Il programma di governo di Draghi
di Gianluca Cicinelli
Il programma di governo di Mario Draghi, ammesso che trovi una maggioranza in Parlamento, non è affatto scontato; comunque lo ha già esposto un mese e mezzo fa intervenendo alla riunione del G30, il “think tank” di consulenza su questioni di economia monetaria e internazionale del cui comitato di direzione fa parte. Alla presentazione del rapporto “Reviving and Restructuring the Corporate Sector post-Covid. Designing Public Policy Intervention”, sulla ristrutturazione delle imprese dopo la pandemia, Draghi è intervenuto sottolineando che alla prima fase della crisi economica scaturita dalla mancanza di liquidità delle imprese sta già seguendo la seconda, ovvero quella dei mancati pagamenti e altre insolvenze che mettono ulteriormente a rischio l’economia e, ciò che maggiormente ci interessa, lo sprofondamento in una povertà senza ritorno per milioni di persone nel mondo e in Italia.
«Chi dovrà decidere quali compagnie dovranno essere aiutate?» si è chiesto l’ex presidente della Bce, riprendendo la metafora di un’economia ormai sul bordo di una scogliera che attraversa tutto il rapporto e insistendo sulla rapidità necessaria per gli interventi pubblici. Rapidità che rischia di creare errori di valutazione riversando soldi su imprese “zombie”, magari facendole sopravvivere per un po’ ma con uno spreco nell’elargizione delle risorse. Per Draghi quindi il primo punto all’ordine del giorno è una selezione della destinazione dei fondi impiegati per contrastare la pandemia in favore delle imprese che hanno basi per sopravvivere con iniezioni di denaro separandole da quelle destinate a morire comunque. Sembrerebbe lo stesso problema etico di un medico che, in un pronto soccorso prossimo al collasso, deve decidere quale paziente ha più possibilità di sopravvivere abbandonando al suo destino il più debole.
Come seconda questione posta da Draghi ai governi che gestiscono i fondi stanziati per il covid trovare il costo e i tempi per la fuoriuscita dalla crisi, su quale generazione far ricadere i costi degli interventi, l’attuale o la successiva, chi ripagherà insomma i debiti che si stanno contraendo oggi. La ricetta di Draghi parla di politiche “molto selettive”, scegliendo per l’erogazione di fondi soltanto quelle imprese che potranno generare reddito dopo la pandemia, in particolare le medie e piccole imprese che garantiscono occupazione. La domanda successiva quindi è: lo Stato è in grado di valutare correttamente questi fattori di rischio? No, è la risposta secca del rapporto e dell’ex governatore Bce: «Le banche e gli investitori hanno una expertise decisamente maggiore nel valutare la redditività delle aziende, e sicuramente subiscono minori pressioni politiche». Una frase con delle implicazioni importanti che fanno scorrere qualche brivido lungo la schiena.
Il rapporto prevede meno prestiti, che sovraccaricano di debiti le aziende, e più interventi sul capitale finanziario trasformandoli in strumenti come ad esempio le obbligazioni convertibili, ma evidenzia anche come una simile politica porterebbe le aziende meno sane a cedere quote di capitale allo stato riempendolo di titoli tossici, rendendo la garanzia pubblica sui debiti un’altra fonte di perdita. Meglio quindi secondo il G30 sussidi agli investimenti in capitale con strumenti come le deduzioni fiscali. Draghi ha poi caldeggiato una revisione delle legislazioni relative ai fallimenti delle imprese, introducendo forme di ristrutturazione dei debiti per evitare molte delle liquidazioni societarie.
La crisi per Draghi e gli economisti riuniti nel G30 va presa di petto spostando l’obiettivo dalla elargizione di liquidità all’individuazione di strumenti per una ripresa come fattore strutturale, guardando al lungo periodo. Per farlo la strategia del “think thank” sembra affidarsi al detto secondo cui il medico pietoso fa le ferite marce. La traduzione dal linguaggio degli economisti di questo principio non può che generare timori quando viene specificato che «alcuni lavoratori dovranno cambiare imprese e settori con un appropriato re-training e assistenza nella transizione». Ne avevamo parlato, a proposito di formazione, nei giorni scorsi.
E’ difficile pensare che Mario Draghi, se presiederà il consiglio dei ministri italiano, si discosti dalle proposte che ha elaborato per i governi dell’Unione Europea 45 giorni fa. Il problema enorme, la vera incognita che deriva dal programma qui esposto riguarda la spesa sociale. Una questione che Draghi non ha mai affrontato in prima persona. In Italia i “tecnici” del rigore come Mario Monti hanno provocato danni sociali irreversibili soprattutto sul piano pensionistico, con l’idea precisa di far pagare la crisi ai cittadini. E’ un po’ poca la semplice speranza di una sensibilità maggiore di Draghi sull’argomento. Viene scambiata per umanità della finanza da lui gestita come presidente della Bce la consistente quota di acquisti di titoli di stato italiani, il quantitative easing, per salvare la nostra economia nazionale. Non basta per pensare che “lo spirito della spesa sociale di Keynes” stia per sedersi a Palazzo Chigi: dovranno essere compiuti atti concreti che vedano al centro le persone e non soltanto le imprese.
Paolo Ferrero su Draghi:
https://www.facebook.com/prcpadova/posts/4279674262062492
Mi rifaccio all’articolo di G.luca Cicinelli, con la metafora delle avvertenze per i voli in aereo…” In caso di necessità, i fissare subito la maschera d’ossigeno d poi aiutare chi non ci riesce”!. Nelle imprese è appunto questa la ricetta corretta. Aiutare quelle sane o che lo possono ritorenare per generare valore, occupazione stabile e far crescere la produttività del sistema ( con le riforme note a tutti) . Circa poi le difficili scelte dei medici di fronte alla mancanza di cure o di risorse, necessita una politica laica e non asservita ai valori religiosi. Si curino tutti, a partire dai più giovani e si utilizzo la libera scelta dell’eutanasia per coloro che , con una vita vissuta alle spalle o con la sfortuna di essere ancora giovani, hanno solo l’angoscia di attendere una fine annunciata.
da http://www.michelezizzari.it
“Draghi-crazia”
di MICHELE ZIZZARI
Ѐ da oltre mezzo secolo che – per e con lo spauracchio della destra – la cosiddetta sinistra e presunte forze democratiche e progressiste (che ora preferiscono addirittura definirsi solo europeiste) hanno scelto di spostarsi sempre più a destra per inseguire sondaggi e consenso nel tentativo di ambire e restare al governo. Certo, una destra soft, di sinistra (oh scusate riformista), oserei dire liquida, dal volto e dagli argomenti meno truci e rozzi, un po’ green e un po’ digital hi tech, ma con ricette politiche ed economiche non così diverse nella sostanza: libero mercato, sviluppo, crescita, privatizzazioni, finanziamento dell’impresa privata, produttività, competitività e flessibilità del lavoro.
Le stesse ricette che hanno portato il mondo sull’orlo della catastrofe umana, sociale e ambientale, oltre che al quadro politico attuale; e tutto indipendentemente dal Covid, che ha solo aggravato le cose e reso palese – se ancora ve ne fosse bisogno – che il sistema economico, politico e sociale al quale siamo disgraziatamente consegnanti da secoli è incapace di affrontare, gestire e risolvere i problemi che assillano l’Umanità, e neppure ne ha voglia. C’è chi s’illude che l’emergenza pandemica possa cambiare o abbia cambiato qualcosa. Forse avrebbe potuto, o ancora potrebbe, ma non ne sarei così sicuro. Basta guardare le vergognose speculazioni sui vaccini delle solite multinazionali del farmaco, cui la politica internazionale che conta non ha opposto resistenza, neppure in presenza di una crisi globale così grave. Certo, sono stati stanziati fondi mesi fa neppure pensabili, dato il regime di rigore finanziario vigente, ma temo più per rianimare un’economia capitalistica ormai in apnea che per un cambiamento di visione.
In ogni caso mi riferivo prima a quell’area politica in odor di sinistra ormai fritta e indistinta, che non sa più da che parte stare o guardare, e che alla ricerca dell’identità perduta rincorre le nuove forze populiste, che vivono (come le vecchie) di opportunismo, di trasformismo, d’acrobazie dialettiche e di un frullato di demagogia, parole d’ordine e slogan pescati un po’ a destra e un po’ a manca, o tirati fuori dal cappello magico del leader, dell’opinionista o del prestigiatore-influencer di turno.
Già la democrazia, quella mai esistita, sempre chiamata in causa da tutti e mai applicata nei fatti. Una democrazia-miraggio sempre pronta a ricorrere a soluzioni istituzionali dall’alto o a pasticci elettorali, ridotta a invocare “l‘uomo forte e dall’alto profilo”, quello con le mani in pasta, che sa come vanno le cose e dove mettere le mani, preparato, competente, già direttore della Banca d’Italia e della BCE, consigliore speciale delle politiche del rigore, del vincolo di bilancio e dei tagli alla spesa pubblica (quelle tutte lacrime e sangue per intenderci), ben imbazato con le élite finanziare europee e non solo, conosciuto e rispettato dai poteri forti, con le chiavi del Paradiso dei Fondi Europei già nel portafoglio, pioniere e capitano integerrimo di sanguinose privatizzazioni e concessioni ai privati che sono costate lo smembramento, la svendita e la perdita di grandi aziende pubbliche nel campo delle telecomunicazioni, delle infrastrutture, delle autostrade e così via…
Un curriculum oggi considerato molto positivamente, ma che in altri tempi e contesti sarebbe l’identikit del perfetto referente di una potentissima cupola politico-economico-finanziaria di stampo mafioso. Non so perché, ma mi vengono in mente Cuccia, Sindona, Licio Gelli e Andreotti.
Parliamo invece di Draghi, figura rassicurante e dalle mille qualità, insieme tecnico e politico, esperto burocrate, ragioniere-commercialista e sapiente mediatore: uno che insomma saprà bene come spartire la grande torta che dovrebbe arrivare a momenti dall’Europa; mica come quelli appena dimessi, incapaci a tutto, perfino di mettersi d’accordo sulla lista della spesa! Un Draghi forse utile anche a Biden, visto che negli Usa le torte sono molto più grandi e che la tentazione di spartirsi il bottino come nel vecchio West (a colpi di fucile e cannonate) resta sempre viva.
Una democrazia, dicevo, che invoca il governo dei migliori, dei primi della classe, quelli di classe superiore… Una cosa che in storia, in politica e in filosofia si è sempre chiamata aristocrazia, come ha ricordato anche lo storico dell’arte Tomaso Montanari: una forma di governo già invisa agli ateniesi della Grecia antica, e che – almeno in parte dell’Occidente – si pensava superata con la Rivoluzione francese del 1879 e con l’avvento della repubblica, e ancor più con la (seppur repressa) Comune di Parigi del 1871.
Ma a quanto pare, di questi tempi, la regressione delle coscienze politiche non trova più limiti o paletti. In nome della governance, perfino figure di fede e militanza democratica reclamano un miracoloso salvatore della Patria, l’italico Noè che prima del diluvio faccia salire sull’arca della loro salvezza parlamentare un’ammucchiata di presunti rappresentanti del popolo, tutti già seduti con le forchette in mano intorno al tavolo del grand chef che detta il menu d’una probabile grande abbuffata. Di questo passo la democrazia e quel che resta delle incerte (per usare un eufemismo che non infierisca troppo) forze democratiche (ormai all’alka seltzer) arriveranno a invocare il re, l’imperatore o un Napoleone in doppio petto!
So bene che ne abbiamo già avuto uno che si credeva tale, quel Berlusconi (come emerso da diverse inchieste, mafioso per davvero) che ora è di nuovo nel governo insieme agli altri. Come so che le destre sono ancora e sempre orfane del duce o di un dittatore.
Ma questa volta a invocare l’uomo forte è quel che rimane della democrazia, che – inerme, rassegnata e per certi versi addirittura sollevata dalle sue responsabilità – assiste al suo ennesimo funerale.
Sempre che la democrazia valga qualcosa o a qualcosa.