Il male di vivere e il tarantismo
Giuliano Spagnul su un film di Alina Marazzi e un documentario di Gianfranco Mingozzi
Un’ora sola ti vorrei è un film documentario in cui viene narrata la storia di una donna morta suicida all’età di 33 anni. La figlia Alina Marazzi ne ricostruisce la storia trent’anni dopo attraverso il montaggio dei filmati amatoriali del nonno, Ulrico Hoepli, intervallati dalla lettura di brani tratti dai diari materni. La taranta è invece un documentario sul fenomeno del tarantismo nel Salento, girato da Gianfranco Mingozzi nel 1961.
Due documentari su realtà agli antipodi: il primo scava nei panni sporchi (per dirla all’Andreotti censore del film Umberto D) dell’alta borghesia milanese; e il secondo guarda impietoso la più misera delle classi sociali, quella dei cafoni del Sud, in quelle terre dove neanche Cristo, secondo l’ormai famosa immagine di Carlo Levi, aveva osato avventurarsi. Due mondi oggi radicalmente cambiati ma che rappresentavano al meglio quelle che all’epoca venivano definite la “classe egemone” e la “classe subalterna”.
Un documentario, una fotografia è sempre un atto violento che mostra le persone reali con le rispettive vicissitudini senza il filtro della mediazione artistica della finzione (gli attori che interpretano, una storia che rimodula e reinterpreta quel che si sa o che solo si suppone). I documenti, le foto mettono invece a nudo non perché siano più veritieri ma perché espongono inesorabilmente le intimità: registrate nelle tracce visive sonore scritte dei protagonisti.
Il film di Alina sulla madre Liseli, ma anche sul padre e sui nonni, apre l’armadio dei filmini di casa (rinchiusi nelle rispettive scatole da trent’anni) per ridare voce ai motivi di quella scelta estrema. Questo è l’intento che si riceve dalla visione del film, almeno a giudicare dai commenti dei critici che parlano di una «malattia, terrificante e ingiusta» che non permette a Liseli di reggere «la maternità con il suo carico di angosciose responsabilità» (il quotidiano «L’Unità») di una malattia che con il nome di depressione motiva in sé le proprie cause e le relative conseguenze; «una giovane donna che la depressione condurrà al suicidio» («La Repubblica»); «quella madre di cui non ha quasi ricordo perché si uccise, da tempo depressa, quando lei aveva appena sette anni» («Il Messaggero»). Più avvertito il quotidiano «il manifesto» che parla di una malattia – in un accostamento ad Antonioni – come «un disagio profondo e rumoroso nell’assenza di parole che è rifiuto di donna-madre-moglie fedele, per le ipocrisie silenziose del suo universo borghese, che è curiosità di altre vite, troppo presto o troppo tardi per essere una ribelle del ’68». Ma quest’ultima è un’illazione che dal film non si evince perché come più onestamente dichiara l’autrice: «forse ho solo seguito il mio desiderio di trascorrere un po’ di tempo in compagnia di mia madre. Un ora sola. Ma è tanto». Comprensibile da parte di una figlia questo tentativo di recuperare un’assenza, una mancanza dolorosa, la cui ferita il tempo non è riuscito a ricucire. Ma se è vero, come dice ancora l’autrice, che «abbiamo fatto una messa in fila delle immagini e abbiamo capito che quelle immagini raccontavano una storia che forse proprio perché così intima e privata, così autentica, assumeva una dimensione universale e quindi poteva parlare a tutti» dobbiamo chiederci allora per dire che cosa a questi “tutti”.
Quando Ernesto De Martino giunse in terra di Puglia per studiare, con una équipe multidisciplinare, gli ultimi casi di tarantismo, aveva ben presente l’estremo grado di responsabilità che comportava l’entrare in quel «piccolo vano mal areato, saturo di non grati odori di mal lavate intimità femminili» dove si stava svolgendo il rito. Una responsabilità che più volte gli ha ricordato «nel modo più brutale che i tarantati erano non soltanto documenti di un’altra età, ma persone vive verso le quali avevamo dei doveri attuali». Doveri e responsabilità che in qualche modo dobbiamo anche ai morti, se vogliamo che Liseli, giovane donna dell’alta borghesia, tramite il suo gesto estremo parli a noi tutti. Come Maria di Nardò (la prima tarantata ad essere studiata da Ernesto De Martino) tramite il suo ballo sfrenato di giorni e giorni parla del suo bisogno di esserci nel mondo durissimo che la circonda; come protagonista e non solo come vittima dei «conflitti psichici irrisolti che ‘rimordono’ nell’oscurità dell’inconscio». Un mondo durissimo quello dei contadini, di quelle braccia, di quei nessuno («alla domanda cu muriu? Che seguiva nei paesi calabresi il suono del mortorio annunciante il decesso di un componente della comunità paesana, la risposta se si trattava di un contadino era: nuju, ossia nessuno»; così Luigi M. Lombardi Satriani) ma capace di inventare un “dispositivo”, il rito delle tarante, che «come tale non era una ‘malattia’ ma uno strumento di reintegrazione di possibili efficacie simboliche, che disciplinava la crisi, le assegnava luoghi, tempi e modi determinati, e si sforzava di ricondurli verso un nuovo equilibrio».
Nel mondo affatto diverso ma altrettanto duro di Liseli non esisteva un simile istituto culturale capace di reintegrare un conflitto psichico verso un nuovo equilibrio; né Liseli – come ricordava «il manifesto» – era in sincronia con la storia del 1968 che avrebbe dato a molti, indistintamente borghesi o proletari, un orizzonte di ribellione politica e non solo.
Ovviamente sarebbe squilibrato un paragone fra l’opera demartiniana che ridà dignità di fenomeno culturale al tarantismo togliendo ai suoi protagonisti lo stigma della malattia psichica e quella di Alina Marazzi (troppo vicina all’oggetto studiato per non mischiare obiettivi fra loro inconciliabili come salvare la madre, i nonni, il padre, la classe di appartenenza e in fondo sé stessa come autrice del film) ma è altrettanto necessario per noi, che abbiamo conosciuto Liseli in questo modo, dichiarare l’indecifrabilità del suo gesto al di fuori di una insopprimibile richiesta di esserci nel mondo, con la stessa intensità e dignità di quella espressa da Maria di Nardò.