Il presidenzialismo alla nicaraguense
A proposito di Daniel Ortega che ha (ri)assunto la presidenza del Nicaragua
di Bái Qiú’ēn
Lunga promessa con l’attender corto / ti farà trïunfar ne l’alto seggio (Dante Alighieri).
Bisogna, adunque, essere golpe [volpe] a conoscere e’ lacci, e lione [leone] a sbigottire e’ lupi (Niccolò Machiavelli).
Le decían bandolero por mirar al sol de frente / Quería tanto a su pueblo, no quería ser presidente (Luis Enrique Mejía Godoy).
I.
«Este es un tema que yo lo conversé con el presidente Bolaños allá por el año 2002-2003, y donde le decía que era conveniente, que era saludable para el País, que en Nicaragua quebráramos el esquema presidencialista y buscáramos cómo democratizar el poder».
Le parole sopra citate erano state pronunciate da Daniel Ortega nell’ottobre del 2005 nel corso di una intervista televisiva con Carlos Fernando Chamorro, quando ancora era alla opposizione: «Questo è un tema che ho discusso con il presidente Bolaños già nel 2002-2003, quando gli avevo detto che era conveniente, che era salutare per il Paese, che in Nicaragua spezzassimo lo schema presidenzialista e cercassimo il modo per democratizzare il potere».
L’equazione negativa risulta evidente: quello presidenziale non è un sistema democratico. Quanto meno in Nicaragua. Tant’è che poche battute dopo, aveva aggiunto: «Nosotros queremos llegar a la presidencia para acabar con el presidencialismo. Para provocar un cambio verdaderamente democrático en el País. […] Para promover la disolución del poder presidencial». Questo programma elettorale e politico era ben chiaro, senza possibilità alcuna di fraintendimenti: «Vogliamo arrivare alla presidenza per mettere fine al presidenzialismo. Per produrre un cambiamento davvero democratico nel Paese. […] Per promuovere la dissoluzione del potere presidenziale».
Queste idee estremamente precise, esposte nel programma Esta semana e trasmesse sia da Canal8-Telenica sia da Canal4-Multinoticias, non le aveva buttate lì tanto per dire qualcosa all’ex direttore di Barricada. Già nel discorso del 19 luglio 2003, davanti a oltre centoventimila persone radunate nella Plaza Juan Pablo II per festeggiare l’anniversario della Rivoluzione popolare sandinista, aveva affermato che quando qualcuno arriva alla presidenza della Repubblica vuole controllare tutti i poteri dello Stato, «poiché si crede un re». Per cui, «Se vogliamo dare davvero il potere al popolo, in modo che possa prendere decisioni nel campo economico, in quello sociale e in quello istituzionale, dobbiamo mettere fine al sistema presidenzialista, e dare quel potere al parlamento». Propose pure la creazione della figura del Primo ministro.
Nel dibattito che ne seguì, intervennero politici, giuristi, intellettuali… discutendo per lungo tempo sui pro e sui contro.
Due anni dopo la vittoria elettorale, nel 2009, all’interno del Frente Sandinista si affrontò nuovamente l’argomento, proponendo che il Presidente fosse eletto dai deputati della Asamblea Nacional. L’imput venne da Rafael Payo Solís, allora membro della Corte Suprema e testimone di nozze della coppia Ortega-Murillo (2005), il quale affermò che il cambio avrebbe dato una maggiore stabilità al Paese. Il Frente Sandinista aveva solo 38 deputati su 90, per cui sarebbe stato necessario un consenso bipartisan.
Occorre comunque ricordare che, all’epoca, il primo comma dell’articolo 147 della Costituzione modificato il 1° febbraio 1995 (con la Legge n. 192) proibiva espressamente la rielezione del Presidente in carica e la candidatura di suoi parenti o affini. Per cui, essendo il Paese delle contraddizioni, già nell’ottobre del 2009 Daniel aveva presentato un ricorso contro questo comma e a tamburo battente la Corte Suprema stabilì che quell’impedimento violava i diritti umani. Il comma fu abrogato, risolvendo con un tratto di penna la questione della modifica costituzionale bipartisan.
E, da quel momento, non si parlò più di mutamento della forma istituzionale.
II.
«Un comunicato ufficiale del Governo annuncia che il generale Augusto Sandino, capo degli insorti nicaraguani nelle rivolte del 1932 e 1933, è stato ucciso». Con queste parole, due giorni dopo il fatto, i lettori del quotidiano La Stampa appresero dell’uccisione del Generale degli Uomini Liberi («Il capo degli insorti Sandino ucciso dalle guardie nazionali», 23 febbraio 1934). Le stesse parole comparivano sugli altri quotidiani italiani lo stesso giorno o quello successivo, a partire dai torinesi Gazzetta del Popolo e Il Momento, trattandosi di un dispaccio della United Press. Cambiavano solamente i titoli: «Il capo degli insorti del Nicaragua assassinato a tradimento a Managua» (Corriere della Sera, 23 febbraio); «Sandino e altri capi ribelli uccisi in un’imboscata al Nicaragua» (Il Popolo d’Italia, 23 febbraio); «Un eccidio nel Nicaragua» (L’Avvenire d’Italia, 24 febbraio); «La strage di Managua. I capi dei nazionalisti del Nicaragua orrendamente trucidati» (Il Giornale d’Italia, 24 febbraio); ecc.
Se i lettori di Managua, sulla prima pagina de La Prensa , acquistata nel 1932 da Pedro Joaquín Chamorro Zelaya, il 25 febbraio lessero il titolo su sette colonne «Relazione degli eventi accaduti nella notte del 21 in questa capitale», nei giorni successivi in Italia cessarono le notizie relative a ciò che stava accadendo in quei giorni nel lontano Nicaragua.
Parecchi anni fa provammo di ricostruire quei giorni attraverso le cronache dei quotidiani nicaraguensi dell’epoca, inutilmente. Poco o nulla è conservato alla emeroteca nazionale ubicata nell’antico Palacio Nacional in Plaza de la Revolución e in quella del Banco Central.
Su quella prima pagina ingiallita de La Prensa comparivano due dichiarazioni che si contraddicevano tra loro: quella del presidente Juan Bautista Sacasa e quella del capo della Guardia Nacional. Nella prima si leggeva: «Nella notte del 21 corrente, un gruppo di militari in servizio in questa capitale, contrariamente ai miei ordini specifici sulle complete garanzie offerte al generale Augusto C. Sandino, lo catturò […]. Poco tempo dopo, lo stesso gruppo di soldati della Guardia Nacional, ha ucciso il generale Sandino».
Dal canto suo, il futuro dittatore Anastasio Somoza García parlava di «voci faziose che circolano e mettono in dubbio la lealtà dall’esercito al governo costituzionale» e aggiungeva che «è in corso una indagine, in adempimento degli ordini impartiti dal signor Presidente, e che nel momento in cui saranno stabilite le vere responsabilità, procederà con l’energia che il caso richiede».
Passarono le settimane e i mesi, non tantissimi per la verità, e il 22 agosto successivo la Camera e il Senato (all’epoca esisteva anche questo organo legislativo) emanarono una legge che all’art. 1 dichiarava: «Si concede una ampia amnistia per reati politici o militari o comuni a essi correlati, commessi nel periodo dal 16 febbraio 1933 alla data di entrata in vigore della presente legge, da individui che hanno prestato servizio nelle forze del generale A.C. Sandino o contro di loro, e che avessero deposto le armi davanti alle autorità costituite per dedicarsi alle attività di lavoro e di pace».
Sacasa e il suo governo erano contrari a quella amnistia, la quale tra le righe cancellava ogni responsabilità relativa all’assassinio di Sandino e dei suoi uomini, ma a tutti gli effetti il Presidente contava come il due di spade quando si gioca a scacchi (già Rubén Darío lo aveva soprannominato «nullità sorridente»). A poco servì la dichiarazione del 4 settembre, sottoscritta da tutti i ministri: «Ogni volta che l’Esecutivo ha negato la sua approvazione ad alcune leggi decretate dal Congresso, lo ha fatto per l’incrollabile tutela della convenienza pubblica. Nel presente caso straordinario in cui il decreto di sanatoria include indubbiamente la responsabilità degli eventi della notte del 21 febbraio, in cui furono assassinati il generale A.C. Sandino, suo fratello Socrates e i suoi assistenti Estrada e Umanzor, il governo non può ignorare che il potere legislativo sta coprendo con l’amnistia i colpevoli di quegli eventi». Ma ormai, Tacho Somoza aveva l’appoggio incondizionato dei parlamentari. Bipartisan.
Il 10 settembre la Camera e il Senato, nonostante il veto presidenziale, approvarono l’amnistia. Ebbe così inizio il regime neo-sultanesco della famiglia Somoza, nel quale i figli succedettero al padre.
III.
Poiché «Gli avvenimenti sono la dialettica reale della storia. Essi superano ogni ragionamento, ogni arbitrio personale, ogni velleità incomposta e irresponsabile» (Antonio Gramsci, 3 marzo 1921), è opportuno ricordare che negli anni successivi al 2009 neppure valeva la pena fare ricorsi legali e perdere tempo per abrogare altri articoli o commi: è tuttora vigente nel 147 (modificato nel 2014, quando già Daniel era presidente da sette anni e i deputati del Frente erano saliti a 63 su 90) il divieto ai parenti e affini del Presidente di potersi candidare a qualsiasi carica elettiva. Per cancellarlo non serviva alcun accordo bipartisan, ma è stato sufficiente ignorarlo, come se non esistesse, e la moglie Rosario Chayo Murillo ha potuto essere eletta Vicepresidente (oggi Co-presidente). In qualsiasi Stato di diritto, con una magistratura indipendente dal potere politico e dall’esecutivo, la sua candidatura e la sua elezione sarebbero state dichiarate costituzionalmente illegittime. Non sappiamo come definire un governo che ignora totalmente le leggi, persino quelle che ha emanato lui stesso, e con una magistratura che regolarmente non vede, ma di questo governo certo non opera in uno Stato di diritto.
Checché ne dica il solito Innominabile de Roma, il quale di giurisprudenza non capisce un pepino. Di tanto in tanto, butta lì le sue idee farlocche, affermando che «Le fondamenta dello Stato di Diritto […] vengono consolidate dall’accesso dei cittadini alle urne e dalla libera espressione del voto» («Venezuela, la UE può andare», 24 febbraio 2021). Secondo questo novello Azzeccagarbugli, in fervida attesa dei capponi di Renzo Tramaglino o di altri svariati soggiorni gratuiti in Nicaragua (¡Pura vida!), lo Stato di diritto esiste e si rafforza ogni volta che il cittadino va a votare «e passa la sua vita a delegare e nel farsi comandare ha trovato la sua nuova libertà» (Giorgio Gaber). Lo stesso accadeva pure con la estirpe sangrienta dei Somoza, nel corso di 43 anni, e accade in qualsiasi altra dittatura passata presente e futura in giro per il mondo: ultimo esempio in ordine di tempo, le elezioni in Honduras. Che poi nell’attuale Nicaragua il governo e le istituzioni non rispettino alcuna legge, a partire dalla Costituzione, per lui è un particolare di secondaria importanza. Del tutto irrilevante e insignificante. L’importante è che le leggi siano rispettate dagli oppositori. Solo così, per lui, esiste lo Stato di diritto.
Del resto, cosa ci si potrebbe aspettare da chi neppure ha la correttezza professionale e morale di attenersi all’art. 2 (comma e) del codice deontologico stabilito dal Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti: «non […] accetta privilegi, favori, incarichi, premi sotto qualsiasi forma (pagamenti, rimborsi spese, elargizioni, regali, vacanze e viaggi gratuiti) che possano condizionare la sua autonomia e la sua credibilità» (27 gennaio 2016)? Sarà un adepto del classico «Me ne frego»? Mentre scriviamo, qualcuno ci ha informati che l’embedded è nuovamente al caldo afoso della estate tropicale di Managua, per la terza volta in tre anni, con viaggio pagato e ospite in un hotel di lusso… ¡Pura vida!
A quanto pare, non ha mai sentito parlare di separazione dei poteri, risalente a Montesquieu e vera cartina di tornasole sulla esistenza o meno di uno Stato di diritto, il quale nel 1748 (ciumbia 1748!) scriveva: «Chiunque abbia potere è portato ad abusarne; egli arriva sin dove non trova limiti […]. Perché non si possa abusare del potere occorre che […] il potere arresti il potere». Per cui, questo filosofo illuminista affermò la necessità che il potere esecutivo, quello legislativo e quello giudiziario fossero indipendenti l’uno dall’altro. Condizione basilare che non esiste, oggi come oggi, in Nicaragua. Daniel lo disse nel 2003: il Presidente «si crede un re». E oggi tutti gli apparati dello Stato, elettivi o meno, sono politicamente controllati dalla presidenza della Repubblica. Che, all’epoca restava in carica cinque anni, non rinnovabili.
Con la perfetta ignoranza della realtà, per non dire peggio, l’Innominabile ha pure affermato che «Sull’applicazione o meno delle leggi si gioca il conflitto tra lo Stato di Diritto e il rifiuto dello stesso» («Nicaragua: la colonna infame», 13 giugno 2021). Il che sarebbe corretto, se fosse vero nel luogo e nel tempo in cui egli colloca il proprio discorso. Per lui, come si è detto, è solo l’opposizione lautamente finanziata dai gringos che non rispetta le leggi. Senza dubbio si tratta di strabismo ideologico e una visita dell’oculista non gli farebbe male. (In questo caso specifico, intendiamo marxianamente il termine ideologia come «falsa coscienza»).
Oltretutto, il rispetto delle leggi nulla ha a che fare con lo Stato di diritto: si tratta del rapporto tra lo Stato e i cittadini, non tra i vari poteri. Qualsiasi giurista glielo potrebbe spiegare assai meglio di noi. In ogni caso, seguendo il suo ragionamento fino ai limiti dell’assurdo, i partigiani che impugnarono le armi nel 1943-‘45, stavano palesemente infrangendo le leggi fasciste in vigore e, sebbene grazie a questa violazione abbiano liberato l’Italia dal nazifascismo, erano effettivamente banditen. D’altro lato, i repubblichini che le rispettavano e trucidavano i partigiani, stavano agendo all’interno di uno Stato di diritto. Era il loro diritto, il diritto fascista, ma pur sempre diritto. E il mai sufficientemente vituperato Codice Rocco del 1930 è tuttora vigente, pur con modifiche e abrogazioni.
Un caro amico italiano che purtroppo non è più tra noi, parecchi anni fa, con espressione compunta e tono altrettanto serio, ci disse che secondo lui i nicaraguensi sono anarchici a loro insaputa. Intendendo con il termine «anarchici» l’assenza di qualsiasi forma di rispetto nei confronti degli altri. Definizione che sottoscriviamo, con l’aggiunta: sia in basso, sia in alto. Anzi, soprattutto in alto, perché non si tratta soltanto di rispettare il proprio turno restando in fila e di non gettare qualsiasi immondizia ovunque capita.
Daniel, nell’ormai lontano 2003, aveva affermato che chiunque giunga alla presidenza «si crede un re». Peccato che lui stesso, e gli esempi potrebbero essere infiniti, non fa eccezione a questa regola caudillista. Se non per il fatto che, a tutti gli effetti, è la regina a comandare su sei milioni e rotti di regnicoli. Il re è solamente un simbolo, un totem, utile per far credere che tutto sia esattamente come negli anni Ottanta.
Umilmente, suggeriamo all’Innominabile la attenta lettura di un testo politico di Vittorio Alfieri, pubblicato nel 1802: Della tirannide. Potrebbe scoprire che «Tirannide indistintamente appellare si deve ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzione delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto eluderle, con sicurezza d’impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono o tristo, uno, o molti; ad ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammetta, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo».
Per questo autore di famose tragedie, libertario ante litteram con il quale prende avvio un atteggiamento risoluto contro il dogmatismo, qualsiasi sistema politico rappresenta una forma tirannica, compreso quello che in cui viviamo attualmente e siamo abituati a definire «democrazia parlamentare e rappresentativa» (borghese).
Se l’Innominabile non ha la voglia né il tempo di leggere Alfieri, potrebbe almeno meditare sul concetto di Gramsci pubblicò nel marzo del 1924, iniziando un suo famoso articolo: «Ogni Stato è una dittatura».
IV.
A questo punto, un intermezzo ci pare necessario. Il politologo argentino Atilio Borón, da parecchi anni ripete come un mantra che nei Paesi europei (e non solo) alcuni politici restano al potere per decenni: «identica ossessione in Angela Merkel o Benjamin Netanyhau, per non parlare di Helmut Kohl o Felipe González, o della stessa Democrazia Cristiana italiana che ha passato più di quaranta anni al governo» («Mentir sobre Bolivia», 25 novembre 2019). Per cui, gli pare logico e naturale che pure nei Paesi latinoamericani possa, anzi debba, essere rieletto a vita il presidente della Repubblica. Ovviamente nel caso in cui il Presidente sia o si dichiari di sinistra. Senza neppure rendersi conto che, come esempio possibile, se Bolsonaro riuscisse a togliere il limite dei due mandati consecutivi previsti in Brasile, potrebbe restare in carica in eterno.
Peccato che i personaggi da lui citati fossero presidenti del Consiglio e siano tutti Stati con un presidente della Repubblica eletto dal parlamento (eccezion fatta per dieci Paesi su venti con un sistema monarchico, Vaticano e Andorra esclusi) e un Primo ministro pure eletto dai parlamentari. Con poteri e funzioni assolutamente distinti: si chiama bilanciamento dei poteri, in termine tecnico. Mentre in America latina il sistema presidenziale, copiato da quello statunitense (comunque mitigato dai poteri effettivi di Camera e Senato), concentra nelle mani di una sola persona tutto il potere.
Per quanto riguarda Angela Merkel, ci pare che abbia governato con coalizioni assolutamente diverse, compresa la Große Koalition tra i due partiti maggioritari. Esattamente come la nostrana DC nei lunghi decenni di sovranità limitata, dalla Liberazione a Mani Pulite (condizione della quale Borón non tiene conto, ammesso che ne abbia mai sentito parlare). E i governi da lui citati, nessuno escluso, dovevano avere la maggioranza in parlamento. A prescindere da chi fosse il presidente della Repubblica in carica. Nel corso di quaranta anni ne sono passati ben otto, dei quali quattro con tendenze politiche non democristiane: de Nicola, Einaudi, Saragat e Pertini. E, nello stesso periodo di tempo, abbiamo avuto pure un paio di presidenti del Consiglio non democristiani (Spadolini e Craxi). Serve insistere ancora sulla nostra storia politica per confutare una mezza verità, spacciata per verità assoluta?
L’unico sistema presidenziale nella Europa cosiddetta Occidentale, è quello francese. Dove, però, dal 1948 esiste un Primo ministro, anche se nessuno ne parla ed è un perfetto sconosciuto (quello attuale si chiama Jean Castex), con poteri distinti. Per quanto Macron possa fare il bello e il cattivo tempo su quasi tutto, si tratta di un sistema a tutti gli effetti semi-presidenziale. Diverso da quelli latinoamericani.
Sistemi istituzionali europei paragonabili ai latinoamericani sono quelli degli ex Paesi dell’Est, che Borón neppure cita di sfuggita. Per ricordare un paio di campioni di democrazia, chissà se conosce l’esistenza di Orban e di Lukashenko?
Insomma: che in Europa esistano ancora delle monarchie, che i Presidenti siano eletti dal parlamento, che i Primi ministri non siano la stessa cosa dei presidenti della Repubblica (o dei regnanti), per lui sono fatti assolutamente irrilevanti.
In ogni caso, mai ha ricordato l’unico esempio di sistema presidenziale che, a quanto ci risulta, abbia rieletto per quattro volte consecutive lo stesso presidente. Ci riferiamo a F.D. Roosevelt (1933-1945), deceduto all’inizio del quarto mandato.
Possibile che non conosca la differenza di sostanza, non di forma, tra un sistema presidenziale e un sistema parlamentare? Che razza di politologo è? Che razza di marxista è?
Poiché il teorema di Borón ci pare basato su una eccessiva faciloneria, se non su una scarsa conoscenza dell’argomento di cui tratta, giocando con il suo cognome, verrebbe voglia di suggerirgli la opportunità di fare un bel borrón y cuenta nueva. Punto e a capo. Una rilettura de Le lotte di classe in Francia e de Il 18 brumaio, forse non gli farebbe male.
Il ridicolo è che, alle volte, lo stesso assurdo paragone è fatto da europei che si dichiarano di sinistra, pure loro spesso autodefinentisi marxisti. I quali dovrebbero conoscere questa sostanziale differenza istituzionale. Ma la propaganda è propaganda e, come afferma lo stesso Borón, mai è sinonimo di informazione (El hechicero de la tribu, Ediciones Akal S.A., 2019).
V.
Per quanto concerne l’Innominabile, saremmo tentati di suggerirgli di lasciar perdere la giurisprudenza sia nicaraguense sia italiana, visto che è uno dei tanti argomenti dei quali conosce solo l’esistenza. Ma sappiamo per esperienza che i buoni consigli non sono quasi mai accolti. E non è certo nostra intenzione sentirci «come Gesù nel Tempio» (Fabrizio de André).
Uno dei suoi cavalli di battaglia, che potete leggere sotto varie forme nei suoi articoli, è: i mezzi di comunicazione dell’opposizione affermano costantemente che in Nicaragua c’è una dittatura. Se sono liberi di dirlo e di ripeterlo costantemente, significa che non esiste alcuna dittatura. Logica impeccabile della classica massaia di Voghera: se esci senza ombrello quando piove, ti bagni.
Però scorda volutamente, o più probabilmente non sa, che per circa venti anni e tutti i santi giorni Pedro Joaquín Chamorro Cardenal sulle colonne di La Prensa definiva «dittatura» il governo della famiglia Somoza: «per prima cosa è essenziale uscire dalla dittatura familiare, feudale e dinastica, che ci opprime all’estremo di aver snaturato tutti i valori della nostra società e deformato il carattere stesso del nicaraguense», scriveva il 1° marzo 1976 (El periodista, 2007 [p. 110]).
È solo una delle mille citazioni che potevamo fare. La stessa cosa accadeva sulle colonne di El Gran Diario o di Flecha, altri quotidiani di opposizione al somozismo, che vari anni fa abbiamo consultato presso la emeroteca del Banco Central. Lettura che consigliamo vivamente all’Innominabile, visto che attualmente si trova a Managua (se così non è, siamo pronti a rettificare). E lo stesso facevano, quotidianamente, alcune emittenti come Radio Mundial e Radio Corporación.
Usando la sua stessa logica, la stessa sul non rispetto delle leggi da parte dei partigiani: poiché i vari Somoza lasciavano che la stampa dell’opposizione li definisse «dittatori», evidentemente non lo erano.
VI.
Mentre il Lussemburgo ha deciso di chiudere a propria ambasciata a Managua, si è aperta quella della Repubblica popolare cinese nell’edificio che era proprietà di Taiwan (violando palesemente il locale Codice civile e le norme internazionali), l’Unione Europea e gli Stati Uniti hanno sanzionato nuove istituzioni e personaggi pubblici, il 10 gennaio Daniel è succeduto imperterrito a se stesso per la quarta volta consecutiva, mettendo definitivamente una pietra tombale sulle parole scritte dal Generale degli Uomini Liberi nel Manifiesto de San Albino: «L’uomo che dalla sua Patria neppure chiede un palmo di terra per la propria sepoltura merita di essere ascoltato, e non solo di essere ascoltato, ma anche creduto» (1° luglio 1927).
Che venti anni fa credesse realmente nella necessità di un mutamento della forma istituzionale non lo mettiamo in dubbio. Non abbiamo motivo di ritenere che fosse soltanto una promessa elettoralistica. Dopo un ventennio, dei quali quindici al potere, è ragionevolmente logico pensare che si sia trasformata in una classica promessa da marinaio. È davvero così, o c’era qualcosa sotto?
Per rispondere a questa domanda, vale la pena concludere ricordando che in occasione di una intervista al giornalista britannico David Frost, per il canale televisivo Al Jazira, nel marzo del 2009 aveva dichiarato che sua madre Lidia Albertina, deceduta nel 2005, visse fino ai 97 anni: «Y yo espero poder vivir el tiempo suficiente para contribuir a esta nueva etapa de desarrollo de la revolución». E aggiunse, scoprendo le sue reali intenzioni, ben lontane dalla idea di una democratizzazione del sistema politico-istituzionale: «Sentiamo fortemente la necessità di porre fine al sistema presidenziale e fare posto a un sistema parlamentare che non abbia questi limiti per le elezioni successive, uno in cui non ci siano inibizioni affinché si possa realizzare la rielezione delle autorità».
Pochi mesi dopo riuscì a far cancellare l’articolo costituzionale che proibiva la rielezione, rendendo superflua qualsiasi ipotesi di mutamento istituzionale. Auspicato solo perché rendeva possibile la rielezione a vita, altro che «democratizar el poder», una volta come presidente della Repubblica e quella successiva come presidente del Consiglio, ecc. ecc. ecc.
Per quanto Alfieri e Gramsci ritenessero che ogni sistema di governo sia una dittatura de facto, per cui presidenziale o parlamentare, di uno o di molti, non fa alcuna differenza, ci pare che le aspirazioni di Daniel fossero e siano un tantino diverse dal non volere neppure un semplice palmo de terra para su sepultura. ¡Pura vida!