Il pianoforte di Gezi Park
Gezi Park occupato era il classico luogo che non ti aspetti. Alla fine di via Istiklal, strada pedonalizzata in uno dei quartieri più ricchi di Istanbul: Pera, tradizionalmente cattolico. Lungo il percorso negozi di prodotti griffati, locali alla moda per turisti, qualche musicista di strada suonatore di buzuki. La presenza degli occupanti diventava più evidente negli ultimi due-trecento metri. Slogan scritti con lo spray sui muri, tutti rigoramente in turco. Dicevano; «Ovunque è Taksim, ovunque è resistenza». Poi le immancabili Acab, qualche falce e martello. Alla fine c’era Piazza Taksim. Sulla sinistra il presidio dei poliziotti in assetto antisommossa e un paio di blindati armati di idranti. Una striscia gialla li divideva dal resto della piazza.
Chi è stato qui fin dalla prima ora ci ha raccontato che non sono mai andati via, neanche di notte. Qualcuno ha dormito su alcune sedie di plastica bianca. Ogni tanto un drappello si staccava per fare un giro verso Gezi Park distante non più di trecento metri. Ogni volta saliva la tensione ma poi non succedeva nulla. Almeno fino a sabato.
La sera prima dello sgombero un pianoforte aveva incantato qualche centinaio di persone, poliziotti compresi. A suonarlo personalità come Davide Martello, pianista tedesco di origini italiane, o Gülsim Onay, una celebrità in Turchia. Suonava già a sei anni e da adolescente era stata spedita dal governo a perferzionarsi in pianoforte in Francia. Oggi è ambasciatrice dell’Onu e aveva deciso di portare la sua solidarietà ai manifestanti di Gezi Park suonando Chopin. Questa è stata da subito una caratteristica della protesta: la capacità di ricevere solidarietà da settori molto diversi del paese. Una parte della borghesia illuminata, qualche cantante, alcuni attori, ma soprattutto l’appoggio popolare. Per esempio quello dei piccoli negozi di alimentari intorno al parco. «Durante le proteste – ha raccontato un manifestante – molti di loro ci hanno aperto le porte per scappare dalla polizia. Chi non l’ha fatto come Starbucks, che ha una sede proprio di fronte Gezi Park, è stato boicottato. Tra gli abitanti vicini chi aveva una bandiera della Turchia o di Atatürk alla finestra era considerato un luogo sicuro dove rifuggiarsi dalla caccia all’uomo fatta dalla polizia».
Carcasse di bulldozer
L’effige dell’eroe nazionale Atatürk è stata uno dei simboli della protesta. In tutta Istanbul venditori ambulanti distribuivano poster e bandiere con il suo volto e una foto gigante campeggiava qualche centinaio di metri più in là sulla facciata principale dell’Atatürk Kültür Merkezi, un centro culturale di imponenti dimensioni chiuso da cinque anni, che rappresenta l’altro fronte di protesta nei confronti del governo. Erdoğan vorrebbe demolirlo per farne l’ennesima moschea. Di fronte alle prime proteste ha promesso un nuovo centro culturale. Nei fatti è rimasto lì abbandonato e durante lo sgombero è stato riempito con i cartelli e le scritte salvate dall’assalto della polizia.
Gezi Park, invece, sembrava una specie di repubblica indipendente cresciuta nel centro di Istanbul sulle macerie di uno scenario post bellico. Intorno, carcasse di bulldozer bruciati o dipindi di rosa. Molte le scritte. Diverse anche in solidarietà con gli operai del cantieri. «Fin dal primo giorno – spiegava un altro manifestante – abbiamo cercato di far capire i motivi della nostra protesta anche a chi era venuto per lavorare qui. Non siamo contro di loro». I sindacati del settore pubblico e privato, Disk e Icesk, sono stata un’altra componente forte all’interno del presidio. Dagli anni ’80, dopo il golpe militare, qui in Turchia i sindacati hanno fatto fatica a riprendere l’iniziativa. Ancora oggi non esiste un vero e proprio statuto dei lavoratori, per convocare uno sciopero ci vuole la sindacalizzazione di più del 50 per cento dei lavoratori e chi si ferisce sul lavoro riceve solo un piccolo indennizzo quando va bene. «Tanto per dire – continuano ancora – quando qualche mese fa sono entrati in agitazione i lavoratori della Turkish Airlines, che poi hanno solidarizzato con Gezi Park, il governo Erdoğan ha emanato leggi per fare finire subito la loro protesta».
Qualche metro a sinistra rispetto all’entrata una rete da cantiere arrugginita era diventata il posto dove attaccare centinaia di biglietti con i desideri dei manifestanti. Qualcuno li ha raccolti nel sito GeziSpeaks. Superati i primi scalini si entrava nel parco con le tende e i gazebo. E il quadro d’insieme era davvero notevole. Il classico banchetto con le bandiere e le magliette rosse con la mezza luna bianca simbolo della Turchia conviveva con chi vendeva maschere antigas e quelle con la faccia di Guy Fawkes, che in tutti il mondo simboleggia le proteste di accampati e indignati. C’erano cartelloni e bandiere di qualsiasi partito e partitino comunista, ma anche Banski. Non mancava Che Guevara, insieme alle bandiere iridate dei gruppi Lgbt. O le foto di Ocalan dei curdi del Pkk non troppo distanti da quelle dei nazionalisti turchi. Facava capolino anche un gruppo di «Mussulmani contro il capitalismo» oltre a diverse sigle anarchiche. E poi i riferimenti sarcastici ad Erdoğan chiamato con il suo nome di battesimo Tayyip, cosa che pare essergli piuttosto indigesta. E quindi Erdoğan nei panni del grande dittatore di Chaplin, oppure la varie declinazioni di «chapulling» che in turco significa «saccheggiatore» perché fin dal primo giorno è stato il termine usato dal governo per definire quelli di Gezi Park: medici çapulcu, insegnanti çapulcu, attori di strada çapulcul.
I documentari sui pinguini
Un altro simbolo della protesta è stato il pinguino perché mentre le proteste cominciavano la tv pubblica distraeva il paese con documentari sui pinguini. «La situazione dei media in Turchia – ci hanno raccontato in uno dei centri media dell’accampamento – è piuttosto delicata. Ovviamente il governo controlla la tv pubblica, ma quella privata viene condizionata con i ricatti: se diffondono immagini e notizie che nuociono al governo vengono multati e chiusi». Come è successo ai canali Halk Tv o Hayat Tv. Una situazione che produce contraddizioni. Nei giorni scorsi lo ha dovuto ammettere anche l’amministratore delegato di Doğuş Holding, Cem Aydın, che gestisce il canale privato Ntv: «i nostri telespettatori si sono sentiti traditi». In questa situazione i manifestanti si erano organizzati, accanto all’utilizzo dei social media, con le connessioni fornite anche dalle case intorno a Gezi Park quando la polizia ha chiuso le comunicazioni via cellulare, sono nate delle web gestite direttamente dai manifestanti. Per esempio Gezi Park Tv o Çapul Tv. E perfino Gezi Radio gestita dal gruppo Müştereklerİmİz che in turco significa beni comuni. Molti di questi mediattivisti sono stati determinanti per documentare le violenze della polizia prima e dopo lo sgombero di Gezi Park.
Ma che Gezi Park fosse una specie di «repubblica indipendente» lo dimostrava soprattutto il modo autogestito con il quale sono riusciti a far convivere tutte queste differenze e a far funzionare un accampamento che aveva raggiunto il migliaio di persone. Nel parco c’erano un supermercato per comprare insieme le cose da mangiare, una libreria dove scambiarsi libri, tre presidi sanitari gestiti dall’ordine dei medici della Turchia. Una presenza così indigesta al governo da indurre il ministro della sanità, İzzet Taşçı, a a mandare una ispezione per chiedere cosa ci facessero lì ottenendo come risposta che loro andavano dove c’era bisogno di cure e le cure sono un diritto umano fondamentale. Ma la centralità era l’assemblea generale che si teneva al centro dell’accampamento. «Nei giorni scorsi – ci ha racconta Ongun Yücel, del coordinamento Taksim solidarietà – un gruppo di otto persone aveva incontrato Erdoğan ad Ankara dove avevamo portato le nostre richieste: no alla distruzione del parco, dimissioni dei prefetti nelle città dove ci sono state le violenze della polizia e individuazione dei colpevoli, divieto di gas lacrimogeni, libertà di manifestazione visto che tutt’ora ad Ankara gli scontri avvengono perché la situazione non viene tollerata e liberà per i manifestanti incarcerati senza conseguenze penali». Su tutto questo quelli di Gezi Park avevano già ottenuto una vittoria: sul parco è pendente un giudizio della magistratura, con procedimento aperto dagli avvocati dei manifestanti il primo giugno, rispetto alla fattibilità del progetto di costruzione di un grande centro commerciale. Erdoğan aveva promesso che se la magistratura si pronuncerà contro ne prenderà atto, altrimenti porrà la questione ad un referendum cittadino. Sul resto i manifestanti aspettavamo ancora risposte prima del violentissimo sgombero. C’erano stati prima forum tematici e poi una assemblea sulla possibilità di restare oppure andare via. La maggioranza aveva deciso di rimanere. Intanto, però, la questione del parco era diventata decisamente secondaria rispetto al pacchetto di richieste che tutti i gruppi riuniti in questo nuovo cartello sociale aveva messo sul piatto. Qualcosa che non si era mai vista in Turchia: da gruppi ecopacifisti come Greenpeace che denunciano le speculazioni edilizie di un nuovo ponte e di un nuovo aereoporto, a chi si batte contro il nucleare in Turchia. Dalle femministe che denunciano le svolte conservatrici nella società (chi ha visitato la Turchia quindici o venti fa anni racconta che non si sono mai viste tante donne velate) alle rivendicazioni sindacali.
E’ stato questo, e non altro, che ha indotto il governo a tentare il colpo di mano dell’altra sera. Unitamente al fatto che Erdoğan si sta giocando la credibilità interna come leader. Domenica a Istanbul era indetta una manifestazione del partito del premier in un paese che il prossimo marzo andrà ad elezioni legislative. Nell’incontro con i manifestanti il premier turco aveva promesso che non avrebbe fatto un comizio contro Gezi Park. Nei fatti non è stato così ed il premier ha giocato sulla paura che incuteva lo slogan di quel comizio: «Disinneschiamo il grande complotto, scriviamo una pagina di storia». Oggi, però, la Turchia è di fronte ad un dilemma: o imboccare la strada di una svolta conservatrice o guardare al futuro e lasciare che lo spirito di Gezi Park diventi un modello percorribile per il resto del paese. I giovani turchi, quelli veri, hanno capito che si può fare e ci sperano. E Il resto dell’Europa non può rimanere a guardare. Avrebbe molto da imparare per trovare nuove strade di uscita da una crisi continentale che è economica, certo, ma soprattutto sociale e democratica. Crisi, in fondo, significa cambiamento.
Marco Trotta era a Istanbul sabato, durante la lunga notte di Gezi Park. Poco prima dell’assalto deciso dal governo contro i manifestanti aveva inviato a Comune-info un reportage e diverse fotografie, «Le password della rivolta». Sull’insurrezione turca suggeriamo la lettura anche di La resistenza di Gezi Park di Taylan Tosun.
Su globalproject.info, invece, trovate le foto che hanno fatto il giro del mondo e che dimostrano come la polizia abbia utilizzato a Istanbul sostanze chimiche negli idranti. Ancora una volta, la protesta è anche un’insurrezione dell’informazione e della comunicazione indipendente.