Il nemico alle porte
di Natalino Piras
Il 4 novembre della “vittoria” come inganno permanente. Guerre, fascismi, retorica, orrori: chiedete a Gaza, in Ucraina, nello Yemen, in Iran…
Notte insistente di pioggia, questa. Ma non fa freddo. Né si avverte alcuna nostalgia come era un tempo agli inizi di novembre. Il nostro autunno si adegua alla perdita, al disvalore, all’ omologazione della pace alla guerra.
Questo autunno più degli altri è fatto di perdita delle differenze, di presa del potere da parte del simile, per dirla come Moravia nell’orazione funebre sul corpo oltraggiato di Pasolini, che umilia e gode e aumenta di prestigio e considerazione sociale, potere politico e potere economico, di sostanza e rappresentanza, nell’umiliazione e nell’abbattimento del dissimile.
È la cadenza d’inganno, metodo diabolico, quanto genera e legittima l’esistenza del nemico, quanto impone terrore e orrore che nessuna pioggia venuta dopo crudele e infinita estate, l’innaturale caldo del disastro ecologico globale, riesce a lavare.
Hannibal ad portas – e Annibale resta il nemico per antonomasia – come condizione immutabile da due millenni e passa. Come metafora globale e nel contingente tempo storico. Quello che legittima qualsiasi orrore.
Provate a chiedere a Gaza, in Israele, provate a chiedere a Gerusalemme cosa siano adesso simile e dissimile. Là, ma pure in Ucraina, o nello Yemen, in Iraq e in Iran, in tante mai pacificate Palestine quanto pesa, quanto attribuisce disvalore alle cose, è la parola nemico. Si è nemici o non si è. Avere nemici è condizione di coraggio (sic), di orgoglio, di fratellanza (sic), di patria addirittura. Come in quella canzonaccia patriottarda, “La canzone del Piave”, che un tempo ci facevano imparare a scuola: “Per far contra al nemico una barriera”. La suonano e la cantano ancora oggi, bande di esercito e marina e aviazione, in situazioni ufficiali che più sono solenni più sono mortuarie. “Il Piave mormorava”, che suonerebbe goliardico se non fosse che alterna come falso sentimento “Fratelli d’ Italia”, inno nazionale tra i peggiori al mondo, la suoneranno anche domani 4 novembre, giornata delle forze armate, anniversario della vittoria (sic) nella prima guerra mondiale. Vittoria dopo un inutile massacro (lo diceva il papa Benedetto XV), a. quattro anni, 28 ottobre 1922, della marcia su Roma, instaurazione in Italia del fascismo, quello del duce che aveva la guerra come struttura portante del suo iniquo esistere: “molti nemici molto onore”.
Il nemico è sempre uno simile che per diverse esigenze, di presunta difesa e necessario attacco, per legittimare guerra e morte, crea il dissimile.
Prima che esterno, il dissimile, il nemico alle porte, al tempo del fascismo del ventennio e del fascismo di adesso, il fascismo come tempo storico e come metafora, il fascismo come assoluta negazione di ogni fondante principio di libertà, era, è, il simile.
Molto, oggi, in questa Italia, è la continuazione del fascismo come esigenza e esistenza del nemico. Il simile che crea il dissimile come nemico è un odiatore di mestiere o per induzione, è uno che attua la politica del vuoto, che confonde il bene con il male, che usa a metodo la violenza che fu squadrista, violenza delle parole e dei gesti, assoluta icona, perciò da miglia e migliaia di follower, nei posti di potere, nei media, nei social. Simile che crea il dissimile, per dire di un nemico attuale, è uno come Sgarbi, inteso come tipologia, come imposizione di metodo, come pericolo tanto più pericoloso in quanto capace di suadenza, di inganno. Sintomatico che uno come costui, della tipologia di Sgarbi, più appare cinico, spregevole, privo di pietas, più è ammirato e seguito: in questa Italia dove lo status, imposto dalla politica estera e soprattutto interna, di governo in cui si rispecchia l’opposizione, è la democrazia come opzione, come legittimazione del ricco che oltraggia il povero, come retorica della memoria della guerra fatta passare per esigenza di pace. Come legitimazione del nemico.
«S’inimiku», in lingua sarda, è uno degli appellativi del diavolo, ossessiva presenza, sempre alle porte, sempre dentro le mura.
4 novembre, la vittoria, di Chi?
Le memorie di un ragazzo del 99 ( che non conosceva l’ italiano – lavorava in campagna dall’ eta’ di sette anni -) , di Chiaramonte Gulfi ( RG): ” Terra matta” , di Vincenzo Rabito .
https://www.labottegadelbarbieri.org/terra-matta-lepopea-di-vincenzo-rabito/