Il metabolismo accelerato di Homo
«L’energia evolutiva delle grandi scimmie»: riflessioni di Giorgio Chelidonio su un articolo di Edoardo Bonicelli
Come abbonato pluriennale a «Le Scienze» ho modo, mensilmente, di leggere la rubrica “Appunti di laboratorio” tenuta da Edoardo Boncinelli [1], noto genetista di cui apprezzo la profondità divulgativa ma la cui disciplina mi resta, per mie carenze di formazione, spesso ostica. Però nel numero di ottobre 2016, sotto il titolo «L’energia delle grandi scimmie», Boncinelli tratta un tema evolutivo che mi ha stuzzicato a leggere attentamente, ad iniziare dal sottotitolo: «Ragioni e conseguenze del metabolismo energetico accelerato degli esseri umani». Confesso che, sebbene le teorie sull’ominazione prevalenti negli ultimi decenni mi siano familiari, non mi era capitato di considerare il metabolismo come fattore evolutivo: nelle prime si ragionava su deforestazione climatica delle originarie nicchie ecologiche africane in cui hanno agito, fra 4 e 2 milioni di anni fa, gli ominini [2] più antichi, del loro adattamento al bipedismo, dell’opportunistico predare resti di erbivori rimasti vittime di grandi felini e, infine, del ruolo delle proteine della carne nello sviluppo evolutivo del cervello; però di «metabolismo energetico accelerato» mai. Incuriosito da questo approccio per me così insolito mi ci sono tuffato e provo quindi a rielaborare le mie idee sull’origine e lo sviluppo evolutivo dei primi Homo, magari punteggiando con domande che mi hanno rimandato a concetti propri della paleoantropologia:
1) noi esseri umani, a parità di intervallo di tempo, più energia delle altre antropomorfe (gorilla, scimpanzè, bonobo e orangutan) e lo facciamo con una velocità superiore del 27%. Ne consegue che abbiamo bisogno di accedere a maggiori fonti energetiche, che non sempre risultano ubiquitariamente disponibili e, in tale prospettiva, accumuliamo grasso corporeo come riserva;
2) abbiamo (da almeno 1.000.000 di anni) un corpo più grande di quello dei nostri “cugini evolutivi” (scimpanzè e bonobo) e questa caratteristica implica, fra i mammiferi, una maggiore durata media della vita (anche se, precisa Boncinelli, ancora non comprendiamo perché). Ma soprattutto abbiamo un grosso cervello che da solo consuma il 20% dell’energia che ci è necessaria. Quest’ultima maggior dimensione ci ha permesso di diventare predatori più veloci e più “intelligenti”, capaci cioè di elaborare e realizzare le strategie più adatte a evolvere la nostra “propensione carnivora”, arcaica e opportunistica, in abilità di caccia;
3) in quest’ultima dimensione evolutiva, soprattutto prima di aver inventato “armi da getto” e “trappole”, contava essere veloci, tenaci e, soprattutto, resistenti inseguitori e, in ambienti sub-tropicali, essere “scimmie nude” (cioè gli unici ominini non completamente pelosi) condizione che, a sua volta, ha implicato l’essere dotati di pelle coperta di ghiandole sudoripare [3] che permettevano, in ambienti di savana arborata, una elevata termoregolazione [4] a sua volta fattore di resistenza negli inseguimenti di lunga durata;
4) dotarsi evolutivamente di un grosso cervello implica però difficoltà nell’essere partoriti e una soluzione poteva essere nascere immaturi e completare lo sviluppo cerebrale in un lungo periodo. Questa caratteristica ha implicato l’acquisizione di una prolungata fase infantile, durante la quale i piccoli di Homo dipendono completamente dagli adulti ma durante la quale hanno modo di sperimentare un elevato grado di socializzazione e quindi di apprendimento di esperienze relazionali, ambientali e culturali.
La nostra unicità culturale – conclude Boncinelli – deriva anche dal completare “in ritardo” (rispetto agli altri ominini?) lo sviluppo cerebrale. Deduzione verosimile o solo probabile? Possibile, ma da quando questo fenomeno è iniziato? Su questo tema, ad esempio, ho recuperato un articolo di qualche anno fa [5]: pare che entro il primo anno di vita la scatola cranica dei neonati neanderthaliani fosse ancora di forma allungata, mentre quella dei piccoli di Homo Sapiens si evolve già in forma più globulare, carattere indicatore di uno sviluppo più precoce. Ma di crani neonatali precedenti ai Neanderthal non ricordo proprio notizie, quindi il completare “in ritardo” affermato nelle sue conclusioni mi pare quanto meno carente nelle evidenze fossili.
A questo proposito – aggiungo io – finiamo (come Homo sapiens attuale) per completare e acquisire le cosiddette “mappe cognitive” entro l’età della maturazione sessuale, diventando così adolescenti/adulti già “saputi” e ricchi di esperienze verificate e selezionate.
A questo punto, le conclusioni di Boncinelli ci lasciano esplicitamente una domanda irrisolta: in questo apparentemente logico divenire, quale può essere stata, nel tempo evolutivo, la causa (o la retroazione concatenata di cause) [6] e quali gli effetti? E quali le mutazioni genetiche che hanno accompagnato e scandito questo sviluppo, che potrebbe essere stato innescato anche da una singola mutazione in un «gene di alto livello gerarchico»? Boncinelli presume che i suoi lettori ben comprendano questa ultima precisazione ma ahimè le carenze che ho premesso non mi danno accesso immediato a questo concetto, su cui trovo informazioni in una delle preziose schede on-line [7] dell’Enciclopedia Treccani: nelle complesse fasi dello sviluppo genetico prenatale «ci sono geni che dettano istruzioni di carattere generale», definiti «geni regolatori di alto livello gerarchico» che presiedono all’interazione di una molteplicità di informazioni; in altre parole che organizzano le fasi dello sviluppo embrionale. Qui mi fermo perché la scheda diventa, per me, impossibile da sintetizzare. Mi riprometto di studiarla attentamente, magari cercando poi di farne interagire la sintesi con il concetto di epigenetica, un altro aspetto evolutivo che ancora non padroneggio a sufficienza. Mi limito, pertanto, di ricopiare, virgolettata, la definizione [8] che ne dà la Treccani on-line, sito prezioso che consiglio di consultare spesso: «Termine… oggi usato per descrivere tutte quelle modificazioni ereditabili che variano l’espressione genica [9] pur non alterando la sequenza del DNA. Con termini più tecnici, dunque, si definiscono epigenetici quei cambiamenti che influenzano il fenotipo [10] senza alterare il genotipo [11]».
Com’è logico anche su questa sintesi devo fare, per ora, non pochi rimandi. Mi toccherà dunque tuffarmi nello studio di questa dimensione scientifica, per poi tentare di farne una sintesi abbinata alla sequenza evolutiva che conosco tramite la paletnologia [12] e magari tentarne una interpolazione con i dati derivanti dalla primatologia [13]. Insomma questa “paginetta” divulgativa di Boncinelli merita l’apertura di complesse ricerche che sappiano far interagire gli studi della genetica evolutiva con i riscontri paleoantropologici.
LINKS
- https://it.wikipedia.org/wiki/Edoardo_Boncinelli
- https://it.wikipedia.org/wiki/Hominidae
- https://it.wikipedia.org/wiki/Sudorazione
- https://it.wikipedia.org/wiki/Termoregolazione
- http://www.lescienze.it/news/2010/11/09/news/nel_primo_sviluppo_del_cervello_le_differenze_tra_noi_e_neandertal-554079/
- https://it.wikipedia.org/wiki/Retroazione#Retroazione_positiva
- http://www.treccani.it/enciclopedia/genetica-dello-sviluppo_(Enciclopedia-della-Scienza-e-della-Tecnica)/
- http://www.treccani.it/enciclopedia/epigenetica_(Enciclopedia-della-Scienza-e-della-Tecnica)/
- http://www.treccani.it/enciclopedia/espressione-genica/
- https://www.google.it/webhp?sourceid=chrome-instant&ion=1&espv=2&ie=UTF-8#q=fenotipo+treccani
- http://www.treccani.it/enciclopedia/genotipo/
- www.treccani.it/vocabolario/paletnologia/
- http://www.treccani.it/vocabolario/primatologia/
L’immagine è tratta da: https://66.media.tumblr.com/210790cf37c1725ddf9021d1dfe6b491/tumblr_n4wjnvI6cY1sjwwzso1_500.gif. Mi pare una animazione carina; la didascalia dice (più o meno) «quante molecole APT succhia il nostro cervello ogni minuto» ma non spiega cosa sono le “molecole APT”. Se proprio voleste provare a capirlo: https://it.wikipedia.org/wiki/Adenosina_trifosfato