Il Metaverso
di Roberto Paracchini (ripreso da ilmanifestosardo)
Prima storia: il disegno “Mani che disegnano” dell’incisore Maurits C. Escher (1898-1972) è una delle sue opere più famose che rappresenta due mani sopra un foglio puntellato su un tavolo da disegno che mostra due mani, ognuna impegnata a disegnare l’altra.
Seconda storia, raccontata dall’antropologo Gregory Bateson (1904-1980): siamo nella zoo di San Francisco, due giovani scimmie combattono tra di loro, ma non si feriscono; guardando meglio si nota che è un combattimento simulato, un gioco.
Si tratta di due eventi molto diversi tra loro ma che raccontano un qualcosa di straordinario su cui ruota gran parte della riflessione filosofica e scientifica contemporanea. Quale delle due mani disegna l’altra? E come fanno le scimmie a capire che devono giocare e non combattere? Entrambi in qualche modo creano una specie di forbice o di distanza contradditoria tra le apparenze o, se si preferisce, un modo immediato di vedere il mondo e un livello di realtà più profondo.
Queste storie, assieme a tante altre, sono prese come esempi da Silvano Tagliagambe nel suo bello e denso libro “Metaverso e gemelli digitali. La nuova alleanza tra reti naturali e artificiali” (Mondadori Università). Tagliagambe, già professore ordinario di filosofia della scienza (ha insegnato a Pisa, Cagliari, Roma La Sapienza e Sassari), è un filosofo difficile da classificare per la vastità di competenze e interessi. Di certo meraviglia ogni volta per la sua capacità di interconnettere settori del sapere considerati lontani tra loro come la psicologia analitica e la meccanica quantistica, ad esempio, e più in generale per l’abilità teorica nel vedere gli inscindibili legami tra cultura umanistica e cultura scientifica.
Ma che cosa centrano i due esempi citati col metaverso? Andiamo per gradi e facciamoci aiutare da un barbiere, amico del matematico Bertrand Russell (1872-1970), che ha la particolarità di radere la barba di tutti coloro che nel suo paese non si radono da soli. Tutto bene sinchè non arriva Russell a chiedere al barbiere: “E a te, amico mio, chi ti rade? Non puoi certo farlo tu visto che radi solo chi non si rade da solo; e se ti radi da te, vuol dire che non appartieni più al gruppo di persone che non si radono da soli”. In pratica un serpente (logico) che si mangia la coda.
Che cosa è capitato? Che il linguaggio con cui si è parlato e descritto il barbiere, detto “linguaggio oggetto”, si trova sullo stesso piano del linguaggio con cui lo si vuole analizzare, detto “metalinguaggio”. Quest’ultimo, infatti, dovrebbe stare sopra, al di fuori dei confini del primo: su un piano concettuale differente. E questo, per Russell, crea un problema irrisolvibile: uno scarto che impedisce la chiusura del ragionamento: “Questo scarto – sottolinea Tagliagambe – è costituito dallo spazio intermedio, quello dell’insieme dei barbieri” che non appartengono né a chi si rade da solo, né a chi non si rade da solo. Una questione analoga, anche se più sofisticata, Russell la pose nel 1902 anche al matematico Friedrich Frege (1848-1925) provocando un grande patatrac nell’ambito di ricerca logico-matematico. Allora non si sapeva che questa crisi sarebbe stata molto fertile perché in grado di stimolare tante nuove e interessanti ricerche. E così fu che Frege ne uscì moralmente a pezzi: vide dissolversi il suo progetto di rendere i fondamenti della matematica privi di dubbi attraverso la riduzione dell’aritmetica alla logica e in particolare alla teoria degli insiemi. Da parte sua Russell tentò di blindare il linguaggio oggetto con una serie di accorgimenti logici, ma non ebbe molto successo.
In seguito Bateson, partendo dalla simulazione del combattimento delle scimmie, propose di prendere il toro per le corna: niente separazione netta tra i due piani del linguaggio oggetto e del metalinguaggio, ma loro considerazione in un quadro unitario (olistico). Ammettendo così implicitamente che esiste un piano intermedio che permette l’interconnessione e che risulta decisivo per la comprensione di tantissimi fenomeni. E qui torniamo alla riflessione di Tagliagambe, che sugli spazi intermedi ha molto riflettuto, sottolineando che si tratta di spazi non di separazione ma di intermediazione e collegamento virtuoso tra gli elementi interessati; e in grado di arricchirli molto con l’apertura di nuove strade conoscitive.
Eccoci, quindi, al metaverso, ovvero a quel mondo inteso come una “rete massicciamente scalata e interoperabile di mondi virtuali 3D” come recita Matthew Ball, citato dall’autore del libro di cui si parla. Mondi virtuali 3D, prosegue la definizione, “renderizzati in tempo reale”, ovvero in grado di rendere immagini, scritti e suoni immediatamente presenti a chi li cerca tramite particolari procedimenti informatici. Basta provare a cercare ad esempio “Cagliari città” o “gioco del calcio”, e si avranno immediatamente moltissime informazioni visive e non. E non solo, assieme a noi le stesse informazioni “renderizzate” possono fruirle “un numero effettivamente illimitato di utenti e con continuità di dati”, anche un discendente del barbiere di Russell che si trovi al Central Park di New York e abbia un computer con connessione Wifi. In più, oggi il pronipote di quel barbiere può anche giocare con Facebook, Istagram, Twitter, Tic Toc, ecc. ecc., passandoci dentro molto tempo sino ad avere con questi social network un rapporto di vita e di abitazione.
Mah, se è così, potrebbe dire il pronipote del barbiere, che comincia a capire l’antifona, possiamo ancora dire che il metaverso è solo una mappa o un modello dell’universo fisico? Certamente no, spiega Tagliagambe: “Ne è invece il gemello digitale”, che può essere definito come – e qui ritorna Ball – “una rappresentazione digitale dei dati, dello stato, delle relazioni e del comportamento di una qualunque entità fisica”, si tratti di persona o cosa. In pratica qualunque nostra interazione che avvenga su internet (da una telefonata a una ricerca, a uno spostamento…) lascia diverse tracce che diventano, appunto, il nostro gemello digitale. Ed ancora: dato che le tracce che noi lasciamo sono evidentemente diverse da quello che noi siamo ed anche dal mondo virtuale che le ospita (internet), vuol dire che il gemello digitale è uno spazio intermedio, “d’interazione che fa convergere e coinvolge insieme la dimensione fisica, comunque intesa, e quella virtuale”.
Se così è, va tratta la logica conclusione che parlare di gemelli digitali “significa che non siamo di fronte a una semplice rappresentazione o simulazione, ma a un flusso bidirezionale di dati che genera un’interconnessione imprescindibile tra le due dimensioni”.
Forse senza volerlo, col gemello digitale l’essere umano ha ricreato un corto circuito virtuoso che ricorda molto quello intuito da Bateson nell’osservazione sul gioco delle scimmie: che sembra si combattano, mentre in realtà giocano. E lo fanno perché han prodotto, in qualche modo, un “dialogare” tra il linguaggio oggetto, il piano del combattimento, e il metalinguaggio, quella serie di segnali intermedi, che stanno fuori dai segnali del combattimento, ma che hanno permesso di trasformare il combattimento in gioco. Un salto, si potrebbe dire, istintivo-spontaneo-cognitivo che, all’occhio dell’osservatore, ha comportato uno sforzo-salto immaginativo che ha permesso di superare le regole del combattimento per trasformarle in quelle del gioco. Uno sforzo di “immaginazione produttiva”, si potrebbe affermare riprendendo il concetto kantiano (dal filosofo Immanuel Kant, 1724-1804), ampiamente sviluppato da Tagliagambe, di un’idea, un “focus imaginarius”, un’immaginazione produttiva che – sottolinea lo stesso Kant – “giaccia fuori dal campo della conoscenza empirica possibile: se non che questa illusione (…) è tuttavia inevitabilmente necessaria, se oltre agli oggetti, che ci sono innanzi agli occhi , vogliamo vedere insieme anche quelli che ci stanno lontani alle spalle”.
E così i gemelli digitali, in cui converge e si coinvolge insieme sia la dimensione fisica che quella virtuale in un’interazione continua, possono diventare protagonisti di un ulteriore salto immaginativo. Un focus imaginarius, che scavalca l’effettualità di “quanto accade in tempo reale”, spiega Tagliagambe, in quanto i gemelli digitali “elaborano anche scenari possibili, quindi attivano funzioni di predizione”. In questo prospettiva, il libro riporta diversi esempi, da quelli negativi, come lo scandalo prodotto da Cambridge Analytica (che ha utilizzato i dati di 87 milioni di account Facebook per influenzare le campagne elettorali), ai tanti positivi, tra cui il cuore virtuale, “uno straordinario progetto di ricerca” del matematico Alfio Quarteroni, “Il primo tentativo al mondo di creare un modello integrato del cuore umano”; sino ai numerosi studi volti a realizzare gemelli digitali del cambiamento climatico.
In questo quadro concettuale, il metaverso viene analizzato da Tagliagambe in un intrigante viaggio che porta il lettore dalla fisica quantistica alle neuroscienze, dalla crisi dei fondamenti della matematica all’antropologia e all’epistemologia, dalla letteratura alla linguistica e a tanto altro. Un’odissea positiva che mostra come il metaverso sia diventato un caposaldo dell’attuale contemporaneità, che stimola e aiuta ad immergerci in una “prassi totale”, in una circolarità di produzione tra teorie e prassi, che può aiutare a trovare nuove chiavi per “vedere” e “ascoltare” meglio la vita.
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