Il meglio (forse) del blog – 24

andando a ritroso nel tempo (**)

«V come V(U)OTO» di VINCENZA PELLEGRINO (*) che – volendo, mica è obbligatorio – si può anche leggere in relazione con il “meglio” 23, postato ieri.

 

Il gazebo di partito

Oggi faccio volantinaggio per il partito: si avvicina il VOTO e c’è desiderio di conversare con i cittadini che passeggiano. Raggiungo la piazza nel cuore della mia città e mi posteggio all’interno di un piccolo gazebo. In realtà, le prime tre passanti non sono cittadine, me lo dicono senza neanche rallentare: “Sono moldava”,”Sono ucraina…”.

“Hanno l’aria molto italiana” dice il mio compagno di partito. La loro italianità colpisce anche me: “Questo te la dice lunga sulla convivenza in questa città: una coabitazione stretta, una convergenza rapida alla quale è impedito di divenire con-cittadinanza”.

Ma tempo per riflettere insieme non c’è: è il turno di un passante-cittadino-giovane: “Non ho mai votato e non penso che lo farò. Non mi fido. E se votassi, certo non voterei mai per i partiti”.

“Scusi, in che senso?”, ma è già lontano.

Alla mia destra un obelisco con le date del Grande Festival dedicato a Verdi. Questa città – penso – teme l’austerità come si teme la fine di una festa, l’arrangiar dei resti in frigorifero. Una signora passa rapida, protetta dall’influsso dell’obelisco, il passo sicuro in una città che le somiglia.

Eppure.

Un gruppo di pank-a-bestie sta seduto in braccio al Milite Ignoto e non pare affatto risentire di quel influsso: nella piazza non si sente il benché minimo guaìto di protesta. Un totem a digiuno d’odio non serve un granché a indicare la strada ai suoi fedeli: la signora inciampa e scappa, confusa, davanti al gesto gentile di un pank.

Le panchine intorno al Milite sono piene di badanti a riposo e di maghrebini che giocano a carte (ridono, i passanti giureranno di un litigio tra arabi).

Qui ciascuno fa totalmente gruppo a sé – penso.

Un passante-cittadino-anziano si ferma e mi legge nel pensiero. “Perché fate ‘sti banchetti? L’elezione è ancora lontana vè!”. “Bè,

lontana… – rispondo – si fa per dire, tra cinque mesi…” “Cinque mesi è lontanissimo per un’elezione! Non è mica un matrimonio vè!”.

Mi racconta che un secolo fa faceva parte di una sezione del partito comunista. Ora parla di politica “con la tele”: “Cioè, non parlo davvero, io rispondo ma quelli non rispondono a me”.

Alla fine, con l’aria colpevole di chi non sa servire umilmente la causa, vado via: non posso intercettare passanti come se fossero cittadini.

In tempo di non proprio elezioni non ci sono ancora cittadini; in tempo di davvero elezioni trovi aventi diritto di voto, in orario pasti, a casa loro.

Le città – penso – sono divenute luoghi in cui moltitudini di senza-diritto (di voto) stanno per la strada mentre i cittadini, ad uno ad uno sistemati nelle stanze, si impegnano ad ignorarli.

Saksia Sassen (in “Il mosaico cangiante della povertà”, Eddyburg 2008) descrive le città globali proprio come agglomerati in cui un numero crescente di clandestini (di esclusi partecipanti) lavorano in settori vitali per l’economia e – proprio perché ‘fanno’ – tessono continuamente reti informali di un legame sociale che le élites distruggono continuamente: mondi che fanno la città ma vi si incontrano solo in forme di mediazione sempre più fluida e informale. Infine, le città di oggi non sono più il risultato materiale – architettonico, si potrebbe dire – di una mediazione efficace tra interessi identificabili, contrapposti ma ricomposti dalla politica (sino a qualche anno fa, avremmo detto tra luoghi-e-persone del lavoro e luoghi-e-persone del capitale), ma sono invece “città senza guida visibile” (Guido Martinotti «Città» in “Sinistra senza sinistra”, Feltrinelli 2008), luoghi nei quali la disgregazione dell’ordine intelligibile e a lungo funzionale (centro-periferia) mette in scena la più vasta crisi delle gerarchie (della loro tenuta e della loro legittimazione).

Per questo il gazebo oggi mi sembra patetico: confidare nella intercettazione volante del passante per rifondare uno spazio (fisico e simbolico) della politica che non c’è più mi pare un’idea nata dall’abdicazione.

Lo stato di salute del voto italiano

Al 117 in Italia vi erano circa 1.667.000 residenti stranieri non comunitari in età di voto e senza diritto di voto (CaritasMigrantes “Dossier statistico immigrazione”, Idos 2008), vale a dire il 6,4% del totale maggiorenni residenti ; tale percentuale è destinata a aumentare rapidamente . Parallelamente, coloro che hanno diritto di voto smettono di esercitarlo: nelle elezioni 2008 in Sardegna hanno votato il 72% degli aventi diritto e in Abruzzo il 63%.

Illuminanti gli studi sulle ‘dinamiche di voto’: le indagini mostrano che quasi la metà di coloro che votano prende una decisione nel mese precedente le elezioni (…) e in molti casi addirittura la settimana o il giorno precedente le elezioni, nel percorso tra la casa e il seggio (…). Un’indagine molto recente dell’Osservatorio Mediamonitor-Politica dell’Università La Sapienza, mostra che nel 2008 ad un mese dal voto solo il 57% dichiara di avere deciso se votare e per chi; un approfondimento qualitativo sulle posizioni degli “indecisi di sinistra” rivela che essi sono informati consumatori di dibattiti televisivi, profondamente sfiduciati e risentiti nei confronti della classe politica (…).

Infine, cittadini sempre meno interessati alla politica esprimono un voto svogliato, connotato da emozioni negative, legato ad un’inclinazione politica che prescinde dalle informazioni, dai progetti, e si basa su di un sentimento del mondo nutrito dalla televisione, dalle liti con i propri amici o tra politici, dalla paura di un futuro peggiore e dal risentimento nei confronti di chi non ha più il potere necessario per dissiparla (i politici, appunto).

Si tratta a mio avviso dei sintomi di una crisi che ha radici profonde.

I grandi progetti politici del passato hanno prodotto scarti (sacrifici umani) così imponenti da inficiare l’idea stessa del ‘Progettare’, per dirla alla Bauman (“Vite di scarto”, Laterza 2005). Parallelamente, il mondo si è fatto uno senza che si possano immaginare o attuare efficacemente forme di governo globale, e nessun progetto resiste davanti al continuo prodursi di progetti ‘alternativi’ (e di nuove forme del potere) che caratterizza appunto la società-mondo. La profonda crisi dei partiti nazionali, il processo perverso che lega le classi politiche dei singoli Stati alla performance mediatica e le slega dal reale, sono a mio avviso gli effetti più che le cause di queste trasformazioni, così come il distacco dall’esercizio di voto può essere letto come figlio di una intuizione profonda, quella di adoperarsi con contributi inefficaci al governo del futuro, l’intuizione insomma della distanza tra organizzazioni politiche contemporanee e governance del globale.

Se ciò è vero, se l’esercizio del voto è legato all’idea di efficacia dell’azione politica e se ciascuna opzione deve essere collettivamente concepibile per fare da sostegno alle volontà individuali poi espresse con il voto, si potrebbe pensare a nuovi percorsi propedeutici all’esercizio del voto.

Infine, proviamo qui ad immaginare che la partecipazione sia posta come vincolo di legame tra voto e cittadinanza.

Percorsi propedeutici al voto: un esercizio di ripensamento delle pratiche politiche

Immagino un luogo dove si discuta della città tra cento anni: si dovrebbe parlare di ciascuna questione in oggetto alla politica muovendosi dinamicamente su diverse scale spaziali e temporali, perché è lo spaesamento rispetto a tempo (troppo veloce) e spazio (troppo esteso) che a mio avviso rende difficile oggi immaginare il proprio contributo (ci sentiamo troppo piccoli e fugaci per un agire politico efficace). In tal senso, immagino vere e proprie palestre dell’esercizio politico: si dovrebbe lavorare per decifrare i modi in cui il mondo-intero è già nella città e vi si compie, estendere quindi la propria comunità all’insieme più vasto (Europa? Mondo?) per poi subito dopo contrarla alla sua unità politica di base, che sia identificata nel quartiere o nell’isolato o addirittura nella famiglia.

Penso a spazi pubblici permanenti, non alternativi a quelli delle singole parti politiche: i partiti sarebbero chiamati a portare le loro elaborazioni all’interno di unitarie agorà politiche.

Immagino una CARTA DI VOTO personale sulla quale vengano apposti contrassegni nei momenti della partecipazione (per ogni incontro organizzato in prima persona se ne riceverebbero due): gli abitanti (perché in questo esercizio di cittadinanza inclusiva tutti gli abitanti avrebbero diritto di voto) sarebbero tenuti a riempire di contrassegni la propria carta di voto.

Immagino un palco in cui a turno ci si mette in scena per raccontare la propria storia ai concittadini sconosciuti. “Io Marco, ho 31 anni, pago 800 euro al mese per l’affitto, li prendo dai miei perché non ho lavoro fisso… lavoro poco…, non riesco ad innamorarmi perché incontro troppe poche donne… lavoro sempre…”, e così via.

È un teatro, uno spazio conviviale. Si parla di politica in prima persona e in emozione, poiché per coltivare la progettualità politica bisognerà riconnetterla ai linguaggi della soggettività, ristabilire la pertinenza delle emozioni nella com-prensione, con-divisione dei problemi.

L’immersione in questi quadri di realtà dipinti dai propri concittadini sarebbe parte fondamentale dei percorsi propedeutici al voto proprio perché riassemblare la realtà in modo artigianale (in prima persona, tra prossimi) è indispensabile per collocarsi rispetto a proposte politiche di ‘larga scala’.

In questi luoghi troverebbero posto gli incontri continuativi tra eletti ed elettori, i primi chiamati a riformulare il proprio mandato (anche) nei termini di ‘garanti dei processi partecipativi’, i secondi impegnati nella consultazione.

Sarebbero spazi di formazione per giovani e adolescenti compresi nelle attività scolastiche, non solo perché essi accedano alla decisione, ma perché le classi dirigenti del futuro formulino nuove categorie del ‘far politica’ senza predisporsi all’eredità (passiva o antagonista che sia) di quelle vecchie.

E ancora, immagino una stanza nel reparto maternità in cui le donne che hanno partorito lo stesso giorno (due, tre, quattro che siano; italiane, marocchine, filippine che siano) si ritrovano in una stanza appositamente allestita e parlano di quelle nascite in quell’ospedale: ne parlano da madri-cittadine, si interrogano sul ‘senso’ e sul ‘modo’ della nascita nella loro società, formulano richieste e proposte indirizzate ai servizi. È solo un esempio: ritengo che l’interfaccia individuo-istituzione debba essere ripensata, e che tale attività di ripensamento debba trovare collocazione (fisica) al più presto all’interno delle organizzazioni istituzionali.

Anche l’appartenenza ad associazioni di volontariato, culturali, sportive, religiose verrebbe validata come attività propedeutica al voto.

Alla fine, una carta di voto ricca di contrassegni mostrerebbe concretamente la continuità tra vita e politica: al compimento dei 70 anni, la vita sarebbe raccontata quale ininterrotto esercizio politico in una lectio magistralis, nell’Aula magna dell’Università davanti ai propri concittadini più giovani.

Nuovi vincoli di legame tra voto e cittadinanza

Questa crisi politica (la disaffezione, il risentimento nei confronti della classe dirigente, la disfatta innanzi tutto immaginaria della comunità politica) nasce dal fatto che profonde modificazioni della realtà hanno mancato di pubblica digestione, non hanno trovato un’agorà pubblica-e-non-mediatica nella quale venire elaborate.

Il dinamismo delle società contemporanee ci chiama a ri-organizzare luoghi di elaborazione permanente del nesso tra singole esistenze, poiché esso non è più compreso in termini ideologici né veicolato in forma pre-confezionata, e deve essere vissuto in ‘presa diretta’: i problemi per farsi comprensibili devono trovare nuove forme narrative comuni e negoziali, impossibili attraverso i media. Senza questo tipo di confronto, la partecipazione democratica verrà privata di sostegno cognitivo (della capacità con cui ciascun soggetto si colloca nel reale) e di fatto inibita.

Per questo a mio avviso sarebbe utile vincolare il diritto di partecipazione alla scelta (il voto) al dovere di offrire la propria esperienza come ‘dato’ perchè la comunità (e quindi nuovamente ciascuno di noi) possa comprendersi più efficacemente.

Capirei le obiezioni di chi ritenesse pericoloso subordinare il diritto di voto alla partecipazione (ad una azione più che ad una condizione), anche se, procedendo nell’esercizio, mostrassi che sono possibili forme di partecipazione differenziate e accessibili a tutti, diversi livelli di scala adatti alla sperimentazione.

A tali obiezioni rispondo che dobbiamo muovere passi più decisi per tentare la maturazione di una democrazia che, lasciata a se stessa, sembra destinata a mala sorte.

(*) Con l’autorizzazione dell’autrice, riprendo questo testo da «Il dolce avvenire» ovvero «Esercizi di immaginazione radicale del presente» un’antologia (curata da Alessandro Bosi, Marco Deriu, Vincenza Pellegrino) uscita da Diabasis nel settembre 2009. Piuttosto che tentare di spiegarvi in poche righe di che si tratta rimando a una recensione, a firma Gianni Boccardelli, che trovate su questo blog. (db)

(**) Un po’ perché 5600 articoli sono tanti e (nonostante i “santi” tag) si rischia di perdere la memoria dei più vecchi. E un po’ perché nel pieno dell’estate qualche collaborazione si liquefà e occorre cercare post per non star fermi, quando altre/i invece continuano a regalare i loro contributi a codesto blog. Per queste due ragioni ho deciso – d’intesa con la piccola redazione – di recuperare un certo numero di vecchi post… con l’unico criterio di partire dalla coda ma valutando quali possono essere più “attuali”.

Il “meglio” è sempre soggettivo: in questo caso è inteso a ritrovare soprattutto semi, ponti, pensieri perduti… meglio se accompagnati – talvolta capita – dalla bella scrittura, l’inchiesta ben fatta, la riflessione intelligente.

Ci sarà fantascienza (il Marte-dì canonico), ci saranno le «scor-date», ci sarà di tutto un po’: con le firme più varie, stili assai differenti e quel misto di serietà e ironia che – noi speriamo – ci caratterizza in questo blog “collettivo”.

Redazione
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