Il problema sono i bassi salari e non la scarsa produttività
di Autoconvocat* – contro la crisi (*)
La Confindustria fa pressing da anni, sia nella contrattazione con le OOSS che nei confronti del governo, perché passi il concetto che la competitività dipenda totalmente dalla produttività con il fine di flessibilizzare e ridurre i salari.
Al contrario salario minimo dignitoso, così come un reddito incondizionato ed economicamente adeguato al salario minimo, non è solo un progetto di equità sociale e un’iniziativa di rilancio economico (perché senza disponibilità non ci sono consumi interni) ma anche e soprattutto una proposta di autonomia dai poteri ricattatori che essi si presentino come datori di lavoro o come autoproclamati rappresentanti dei nostri bisogni.
La verità è che un salario minimo nella media europea, e comunque in linea o di poco inferiore di Francia e Germania, avrebbe come principale effetto positivo una spinta al rialzo di tutti i salari
Troppo spesso è sostenuto che la scarsa produttività sia dovuta a stipendi “troppo alti” e alle “troppe garanzie”. E questo sarebbe un limite alla nostra competitività impedendo di misurarci in maniera adeguata con Paesi dove le retribuzioni dei lavoratori e le tutele sono inferiori, con il solito leitmotiv classico della Cina.
Per questo motivo si è portata avanti la causa della deflazione salariale e della riduzione delle tutele come panacea di tutti i mali per la nostra economia.
Lasciamo perdere che all’opposto per ora la maggiore produttività nel nostro Paese si è registrata nel momento di salari più alti e maggiori tutele. Tralasciamo anche il fatto che nei Paesi europei più sviluppati la stessa produttività più alta (ammesso che questo sia un valore) – oltre che su salari più alti dei nostri – si basa su investimenti tecnologici e riduzione oraria settimanale.
Comunque è ormai palese a tutti come la continua riduzione delle tutele, la precarizzazione del rapporto di lavoro e la maggiore flessibilità non produca vantaggi per l’economia in generale.
Infatti, l’introduzione di elementi di flessibilità e tutti provvedimenti tesi a ridurre le “vecchie e pesanti” tutele, “inadatte ai rapporti di lavoro moderni così dinamici”, non hanno fatto decollare l’occupazione e non l’hanno nemmeno rilanciata. Anzi hanno aumentato il lavoro povero per chi ha un contratto stabile e moltiplicato la precarietà per chi ce l’ha intermittente (e che ha un lavoro ancora più sottopagato).
Il modello utilizzato per valutare la produttività è quello dei costi unitari del lavoro (o almeno è il metodo più diffuso). I costi unitari del lavoro sono definiti come il rapporto della retribuzione complessiva del lavoro e la sua produttività. Maggiori sono i costi unitari del lavoro, minore è la produttività.
Tornando a quanto dicevamo all’inizio, questo modello, però, trova già un suo limite nella stessa letteratura economica. Infatti, l’economista Nicholas Kaldor, raccogliendo dei dati relativi ad alcune economie del secondo dopoguerra, dimostrò come quelle che acquisirono la maggiore fetta di mercato furono proprio quelle che più avevano perso in termini di produttività e competitività – conosciuto, in letteratura economica, proprio come il “paradosso di Kaldor”.
Se guardiamo pure ai dati sul sito dell’OCSE relativamente ai costi unitari del lavoro per ora lavorata indicizzati al 2010 (2010=100), tra il 1990 e il 2014, troviamo che tra Italia, Francia, Gran Bretagna e Germania, quella che ha i maggiori costi unitari del lavoro è sempre stata proprio la Germania. Al secondo posto troviamo la Francia, mentre Italia e Gran Bretagna si dividono, nel tempo, il terzo gradino del podio.
Inoltre, i dati che possiamo trovare sul sito dell’ILO (International labor office) relativamente alla quota lavoro in percentuale del PIL per l’Italia (Labour income share in Gross Domestic Product – adjusted) dimostrano che il nostro trend è dal 1995, anche se con fasi alterne, in diminuzione.
Quindi abbiamo una misura della competitività (ULC – costi unitari del lavoro) completamente campata in aria; costi unitari del lavoro inferiori o in linea a quelli delle altre grandi economie europee; una quota salario in diminuzione; salari reali in diminuzione da decenni; diseguaglianze in aumento; ed in mezzo a tutto questo … i salari sarebbero troppo alti!
Sembra evidente come non ci sia prova alcuna di ciò e che, pertanto, l’espressione risulti vacua alla prova dei fatti.
Pertanto, per quello che riguarda produttività e, con essa, la competitività, non si può sostenere che siano diminuite in relazione ad un eccessivo aumento dei salari reali perché non c’è stato nessun aumento dei salari reali che, anzi, sono in diminuzione da molti più anni di quelli che vengono riportati sul sito dell’OCSE.
Quello che viene sempre sottovalutato è che tutte le aziende sopportano almeno due generi di costi: i costi unitari del lavoro ed i costi unitari del capitale (UKC – Unit capital costs). E se i costi unitari del lavoro possono fornire una misura della competitività dal lato del lavoro, i costi unitari del capitale potrebbero fornire una misura della competitività da parte delle aziende.
Se valutiamo i costi unitari del capitale vediamo che la quota capitale è in aumento. Questo trova conferma nella diminuzione della quota lavoro e negli alti profitti (il profitto è la remunerazione del capitale) riportati comunque anche in tempi di crisi.
Perché un’altra cosa che spesso sfugge è come i profitti siano tornati a livelli pre-crisi già da tempo, mentre i salari, secondo molti, dovrebbero essere ulteriormente tagliati. Quanto stiamo dicendo ci sembra avallato, nei fatti, anche dall’aumento delle diseguaglianze.
Negli Stati Uniti, per esempio, la situazione è questa:
In rosso (scala di sinistra) abbiamo i “corporate profits” sul PIL; mentre con la linea blu (scala di destra) abbiamo i salari sul PIL. Dopo il crollo del 2008, la quota profitti è tornata subitaneamente a livelli addirittura superiori a quelli della crisi, mentre la quota salari ha bellamente continuato a scendere. uesto conferma anche per gli USA, come per i dati dell’ILO per l’Italia, che la quota verso il lavoro è in diminuzione.
Non ci sembra necessario aggiungere ulteriori elementi a quello che sosteniamo, in quanto riteniamo che l’aumento delle diseguaglianze un po’ dappertutto – ricchi sempre più ricchi, poveri sempre più poveri, nuovi milionari, nuovi poveri ed una classe media che sta scomparendo – sia sufficiente per avallarne il fondamento.
Perciò si può ben dire che la perdita di competitività non può essere stata il risultato di una scarsa produttività legata ai salari troppo alti o saliti troppo in fretta, perché i salari reali sono in diminuzione, la quota di ricchezza socialmente prodotta che va verso il lavoro è in costante diminuzione e i nostri costi unitari sono inferiori a quelli delle altre grandi economie europee. Al contrario, i profitti e la quota capitale sono in aumento.
Questo potrebbe legittimare a pensare che la perdita di competitività non sia tanto dovuta ad un saggio del salario che saliva troppo o che scendeva meno velocemente della produttività del lavoro (visto che per es. in Italia i salari reali scendono mentre la produttività sale poco ma costantemente) quanto piuttosto ad un saggio di profitto che scendeva meno velocemente della produttività del capitale.
Quindi, quello che potrebbe aver contribuito alla perdita di competitività, più che lavoratori con troppe pretese salariali, potrebbe forse essere semmai una questione di profitti troppo alti, a tutti i costi ed in periodi troppo brevi. Il problema nella perdita di produttività e competitività, pertanto, non sarebbe dovuta a lavoratori subordinati indolenti che pretendono salari troppo alti rispetto alla loro produttività; bensì a un’avidità di profitto troppo elevata rispetto alla produttività del capitale.
Con queste premesse la diatriba sul salario minimo oggi è tutta interna alla classe politica di questo paese prona agli interessi del profitto. All’avidità come detto, perché al contrario dei famelici detrattori, un salario minimo dignitoso non solo imporrebbe condizioni migliori ma forse ciò che si teme maggiormente riproporrebbe una maggiore capacità di confliggere in quanto meno ricattabili.
Forse è proprio questo il punto, al pari della tempesta di fuoco scatenata dagli stessi nemici del salario minimo contro il reddito di cittadinanza. Infatti, esattamente gli stessi protagonisti con le stesse argomentazioni invece di migliorare l’iniziativa del reddito di cittadinanza, comunque iniqua rispetto all’emergenza povertà, si sono scagliati armi in pugno per disinnescarne l’effetto di sottrazione dalle pratiche più becere di sfruttamento.
Gli stessi sciacalli stanno cercando di annichilire oggi l’eventuale adozione di un salario minimo, comprimendolo a tal punto da impattare su una quota minima di bacino, e ancor peggio sottoponendolo ad una serie di orpelli per renderlo di fatto innocuo. Le proposte di indicare criteri come la percentuale (70%) sul salario mediano piuttosto che una cifra definita, sono solo malcelate trappole di comprimere una soglia che definirebbe il salario minimo al pari di un reddito di cittadinanza pienamente ottenuto.
Quindi di fatto inferiore alla soglia di povertà.
La stessa proposta di legarlo nei CCNL ad un generico valore percentuale rispetto al salario medio rilevato, avrebbe l’effetto contrario a quello voluto. Ossia una contrattazione al ribasso perché diverrebbe il valore di riferimento non è fissato a una cifra ma va ricalcolato ogni volta. E il salario mediano da anni è in discesa non in risalita. Anche la giurisprudenza ha già stabilito come per “retribuzione dignitosa” (art.36 della Costituzione) vada individuato nel salario minimo stabilito nei contratti collettivi nazionali, quindi nella sua interezza e determinazione esatta e non in una quota percentuale ricalcolabile di volta in volta. Serve una soglia dignitosa che resti sopra la soglia di povertà e sotto la quale non è possibile andare per legge. La contrattazione non è cancellata perché può andare sopra quella soglia (al contrario di quanto fa da anni). Ma questo denuda alcuni sindacati perché sarebbero costretti a riprendere conflitto e contrattazione vera e non basterebbe più una concertazione e qualche scambio di welfare privatistico aziendale con Confindustria.
La verità è che un salario minimo nella media europea, e comunque in linea o di poco inferiore di Francia e Germania, avrebbe come principale effetto positivo una spinta al rialzo di tutti i salari (anche quelli sopra il minimo). Oggi circa un quarto della classe lavoratrice ha retribuzioni inferiori ai 9 euro l’ora: si tratta soprattutto di donne (26%), under 35 (38%), lavoratori del Sud (31%) del settore artigianale (52%) o del terziario (34%).
Una legge sul salario minimo manderebbe in vacca anche le ipotesi leghiste sulla differenziazioni di retribuzione a livello regionale, supportate da personaggi come Boeri (ex INPS) e Ichino (ex senatore PD).
Rilancerebbe l’occupazione, assottigliando il gap salariale tra assunti a tempo indeterminato e non. A questo punto la job rotation non avrebbe più molto senso considerato anche, come ormai gli studi hanno conclamato, i lavoratori a tempo determinato non contribuiscono allo sviluppo di innovazioni perché la temporaneità della relazione contrattuale non consente l’accumulazione della conoscenza – tacit knowledge – da parte del lavoratore rispetto al proprio lavoro e quindi alla possibilità di contribuire alle migliorie. Questo sì elemento di freno nella competizione.
Tutto ciò libererebbe energie nuove per ottenere ancora di più, visto che centinaia di migliaia di persone emergerebbero dalla condizione di costante ricerca della sopravvivenza. Non più costretti ad accettare paghe da fame, richiederebbero anche maggiori garanzie, migliori condizioni di sicurezza nei luoghi di lavoro, non si potrebbe con tanta facilità estorcere forza lavoro perché o cosi o nulla.
Proprio in merito ai timori sindacali di un’ingerenza della normativa nelle prerogative sindacali si può ricordare il caso tedesco dove l’introduzione del salario minimo nel 2015 non ha minimamente intaccato la forza d’urto dei sindacati. Se questi sono forti rimangono forti e il rischio che il salario legale possa minare i diritti del lavoro ci sarebbe solo se questo fosse molto più basso delle soglie minime garantite dai contratti nazionali.
Oppure se questi fossero spinti così al rialzo da rendere desueto il salario minimo.
(*) lavoratoriautoconvocati.wordpress.com