea maoista. La mia vita, la formazione,
il lavoro facevano parte di quel sistema e pensavo che era
giusto così. Ma quando lavori inizi a pensare che qualcosa non
funziona. La storia è complicata. Bisogna risalire agli anni della
Rivoluzione culturale per capire meglio e alla presa del potere
del Partito popolare nel 1949. Fino ad allora, i miei nonni erano
intellettuali, nobili e anche ricchi. Il regime di Mao spazzò via
ogni loro bene. Per quella classe politica erano delinquenti.
Furono puniti pubblicamente nelle piazze, fu fatto loro il lavaggio
del cervello. Non ero ancora nato o ero troppo piccolo per
ricordare, ma durante gli anni della rivoluzione culturale, quindi
dal 1965 fino al ’69, mi hanno raccontato che arrivavano funzionari statali per sottoporre le persone a lunghi interrogatori affinché non sopravvivesse alcun ribelle al sistema. Erano veri e propri blitz con il preciso intento di terrorizzare la gente”.
Nonostante le disavventure, Shaohan ottiene il permesso di
soggiorno senza troppe difficoltà.
“Dopo il blitz di Avellino mi sono trasferito a Torino. Era la
fine del ’98 ed entrò in vigore la legge 40, la Turco-Napolitano.
Fu facile chiedere il permesso. Bastava avere lavoro e residenza.
Mi dichiarai – falsamente – lavoratore autonomo e chiesi a un
amico di Firenze di confermare che ero residente presso di lui.
Agli inizi del 1999 presentai la pratica per ottenere il permesso
di soggiorno”.
Nell’attesa gira su e giù per l’Italia. Trova lavoro vicino a
Napoli, a San Giuseppe Vesuviano: il tuttofare per diciotto ore al
giorno per due mesi. Torna a Torino ad agosto per conciare le
pelli, poi si stabilisce in Romagna lavorando in un’altra fabbrica
di cinesi. Dopo circa dieci mesi arriverà il tanto desiderato foglio
azzurro con le generalità e la foto che Shaohan mostra soddisfatto.
Sarà un altro nullaosta, questa volta italiano, a mettere in
crisi la vita di Shaohan e della sua famiglia.
“Ho ritirato il permesso a Firenze. Ero felice e sono tornato a
casa, in Cina, per tre mesi, mancavo da due anni. Arrivato in
Romagna ho chiesto il ricongiungimento familiare ma a quel
punto è nato un grosso problema. La questura ha scoperto che ad
Avellino avevo rilasciato false generalità e quindi rischiavo di
non ricevere il nullaosta per la mia famiglia e addirittura l’annullamento del permesso di soggiorno. Ero disperato e ho iniziato a chiedere aiuto. I miei familiari erano già qui, eccetto mia madre. Mi avevano seguito nel viaggio di ritorno dalla Cina. Soprattutto non c’era tempo perché il nullaosta va consegnato entro otto giorni dall’arrivo dei parenti. Tutto bloccato per quella falsa dichiarazione ad Avellino. Quindici giorni d’inferno. Poi una mediatrice culturale, come d’incanto, è riuscita a risolvere il problema, altrimenti ora sarei in Cina. Da solo non ce l’avrei mai fatta”.
La mediatrice culturale cinese studia il problema e trova
un’avvocatessa di Avellino che, alla modica cifra di 300mila lire,
scrive una lettera alla Prefettura per chiedere la revoca di quel
piccolo reato. Lui deve solo recarsi nella cittadina campana a firmare l’atto dal prefetto. Shaohan e la mediatrice culturale sono
diventati grandi amici. Proprio in quel periodo però sua madre è
in fin di vita e lui non può tornare in Cina a salutarla e vederla
per l’ultima volta.
Nonostante tutto, Shaohan sprizza vita e ottimismo da ogni
poro. Un vero vulcano.
Attualmente lavora a Prato in una fabbrica cinese dove
dorme e mangia. Raramente torna in Romagna, dove si è stabilita
la famiglia. È un lavoratore instancabile. Per ora è l’unico a
portare a casa uno stipendio, i figli studiano ancora pur facendo
qualche lavoretto. La moglie è casalinga, la situazione economica
familiare precaria.
“Desidero trovare un lavoro per guadagnare di più e stare
vicino alla famiglia. A Prato il lavoro sta calando. C’è molta crisi
nel settore dell’abbigliamento. Ultimamente ho girato come un
matto. Sono andato a chiedere un posto in tantissime ditte, senza
trovare niente di buono: Bologna, Ancona, Padova…”.
Vorrebbe avere tanti amici italiani e naturalmente imparare meglio la lingua. Gli piacerebbe lavorare con italiani. Shaohan adora l’Italia. Questo è il suo Paese e alla Cina non pensa più.
UNA PICCOLA NOTA
Se vi interessano altre notizie sul libro di Manuela Foschi su codesto blog trovate una mia recensione in data 3 maggio 2009.
Bello il Vr. articolo, prezioso!!!! grazie…
Il nr.contributo per la Cina, arte a Spoleto su NotitiAE.. il Link:
http://notitiae.wordpress.com/2010/12/19/mostra-percorso-chinese-contemporary-art-exhibition/