Il manicomio dei bambini
di Gioacchino Toni (*)
Nel cortile interno di una villa ormai decrepita della provincia modenese stazionano diversi ragazzi dall’aria annoiata, un gruppetto cammina lentamente senza meta e alcuni adulti con camice bianco se ne stanno appoggiati alle mura dell’edificio.
Il Direttore raggiunge il cortile, chiama un paio di ragazzi, estrae da una sacca di cuoio un paio di guantoni da pugilato e li porge loro. L’infame divertimento per gli adulti ha inizio.
“Quello che accadde successivamente fu qualcosa che ancora oggi mi fa male descrivere. Ricordo solo che sentii un male acuto e improvviso, prima allo stomaco, poi alla spalla e poi ancora al volto. Poi il dolore forte cessò e sentii come un livido su tutto il corpo, dalla testa, fino giù ai polpacci. Avevo le labbra intorpidite e l’udito ovattato. Mi guardai attorno, nessuno interveniva. Perché? Eppure avevano visto tutti. Solo una cosa avevo capito. Di quello che avrei visto, sentito e vissuto lì, sarei stato costretto a ricordare ogni dettaglio. Per tutta la vita. E a raccontarlo. Come sto facendo adesso”.
Con questo episodio inizia il libro I ragazzi di Villa Giardini. Il manicomio dei bambini a Modena (Aliberti, 2018) in cui Paolo Tortella narra in prima persona la sua esperienza di insegnante all’interno di un “istituto medio psicopedagogico” in provincia di Modena in cui, fino ai primi anni Settanta, si accoglievano “bambini e ragazzi subnormali” provenienti da tutta Italia.
Entrato a Villa Giardini sul finire degli anni Sessanta con l’entusiasmo di chi pensava di poter finalmente “mettere in pratica i principi e le risorse di quella pedagogia innovativa” appresa durante gli studi, il diciannovenne Paolo, fresco di diploma magistrale, si trova proiettato in un universo che davvero non avrebbe più potuto dimenticare.
Accolto al suo arrivo da un fugace saluto del Direttore e dal camice bianco che avrebbe dovuto indossare, il giovane, accompagnato dal caporeparto, prese confidenza con la struttura in cui si sarebbe trovato a vivere visitando i due grandi stanzoni-dormitorio in ognuno dei quali venivano stipati più di settanta di ragazzi. Il suo letto sarebbe stato in uno di quegli stanzoni, vicino alla porta, in modo da poter abbandonare velocemente l’area in caso i ragazzi avessero “dato di matto”. Così gli aveva spiegato il caporeparto.
Vigilanza continua giorno e notte, turni lavorativi di dodici ore consecutive sette giorni su sette con una domenica libera al mese, compito prioritario dei vigilanti, gli era subito stato detto, era quello di evitare che i ragazzi infastidissero gli operatori e la direzione. Giorno e notte dovevano essere rispettati gli spazi e gli orari dell’istituto mantenendo il più possibile il silenzio.
“La giornata trascorreva lenta, mi pareva come fosse vuota. C’era il pasto, il tempo libero non organizzato, e poi c’era la notte. Ricordo che i due cortili interni erano separati da un piccolo bosco a semicerchio chiuso da un fossato e da un reticolato. Era vietato oltrepassare il semicerchio. Qui, di notte, erano lasciati liberi i cani. Difficilmente qualcuno avrebbe potuto scavalcare la rete”.
Il giovane Paolo era arrivato alla struttura grazie a un parroco amico di famiglia, aveva accettato con entusiasmo il lavoro sia per potersi mantenere autonomamente che pensando che lì avrebbe potuto non solo insegnare a leggere e a scrivere ai ragazzi ma anche organizzare insieme a loro attività sportive e gite. “Erano gli anni della contestazione, delle cattedre rovesciate e dei movimenti operai e studenteschi. Tutto era stato messo in discussione, e io avrei partecipato al cambiamento”.
Alla prima assemblea sindacale a cui aveva avuto modo di partecipare durante il mese di prova, il giovane che voleva dare il suo contributo a cambiare il mondo aveva provato a mettere in discussione la gestione di quell’universo a partire dai metodi utilizzati tra quelle mura.
Le sue parole erano cadute nel vuoto; ai colleghi sembravano interessare soltanto i turni di lavoro, i salari e le ferie e dei ragazzi della Villa, dei segregati, pareva proprio non fregarne nulla a nessuno.
L’attacco portato dal giovane a un sindacalista nel corso dell’assemblea era stato clamorosamente scambiato dalla direzione come una sua presa di distanza dai colleghi comunisti sempre pronti a protestare e tale fraintendimento gli valse la conferma del posto di lavoro.
Nel libro si raccontano le prime uscite da quell’istituto col pulmino stipato di quelli che venivano chiamati “subnormali” o “caratteriali”, “diversi”, dunque “pericolosi”, si narra di come questi ragazzi si trovassero del tutto spaesati fuori dalla “normalità concentrazionaria”, proiettati improvvisamente in un mondo che non conoscevano più o non avevano mai avuto modo di conoscere.
Poi l’autore descrive i tentativi di insegnare qualcosa ai ragazzi pur dovendo mantenere agli occhi del caporeparto il “dovuto distacco” nei loro confronti. Non si poteva mostrare alcuna empatia.
“In classe quotidianamente si cominciò a discutere. Si parlava di ogni cosa, cos’era e a cosa serviva […] era un susseguirsi di domande, confronti, spiegazioni. Tra di loro e con me. Giorno dopo giorno mi accorgevo di quanto si stessero appropriando di quei significati di cui erano stati privati”.
Si arrivò pian piano anche ad affrontare tematiche come l’affettività e il sesso e si provò a mettere mano pure alla disposizione dei banchi e all’organizzazione degli spazi: “volevo che l’ambiente – l’alula – favorisse sì l’apprendimento ma anche la relazione”.
Ovviamente questi metodi non piacevano alla Direzione della struttura e nemmeno alla Direzione didattica e il timore di venire licenziato iniziò a farsi pressante nei pensieri del giovane animato di buoni propositi.
“Stavo – forse in parte inconsapevolmente – minando le basi degli equilibri ingiusti e violenti che avevano sempre caratterizzato la vita dell’istituto”.
Nel libro si racconta anche delle forme di complicità che si erano andate strutturando nel tempo tra i ragazzi e alcuni, pochi, operatori stanchi di far finta di non vedere le continue angherie a cui l’istituto li sottoponeva. In un caso alcuni giovani ospiti, alla presenza di un operatore comprensivo, avevano trovato il coraggio di lanciare dalla finestra le ciotole di plastica incredibilmente sporche e incrostate in cui erano costretti a mangiare.
“I colpevolierano finiti in infermeria. Erano dapprima stati sedati, a lungo, per giorni, poi erano stati interrogati. Nessuno aveva fatto il nome [dell’operatore], tuttavia lo licenziarono lo stesso, con l’accusa di essere il sobillatore”.
Era dovuto intervenire il sindacato per fargli riottenere il posto e nonostante gli incentivi offertigli dalla Direzione per non rimettere piede nella struttura, questi aveva testardamente voluto tornare.
Si racconta anche di un episodio ove gli ospiti, dopo averla pianificata nei dettagli, attuarono una spedizione punitiva nei confronti di un vigilante particolarmente manesco.
“I ragazzi – tra loro anche tanti che non c’entravano con l’accaduto – furono interrogati a lungo e pestasti a sangue. Alcuni furono sedati, ci andarono giù pesanti coi farmaci, al punto che rimasero chiusi in infermeria per giorni e giorni. Poi dopo la sedazione e le botte, furono di nuovo interrogati. Li costrinsero a sottoscrivere dei verbali. Firmarono senza nemmeno tentare di resistere”.
Gli autori della spedizione, anche se punti insieme agli altri, non furono mai identificati con certezza e ciò risparmiò loro pene ben peggiori.
Nel libro si parla anche delle inchieste portate avanti dal giornalista Nando Gavioli della redazione locale de “l’Unità” a cui il giovane contestatore forniva informazioni di prima mano come l’episodio in cui il Direttore, che indossava per l’occasione una lunga vestaglia lucida e un paio di zoccoli di legno, obbligò in maniera del tutto gratuita un ragazzino a sdraiarsi al suolo pigiando con un piede sulla sua testa intimando al malcapitato e ai presenti di non azzardarsi mai ad opporgli resistenza.
“Se solo tentate di resistere alla mia autorità, io vi schiaccio. Faccio in un istante, come si schiaccia un guscio d’uovo tra le dita”, e tutto questo davanti ai bambini più piccoli, alcuni dei quali di soli sei anni.
Al giornalista era stato raccontato anche di quel bambino di appena nove anni solito a bagnare il letto di notte: all’ennesimo episodio il caporeparto “l’ha tirato giù dal letto fradicio, spingendolo col bastone, per non doverlo toccare con le mani. Con un calcio l’ha chiuso fuori. L’ha costretto a mettersi in ginocchio, sul balconcino, per punizione. Mezzo nudo. Sicuramente la neve gelida ferma sul pavimento stava ghiacciando […] In classe, la mattina dopo, i ragazzi lo sapevano che era stato portato in infermeria. Per loro non era strano […] anzi spesso capitava anche che dall’infermeria si finisse in ospedale. Non era nemmeno strano che fosse stato picchiato”.
Il bambino era poi ricomparso dall’infermeria: “camminava adagio e non parlava affatto, però era vivo”.
C’era anche stato il caso di un ragazzino punito talmente severamente da “sparire” dall’istituto. Nessuno l’aveva più visto e soltanto dopo qualche tempo si era scoperto che pochi giorni dopo “la punizione” il poveretto era morto di polmonite in ospedale.
Oltre all’inchiesta giornalistica del “l’Unità”, che tra il 1968 e il 1969 si estese ad altri istituti locali, i Consigli comunali e provinciali si pronunciarono a favore di un’indagine ministeriale, venne presentato un esposto alla Procura da parte di alcuni politici locali e il il caso dell’istituto arrivò persino in Parlamento.
Le indagini condotte da un giudice modenese su una serie di fatti accaduti a Villa Giardini portarono nel 1970 l’autore del libro al cospetto del Tribunale dei minori bolognese e quella fu l’occasione per spiegare a un giudice il reale funzionamento della struttura.
“Nel febbraio del 1971 fui licenziato per ragioni politiche”. C’era scritto così sulla lettera che mi recapitarono […] quello fu il mio secondo licenziamento; il primo risaliva alla fine dell’anno precedente, ed era stato ritirato nel giro di poche settimane, dopo che era intervenuta la Cgil di Modena. I ricatti e i maltrattamenti continuavano, così come l’opera di pulizia del personale. Mi convinsi che servivano accuse pubbliche definitive, denunciare l’istituzione ecclesiastica connivente, poi dovevamo coinvolgere le famiglie dei ragazzi ospiti”.
È così che l’operatore che non girava la testa dall’altra parte decise di andare a testimoniare pubblicamente quanto accadeva dentro all’istituto partecipando a iniziative di denuncia e di protesta.
Pian piano Villa Giardini finì con lo svuotarsi, poi arrivarono le dimissioni di Paolo, l’operatore che aveva avuto il coraggio di opporsi e denunciare quanto accadeva tra quelle mura, e nella primavera del 1972 l’istituto conteneva ormai soltanto una cinquantina di minori poi tornati un poco alla volta alle famiglie e presto si arrivò alla sua chiusura definitiva.
“Sebbene fossi ancora molto giovane e particolarmente timido, continuai a comportarmi come quando scelsi di guidare il pulmino per la prima volta; come allora continuai ad adoperarmi per portare i ragazzi fuori dai confini della struttura nella quale si trovavano rinchiusi. […] Mi ero affrancato dall’esperienza [di Villa Giardini], avevo smesso di organizzare proteste, ma non solo i servizi sociali non esistevano ancora; esistevano solo i manicomi, e i matti dovevano stare lì dentro”.
I titoli di coda delle memorie di Paolo Tortella sono scritti da Elena Becchi che in una preziosa e puntuale Appendice ricostruisce le vicende di Villa Giardini.
Da queste pagine finali si capisce che di giustizia ne fu fatta poca: tra amicizie influenti e cavilli legislativi finirono per pagare in pochi e per pagare poco.
Resta il fatto che è anche grazie alla dignità umana e alle lotte dei Paolo Tortella di provincia che si arriverà alla chiusura dei manicomi, almeno di quelli concentrazionari perché, sappiamo, il manicomio ha poi preso nuove e insidiose forme.
(*) Tratto da Carmillaonline.