Il progresso è finito? (2)

di Mauro Antonio Miglieruolo

È molto che meditavo di fornire una risposta alla interrogazione-provocazione diffusa da Fabio Calabrese il 5 luglio 2010 (e su codesto blog… poco fa) risposta che l’autore indubbiamente merita se non altro per la responsabilità che si è assunto di riformulare, radicalizzandoli, alcuni punti di vista sull’ormai vetusta questione, che sta molto a cuore a tutti noi, delle cause e/o concause del declino della Fantascienza; ricorrendo per altro a argomentazioni che lo hanno costretto a sconfinare in territori ostici, che occorrerebbe affrontare sempre con molta cautela in quanto espongono, chi ci si avventuri, alle reprimende degli esperti del settore. Tanto più che Calabrese non si limita a fornire valutazioni generiche intorno allo stato del progresso scientifico, offrendo il proprio giudizio conclusivo in merito; ma entra nel merito di questioni sulle quali solo gli specialisti del settore avrebbero pieno diritto di intervento, o utilizzando argomenti che non hanno alcun peso rispetto alle questioni in esame; o il cui rilievo avrebbe avuto l’obbligo di spiegare. Che importa infatti che il computer usato per mandare il primo uomo sulla luna avesse “solo” 32.000 byte di memoria? e che cosa dimostra la relazione con i PC di oggi, migliaia di volte più potenti, se non l’uso prevalentemente consumistico della tecnologia informatica da parte del capitalismo avanzato? Osservazioni questa antica, che non aggiunge e non toglie nulla al valore delle parole di Calabrese (o non aggiunge alcunché io sia riuscito a capire). Quanto alla scoperta di Nicolae Vlassa (tavolette risalenti a 5000 anni or sono che conterrebbero un sistema primitivo di scrittura) sul significato da attribuirgli c’è molto disaccordo tra gli archeologi. Ognuno in merito può esprimere l’opinione che vuole. L’ultima parola però, trattandosi di questione squisitamente scientifica la cui soluzione richiede una conoscenza approfondita dei vari aspetti tecnici che la compongono, spetta agli archeologi stessi. Sono loro che hanno facoltà e potestà di decidere. Agli altri solo di offrire osservazioni, avanzare dubbi, richiedere chiarimenti. La presa di posizione di Calabrese, nel caso specifico, rappresenta una intromissione in questioni sulle quali i profani dovrebbero sospendere il giudizio. O quantomeno avanzare argomenti e prove capaci di rimettere in discussione le valutazioni degli accademici.

Non che io sia da annettere tra coloro che siano disposti a concedere alcunché alle risorgenti smanie scientiste di certi tecnocrati. Mai ad esempio mi rassegnerei a cedere l’ultima parola a uno di loro sulla indebita riproposta di rilancio dell’energia nucleare, già bocciata con il referendum del 1992. Per ciò che attiene alla mia vita, direttamente o indirettamente, sono l’unico a cui spetta decidere. Ma come non accetto che sia un tecnico a decidere se nel cortile di casa mia debba a o meno fiorire una centrale nucleare, col pericolo che sia io a deperire, nello stesso modo mai mi sognerei di installarmi in quello di competenza del tecnico cercando di entrare nel merito di determinate sue posizioni scientifiche, sulla gestione delle quali ha competenza esclusiva.

Perciò, pur dovendo per necessità di interlocuzione addentrarmi anche io in problematiche sulle quali non posseggo competenze specifiche (peccando in questo modo del medesimo peccato di Calabrese), cercherò di farlo tangenzialmente e in punta di piedi. Sperando di riuscirci.

A parziale attenuante del peccato di ambedue, comunque, rammenterò il fascino straordinario che, per qualsiasi cultore di Fantascienza, ha la scienza e i dibattiti che intorno a essa si intrecciano. La nostra materia non è luogo ordinario di pur straordinarie aspirazioni. Pur ordinaria in certe sue manifestazioni, aspira sempre allo straordinario. Quel che (anche) la caratterizza è lo specifico atteggiamento nei rispetti delle cose del mondo, la propensione a pensare grande, a interessarsi delle questioni ultime dell’uomo, il porre al centro dei discorsi quelli sul senso della realtà e della nostra esistenza, della vita e della morte, il mistero dell’essere del mondo, il finito e l’infinito; e, particolarmente, il ruolo che la scienza svolge nella vita quotidiana e nelle vite che seguiranno alla nostra effimera, nei secoli dei secoli fino alla scomparse del Sole e delle stelle. Gli stessi temi dai quali la letteratura della prima metà del Novecento si era ritratta quasi con orrore, per dedicarsi massicciamente alla crisi del piccolo borghese, crisi dei rapporti coniugali, sospinta da una sorta di sgomento di fronte alla sua propria insipienza e ipotetico nulla di prospettive.

È facile dunque che capiti a uno di noi di peccare di indebita ingerenza nelle sfere di attività altrui. Non per dire, io la penso così, a ognuno è concesso farlo; ma per dire, è così (è la Terra che gira intorno al Sole, e non viceversa), cosa che sarebbe bene non fare. Finché lo scienziato rimane nei suoi laboratori è padrone incontrastato a casa sua. Nessun Stalin, Hitler, Mussolini o ideologia emergente ha diritto di suggerirgli cosa sostenere e cosa negare.

Fatta questa premessa mi affretto a porre in risalto quello che per me è l’aspetto più positivo dello scritto in questione. E cioè la sorta di grido di allarme con il quale ha inteso metterci generosamente (a scapito di qualche bel capitombolo) sull’avviso: non solo Dio è morto, anche la Fantascienza è morta; e la scienza medesima sta morendo.

Quel che apprezzo poco invece è l’assunto cardine dell’intera argomentazione: che il motore della Fantascienza sarebbe costituito dall’idea che “scienza e tecnologia […] siano destinate a progredire indefinitamente”; e che pertanto l’arresto del progresso scientifico sarebbe all’origine del collasso, che tutti possiamo constatare, della fantascienza.

A sostegno di questa tesi imbastisce una azzardata connessione tra l’imbarbarimento progressivo della società (e qui è difficile dargli torto), e il crepuscolo della cultura e della ricerca scientifica. Connessione che mi spinge a prendere le distanze se non dall’insieme delle sua argomentazioni, quantomeno da alcuni punti cruciali sui quali ritengo non solo opportuno ma persino doveroso effettuare alcune precisazioni. Precisazioni che sono inerenti la medesima fuorviante auto definizione che, a partire dal proprio nome, la Fantascienza, almeno nel modo in cui è stata intesa in Italia, ha dato di se stessa,: commistione di Fantasia e scienza.

Nulla di più improprio. La Fantascienza ha ben poco a che fare con la scienza (un poco più con le applicazioni scientifiche), in quanto fa appello in realtà a suggestioni d’origine scientifica, suggestioni che nelle sue narrazioni hanno un ruolo ludico e di prestigio, non funzionale, attinente cioé alla scientificità dell’ideato (le fantasia scientifiche sono proprio quelle che guidano i progetti di ricerca, nonché i miti e le aspirazioni segrete dei ricercatori); ruolo ulteriormente deformato dalle aspettative-richieste umane in merito agli sviluppi scientifici (che in genere procedono in direzione opposte a quelle auspicate, direzioni del tutto imprevedibili) che la Fantascienza, trascinata dai lettori, assume come proprie. Non intendo qui porre in discussione la funzione di ginnastica intellettuale atta a favorire l’apertura mentale dei ricercatori, di cui alcuni tra questi ultimi hanno dichiarato di felicemente servirsi; o l’attitudine positiva con cui ribalta la pigrizia dei più timidi tra gli innovatori e scardina le resistenza dei conservatori. Intendo invece affermare che le dinamiche che presiedono alle rivoluzioni scientifiche, le logiche scientifiche medesime, sono generalmente estranee alla nostra beneamata narrativa; la quale è attenta soprattutto ai frutti ultimi dell’innovazione piuttosto che alle modalità atte a produrli (e verificarli: cuore pulsante della scienza); e che per altro solo tangenzialmente bada alla credibilità e coerenza delle ipotesi disseminate nei suoi scritti, in favore del ruolo che possono svolgere all’interno di un determinato percorso narrativo gli immaginari progressi tecno scientifici sui quali ama estrinsecarsi. Né d’altra parte i lettori, molto più efficaci nel nostro che in altri ambiti nell’influenzare l’andamento della finzione narrativa, si sono mai preoccupati gran ché dell’ammissibilità di una qualsiasi Arma Zeta, così come concepita e descritta dall’autore, interessati invece alla godibilità di quel determinato espediente tecnologico, godibilità che poneva (e pone) ampiamente in subordine le eventuali ragioni della sua ammissibilità nel dispositivo teorico nelle quali venivano posto e dalle quali scaturivano. Lo stesso vale, altro esempio, per i viaggi interstellari a velocità superiori a quella della luce. Al lettore poco interessa la razionalità delle premesse parascientifiche con i quali l’autore pretende di giustificarli (interessa magari di più l’auspicio, il sogno che le sottende). Ciò che lo induce a proseguire nella lettura e gli dà diletto sono le prospettive fantastiche che apre, le vicende umane che vi si possono far svolgere.

Interessati agli effetti specifici e pertinenti della narrazione dunque, molto prima e più che le istanze di adesione formale al rigore scientifico. Quel che contano sono gli effetti sulla pagina dell’opera di torsione, e distorsione mediante la fantasia, introdotta nel campo delle scienze (campo tangibile per altro esclusivamente tramite le regole prodotte al suo interno), qualunque siano i costi in termini di consequenzialità scientifica che si arrivi a pagare.

Se non è allora l’idea di “progresso” tecnologico il motore della Fantascienza (progresso tra virgolette in quanto considero nullo o comunque illusorio ogni avanzamento definibile esclusivamente in intermini di tecnologia), si pone il problema, interamente a mio carico, di indicare quale esso sia. Non solo il motore, ma anche il carburante atto a farlo muovere.

Per individuarlo non occorre allontanarsi molto dall’idea di progresso. Anzi è necessario custodire questa idea, da trasformare però in concetto, attraverso il riempimento di quell’idea di contenuti diversi da quelli indicati, contenuti più propri e sottili, ma anche più veri. Propongo dunque che l’idea di progresso tecnologico venga cancellato tramite la sovrapposizione del concetto di mutamento sociale. In pratica tramite la reintroduzione, quale momento ispirativo lontano ma efficace, di tensione utopica (non dunque di mera utopia) e del suo inevitabile corollario di progresso “morale e civile”. A condizione di prendere in seria considerazione tale nuovo modo di considerare la fantascienza (conditio sine qua non) ci è offerta la possibilità di arrivare a meglio comprenderla e meglio analizzarla; ma soprattutto offerta la possibilità di individuare le direzioni di marcia alternative in grado di guidarci a una rinnovata gestione della stessa, in vista di una sua possibile rinascita e affermazione su grande scala. Discorso al quale più di ogni altro sono interessato.

Si obietterà che la tecnologia si è dimostrata un potente mezzo di trasformazione degli assetti sociali, constatazione che mi guarderò bene dal confutare. Essa descrive perfettamente, senza però analizzarla, senza quindi andare alla profondità del fenomeno, quel che ognuno può constatare dando un veloce sguardo panoramico alla storia almeno degli ultimi due secoli. È faccenda della più stretta evidenza il ruolo di promotore del “progresso” che la tecnologia ha svolto. Ma la stretta evidenza è l’evidenza propria all’ideologia, all’esteriorità dei fenomeni, i quali spesso ingannano sulle reali dinamiche che li caratterizzano. Famoso tra tutti è il movimento apparente del sole, dal quale dipendono le albe e i tramonti e che per secoli si è creduto ne denunciasse la rotazione intorno alla Terra (è occorso il sacrificio di Galileo per approdare a tutt’altra interpretazione del fenomeno). Altrettanto famoso il mito sul flogisto, sorta di carburante interno all’oggetto che con la combustione il fuoco avrebbe consumato; là dove invece era la presenza dell’ossigeno nell’aria a determinare il fenomeno. Anche qui l’apparenza ingannava sull’essenza. Procedendo però di là dalla mera constatazione di ciò che è visibile o deducibile, cercando quindi nelle dinamiche proprie ai fenomeni sociali, mi vedo costretto a avanzare una contro obiezione: che quel che ha fatto la tecnologia non è mai stato fatto in proprio, ma sempre quale strumento di forze esterne, che ne determinano nascita e uso: strumento di progetti di ingegneria sociale (legati a determinate visioni del mondo e alle utopie relative, che ne hanno dominato la ricerca e poi l’applicazione); o a convenienze economiche anch’esse frutto di impersonali progetti di organizzazione del mondo. L’invisibilità, negata anche a parole, di tali interessi, invisibili perché lontani (all’apparenza) dal prodotto tecnologico medesimo (chi pensa, comprando un televisore che esso sta lì in mostra per l’acquirente per le pervasive ragioni del profitto? Che per tale motivo è stato prima ideato e poi prodotto? E che per le medesime ragioni sono stati erogati i finanziamenti necessari alla fondazione della scienza necessaria a strappare alla natura i “segreti” che permettono la costruzione di quei ritrovati? Ognuno compra il proprio televisore e basta, non ragiona su niente altro che sulla squalità dei programmi che gli sono proposti, sulla propria evidente scontentezza e sull’inevitabile necessità di contentarsi: o quello o altro simile a quello), stabiliscono una autonomia del prodotto che è alla base dei ragionamenti che intorno alla sua natura si fanno. Come la mosca cocchiera presume di trascinare cavallo e carrozza al traguardo, nello stesso modo la tecnologia portata avanti dagli interessi della borghesia presume, per bocca dei suoi commentatori, di portarli avanti (o indietro, secondo i catastrofisti).

Questa ipotetica opera di trascinamento, determina il nascere, per il principio di contraddizione che lo permette, la nascita e il fiorire di altri punti di vista, subordinati al primo, influenzati però da differenti visioni del mondo. Da differenti progetti di ingegneria sociale. Li possiamo raggruppare sostanzialmente, tenendo conto anche del principale e egemone, in tre grandi gruppi ideali. Del primo, di gran lunga più importante, che offre visioni alternative al sistema capitalistico restando all’interno del sistema stesso, ho già detto; a esso devono essere aggiunte le subordinate del comunismo e del fascismo, la cui funzionalità più che in proprio, è stata di stimolo all’ideazione di possibili assetti futuri più estremi rispetto a quelli concepiti all’interno del quadro di compatibilità capitalistica (antagonismo uomo-uomo e uomo-natura) e però impediti a uscirne dal sostanziale fallimento delle iniziative poste in atto per produrre sistemi diversi. Fallimento che prima ha depresso i tentativi di approdare a visioni alternative e poi impoverito il medesimo quadro residuo. Al termine del processo c’è la decadenza e agonia della Fantascienza, sottoposta alla dittatura del pensiero unico e piattume del liberismo “concorrenziale” delle multinazionali; alla quale però gli avvenimenti dalla guerra all’Iraq in poi sembrano poter offrire, con la caduta verticale di credibilità del liberismo e la contemporanea apertura di nuove istanze di cambiamento (per ora in quanto mera timida aspirazione), nuove possibilità di sviluppo.

La tecnologia dunque quale pretesto, quale orpello a volte, o ulteriore orpello, della dinamica avventurosa, senza altra capacità che di essere motore del proprio ascondimento; il che la rendeva utilizzabile dalla Fantascienza nella misura in cui potevano essere sia espresse che dissimulate le sue vere funzioni: il fine ultimo, in polemica con il capitale ma senza offendere il capitale, della realizzazione delle proprie concezioni del mondo. Attuando per questa via il miracolo di esprimere le aspirazioni profonde di ciò che appare essere l’essenza medesima del Novecento: la speranza. La speranza del rivolgimento delle condizioni di vita e una vita per tutti migliore. A patto di omettere, come effettivamente ha omesso, di indicare le vie effettive d’uscita dalla disperazione, vero limite intellettuale della Fantascienza.

Le vicende a cavallo degli anni in cui essa sorge e si sviluppa (parlo della fantascienza moderna) sono costellati di avvenimenti che avallavano le sue ambizioni di reinterpretazione del reale (e implicitamente di modica del reale) tramite i voli pindarici sul possibile nuovo e le fantasticheria con le si condivano. Non dimentichiamoci che i primi sette decenni del secolo scorso sono puntellati da una serie infinita di rivolte che hanno investito il mondo intero; a partire dalla Cina, che ha conosciuto almeno tre, forse quattro fasi rivoluzionarie; al Messico, in cui la rivoluzione ha conosciuto anch’essa diverse fasi e che si è esaurita nel disordine e nell’irrazionalità del movimento dei cristeros; alla Russia, che vanta anch’essa tre fasi, il 1905, il Febbraio del 1917 e l’Ottobre dello stesso anno; per non parlare delle molteplici altre, quali quelle sviluppatesi dal 1918 in Finlandia, Italia, Germania, Ungheria ecc, un continue di sollevazioni fallite che però rendevano visibile la precarietà dello stato di cose presenti. Bisogna infine mettere nel conto le disperate (disperate perché vincenti dal solo punto di vista dell’autonomia politica, non da quella economica) innumerevoli ribellioni coloniali che a un certo momento sembravano poter compromettere l’equilibrio complessivo del sistema. In questo quadro, che è quello all’interno del quale si forma la Fantascienza (prodotto di altri fattori, che qui mi limito solo a enunciare: l’abbandono da parte del Mainstream del romanzesco e dell’epica, adottate invece dalla Fantascienza quali suoi elementi portanti; il massiccio trasferimento di enormi masse dalle campagne alle città, con il conseguente venir meno della mentalità fissista – il mondo dei nonni che continuava in quello dei nipoti; i cambiamenti visibili prodotti dall’introduzione di tecnologie in forme tali da realizzare radicali alterazioni della quotidianità, alterazioni che, stante l’indefessa opera di mistificazione degli ideologi – oggi tuttologi e esperti televisivi – diventavano l’assoluto di ogni possibilità di attenzione e decifrazione degli avvenimenti, alla cui decodificazione solo la Fantascienza osava fornire glosse e azzardi descrittivi; la inevitabile curiosità sul proprio futuro che l’insieme di questi tre fenomeni produceva nelle larghe masse, da cui l’ampio successo, fino almeno ai primi anni settanta, conosciuto dalla Fantascienza); nessuna meraviglia che la tecnologia da mero vettore delle nuove idee nella letteratura finisca allora con l’apparire, per dirla alla Calabrese, il motore della narrazione nuova che era andata formandosi. La risposta stessa della borghesia mondiale a quell’insieme di avvenimenti, una risposta non di ritorno al passato qual è quella offerta oggi, ma di avanzamento, ha contribuito a plasmare la mentalità dell’epoca, essendo stata appunto non solo repressiva (sarebbe risultata perdente, altrimenti); ma accompagnata dall’introduzione di cambiamenti effettivi ed efficaci (il New Deal), e dall’intensificazione della ricerca scientifica, che ha posto le basi di alcuni aspetti del senso comune dell’epoca.

D’altronde è proprio di una certa ideologia, la dominante, porre il carro del movimento scientifico davanti ai buoi delle trasformazioni sociali. L’aspetto esteriore, formale, al posto del vero rapporto che preside la trasformazione: il rapporto tra gli uomini e di questi con le cose. Una tendenza ideologica questa che ha finito con l’ulteriormente condizionare (e stravolgere) il già pesantemente condizionato marxismo sovietico, inquinato dal positivismo, storicismo ed economicismo; che per questa via ha definitivamente abbandonato le radici (il pensiero di Marx) dal quale era sorto; tanto da affidare alla tecnologia la possibilità stessa degli ulteriori passi in avanti della rivoluzione. Non più le lotte di massa quale motore della storia, ma l’innovazione tecnologica, che imponeva ritmi e condizioni della produzione (tempi e metodi e misure organizzative capitalistiche, da cui il ritorno al capitalismo molto prima che Eltsin lo proclamasse) ai quali necessariamente dovevano assoggettarsi i lavoratori. La Dittatura del Proletariato che diventava allora Dittatura dell’Innovazione Tecnologica e pertanto Dittatura di coloro che decidevano intorno all’Innovazione e alle condizioni in cui occorreva venisse esercitata. Qui possiamo osservare, sempre che lo si voglia, gli atti e le ideologie attraverso le quali la società, utilizzando gli strumenti offerti dalla scienza, produce il proprio cambiamento, e non viceversa. Gli atti con cui, in altre circostanze, si conserva. O introdurre i cambiamenti minimi necessari affinché quei cambiamenti non producano effetti sostanziali sugli assetti del potere.

L’esperienza dell’Occidente non è stata molto diversa (non poteva esserlo: era la sua ideologia infatti a guidare, per ragioni storiche molto complesse, quella dei paesi che si erano sottratti al mercato mondiale: i cosiddetti paesi del socialismo reale, che socialisti – nel senso marxianamente intenso – erano ben poco. Quasi nulla). Con la differenza che al posto di un’intera burocrazia poteva capitare che fosse un gruppo ristretto di imprenditori a plasmare l’insieme della società. Basti pensare al ruolo avuto nella incivilizzazione dell’Occidente dai Signori del Petrolio, i quali hanno nello stesso tempo bloccato le ricerche sulle fonti energetiche alternative e promosso quelle sul motore a scoppio, contribuendo a stravolgere i paesaggi urbani e a moltiplicare gli antagonismi sociali e quelli tra uomo e natura, cioè la barbarie incipiente (non un limite della scienza-tecnologia, dunque, come crede Calabrese, il quale presume – vedremo che non è vero – che su un punto segni il passo e su un altro corra con gli stivali delle cento leghe, ma un limite dell’assetto sociale). Lo stesso declino culturale lamentato (lamento al quale volentieri aggiungo il mio), non è prodotto per incantesimo, sortilegio e imbroglio del destino, ma dell’approdo incontrastato degli interessi che presiedono alla formazione del profitto a una concezione totalitaria delle ragioni del profitto stesso. Non più società, non più patti tra gli uomini, non più ideali, neppure più economia (l’economia, per essere tale dovrebbe prevedere la riproduzione allargata di tutti i fattori della produzione, anche dei produttori diretti quindi, inclusa la loro formazione e quella dei loro figli; e perciò stesso capace di prevedere, scuole, ospedali, trasporti, strade, ferrovie e servizi accettabili, non il peggio possibile nel peggiore dei mondi possibili) ma la contabilità ragionieristica e la partita doppia elevata a sistema; ma con la partita doppia non si va molto lontano; al massimo si possono salvare provvisoriamente i conti di una determinata azienda, mentre tutto il resto della complessità sociale va in rovina. Trascorso la provvisorietà di quell’opera di salvazione anche l’azienda salvata è destinata al deperimento, se pure anch’essa non va in rovina.

Rovina sua e rovina della Fantascienza, al quale il pensiero unico ha sottratto la multidimensionalità del mondo, l’eventualità e il possibile.

Naturalmente non si tratta neanche qui del frutto malsano di un complotto, del freddo calcolo di questo quel gruppo di potenti (precisazione scontata, e pure, ahimè! obbligatoria). Sono le necessità complessive del Sistema a guidare, tramite la selezione oggettiva delle iniziative di successo, sempre all’insegna della furbizia, della prepotenza e del raggiro, la direzione di marcia. Come per altro guida tutte le assurdità in circolazione in questo momento, tra cui lo sfacciato insistito appello alla “meritocrazia”; quasi che non fosse questo imperante principio a regolare, dal 1989 in poi (molto più di prima), ogni aspetto della vita sociale; quasi che vi sia sostanziale differenza tra un ammissibile merito “professionale” (velo dietro cui nascondere ogni arbitrio gerarchico) e il merito per status, per ricchezza, per anzianità o adesione ai disvalori imperanti.

È invece proprio il merito (contrapposto alla leale cooperazione per il bene comune da cui trarre vantaggio per tutti), insieme al resto dei disvalori che guidano le società emerse dagli eventi dell’ottantanove, a favorire la perseveranza di pratiche deteriori nei gruppi dirigenti, che selezionano i propri politici e funzionari sulla base di un merito specifico, la capacità di pronunciare assensi e capacità di mentire alle masse, il merito proprio ai yes men.

Possiamo riassumere quanto appena detto tramite una sola tesi: la trasformazione della figura del Cittadino, presunto potenziale dominus dell’organizzazione sociale, che per poterlo essere (dominus), o rendere credibile tale presunzione, deve avere a disposizione mezzi culturali, ideologici e politici sempre più ampi, tali da renderlo capace di un governo effettivo della società (da cui la tendenza all’acculturazione, alla formazione e all’informazione e il conseguente prestigio della cultura), in Consumatore, che sorge dalla trasformazione del primo in suo esatto antagonista. In passivo oggetto di diritti: il diritto all’accesso all’avidità, alla futilità, all’apparenza, alla speranza nel consumo di merci. Tanto al primo viene (o meglio verrebbe) chiesta iniziativa, tanto al secondo è imposta la passività; quanto al primo vengono attribuiti astratte funzioni di occhiuto controllo, tanto al secondo di consenso. Il consumatore non ha bisogno di cultura, ha bisogno di beni di consumo, di qualsiasi pur inessenziale bene di consumo (nonché, contraddizione somma, del denaro per comprarli, denaro che non c’è, o c’è sempre meno per la maggioranza della popolazione). Il consumatore non ha bisogno di stimolare e allargare la propria intelligenza, gli basta quella minima per organizzare l’acquisto e il fugace uso di tutto quello sul quale riesce a mettere le mani. A lui dunque la cultura, a parte quella specifica della categoria a cui appartiene, una cultura che pone domande e costringe a porsele, è quasi d’ostacolo. Non serve. È appena tollerabile, degna d’ogni ridicolo. Con la cultura si sa, come significativamente ricordato da un eminentissimo membro dell’attuale governo, non si combina certo il necessario per potersi fare almeno un panino!

Tutto questo però (e qui allargo le distanze dal Calabrese proprio su un punto in cui diciamo le medesimo cose, ma con intendimento diverso), non vuol significare scomparsa della cultura. O ridimensionamento della cultura (quindi, neppure fatale sottrazione della base della creatività artistica). Vuol dire eventualmente fine della partecipazione di massa (anche se ho qualche dubbio sull’effettiva volontà positiva di attivarla); vuol dire ridimensionamento del ruolo effettivo della scuola dell’obbligo e più ancora del mito sulla volontà e capacità del capitalismo di promuovere sia pure parziali forme di effettiva emancipazione degli uomini. Questo e non altro. Nelle grandi università, in alcune istituzioni culturali, tramite la buona volontà di questo o quel mecenate, raffinate forme di pensiero e arte possono continuare a prosperare, costituire la base per sviluppi imprevedibili nei vari campi dello scibile umano. Non diversamente di quanto è sempre successo nel secoli anteriori all’ottocento in cui un piccolo gruppo di pensatori elaborava il pensiero generale della propria epoca (circostanza che per altro non sfugge all’attenzione del Calabrese). Tuttavia non in un vuoto culturale, come egli sottintende, ma in un pieno diffuso di elaborazioni dal basso (tradizione ripresa dalla Fantascienza) che fondavano il mare magnum creativo nel quale necessariamente “l’alta cultura” doveva immergersi per pescare quanto necessario per alimentare una ispirazione che si muoveva in atmosfere troppo rarefatte per non finire con l’evaporare. Non è forse il graduale sottrarsi a tale imbarazzante “ritorno alle origini” – per molti intellettuali imbarazzante lo è stato e continua a esserlo: ostinatissimi gli italiani – da parte di tanti artisti del Novecento, che ha contribuito in maniera determinante a produrre l’inclemente incapacità di farsi leggere e apprezzare della quale hanno sofferto e soffrono? È proprio in questo interrogativo che risiede una delle ragioni principali del dissenso con l’estensore dell’articolo che sto commentando. Dissenso che parte dalla dissimulazione (spontanea, non voluta, frutto dello stato di cose presenti) del perdurante ruolo della “bassa cultura” e si completa con il rifiuto della distinzione tra i vari aspetti delle culture (per quanto attiene a quella tra passato e presente persino esplicitata). Qui il dissenso non potrebbe essere più insanabile. La cultura del Novecento è stata una grande cultura, grandissima nella letteratura, alla quale annetto senza riserve la Fantascienza, grandissima nel cinema, sostenuto da un inesauribile cinema popolare. Grande anche nella musica, ché se quella classica soffre di un relativo disconoscimento del pubblico (ma non nei riguardi di Orff, Perosi, Paert, Glass ecc.), per quanto attiene a quella popolare ha conosciuto e conosce una stagione di trionfi che non ha paragoni (Beatles, Enia, De André ecc.) Altro che decadenza! Altro che fine del romanzo, abbaglio diffusosi nella prima parte della seconda metà del Novecento (e la Fantascienza? E Grass? Marquez, Bulgakov, Amado? e chi più nomi ha, nomi metta).

Si lasci perdere, per favore, il riferimento benevolo ai presunti scrittori che sarebbero enormemente aumentati. Lo si ignori, in quanto ampiamente ingeneroso (non credo che Calabrese meriti tale nomea; la si lasci perdere dunque anche nel suo buon nome). Chi come me carico ormai di troppi anni conosce le cose del recente passato sa bene quanto pullulassero gli estimatori del sapere nell’ormai dissolto mondo contadino; sa anche che, se pur caratterizzato da un analfabetismo diffuso, del ruolo che vi svolgevano i cantastorie e narratori “spontanei”, i malati del poetare, nonché raffinati artigiani con i loro raffinatissimi prodotti, che a volte sconfinavano nell’opera d’arte; nonché il collettivo elaborare canti e balli, con temi capaci di resistere all’usura dei secoli e dopo secoli servire da base (pesco nelle nebbie della memoria) ai Beethoven, Frescobaldi, Brahms, persino Mahler e i suoi vezzi bandistici. Non comparivano certo Divine Commedie, ma vi si strutturavano le basi per edificarle (Dante stesso non si è forse lasciato ispirare dalle narrazioni popolari sugli inferni che ci aspetterebbero nell’aldilà?). Nello stesso modo in cui la struttura Fantascienza arava in profondità e per sempre il secolo che l’ospitava, costruendo miti, stilemi, soluzioni che oggi è possibile rintracciare negli autori ammessi nei salotti buoni dell’ufficialità.

Chiedo, almeno su questo passo, non la condivisione, ma quantomeno l’ascolto. Da parte di noi piccoli che abbiamo sempre subito il disconoscimento di quella stranissima specie di intellettuali che invece di utilizzare il loro intelletto per capire, utilizzano il pregiudizio per occultare (i più ottusi sono reperibili proprio tra gli spregiatori della Fantascienza). Dovremmo saperne qualcosa dunque noi di negazioni e condanne senza appello! Di frettolose liquidazioni e mortificanti ostracismi! Ma evidentemente la storia non è in grado di insegnare nulla a nessuno. Spesso sembra far sorgere sentimenti opposti ai contenuti di quell’insegnamento. Non insegna alle vittime il brutto di somigliare ai carnefici. Non insegna ai carnefici i vicoli ciechi in cui conduce il moltiplicarsi delle vittime (storia del Novecento, che ha lasciato l’umanità spoglia di se stessa quanto lo era prima che il secolo si manifestasse). Insegnerà a tutti coloro che sono stati investiti da questa discussione a guardare la realtà con sguardo problematico e non con le certezze delle nostre forti convinzioni? Ne dubito. Solo il decorrere del tempo, che viene definito galantuomo, potrà determinare, se vorrà farlo, la fondatezza di questo dubbio. Per adesso vedo nero, voce di uno che grida nel deserto. E che pure non stanca di gridare.

 

Introduco un brano, a mio parere esemplificativo dell’atmosfera culturale e del contributo offerto dalle masse popolari a costruirla. Il brano è tratto da:

Orazio Barrese – Il Pianoro delle Quaglie – Iride Edizioni, gruppo Rubettino, 88049 Soveria Mannelli, pag. 168, secondo paragrafo, nel quale vengono riportate le parole di Popita, dirigente della CGIL del primissimo dopoguerra:

se vogliamo un mondo diverso, dobbiamo anzitutto immaginarcelo, come fossimo visionari, pensare cioé come dovrebbe essere. Però non basta immaginarlo, bisogna programmarlo e dotarsi delle armi necessarie per trasformarlo. E tra le armi più importanti, personali e collettive, c’è l’istruzione, la cultura, che ci consente una vista panoramica, come se fossimo sul monte sant’Elia.

Questo detto da un comunista mangiabambini. Un discorso con molto seguito tra gli ultimi. Un discorso che dovrebbe dirci molto sull’influenza che anche il declino dell’idea di trasformazione sociale ha avuto, a partire già dalla fine degli anni settanta, sul prestigio della cultura e il disprezzo nei confronti di coloro che la praticano. Non è solo la perdita di valore del “titolo di studio” come strumento di promozione sociale, del quale si dice molto. C’è un di più che non viene detto. Prima ancora c’è infatti il declino delle speranze in un mondo nuovo, più giusto e a misura d’uomo. Da cui il declino della cultura in quanto strumento atto a decifrare la realtà e le distorsioni della realtà, per potersi munire degli strumenti adatti al cambiamento.

Cito questo passo non solo in quanto significativo per capire le fonti dell’interesse popolare per la fantascienza, vero e proprio fenomeno di massa nel secondo dopoguerra, ma per spendere una parole in favore del libro tutto, utilissimo, per le modalità con cui tratta il passato, per la decifrazione del presente e per iniziare a articolare qualche ipotesi di cambiamento. Per esempio, il tipo di uomo che si vuole costruire. L’etica sulla quale basarsi per costruirgli la spina dorsale. Gli obiettivi che gli si intendono dare per permettergli di accedere a un ipotesi più alta di umanità. La costruzione di un ambiente libero in cui esercitare il diritto di libertà… elementi che costituiscono l’ossatura del libro, la sua ispirazione di fondo.

Inutile dirlo, ma mi sento in dovere di precisarlo, un libro  gradevolissimo da leggere.

 

 

Quanto alle argomentazioni passionali con le quali è stati imbastito il discorso sulle scienze, tenterò di abbreviare il più possibile le mie controdeduzioni, anche se già so, considerato il dilungarsi necessario della parte precedente, metterò a dura prova la pazienza di qualche lettore. Purtroppo le tematiche sollevate sono tali che ben altro spazio e ben altre competenze avrebbero richiesto di essere messe in gioco per fornire una confutazione se non esaustiva, quantomeno accettabile. Del poco che verrà esposto converrà comunque contentarsi. Anche perché, sia detto per inciso, non mancheranno ulteriori occasioni di approfondimento. L’interlocutore è tale che non ho dubbi stia già preparando una ulteriore provocazione, altro materiale sul quale esercitare la pazienza e le capacità argomentative di questo o quel cultore della Fantascienza.

Il punto più debole che può essere individuato nelle sue appassionate prese di posizione mi sembra sia quello che riguarda la presunta assenza di una scienza della storia. L’affermazione qui, ma anche altrove, è lapidaria, non conosce, nemmeno ammette, la possibilità del contraddittorio. Con la differenza che qui non è soltanto parzialmente erronea, ma del tutto gratuita. Una scienza della storia non solo esiste, ma ha ormai quasi un secolo e mezzo di vita. Essendo essa stessa portatrice di una storia assai grande, tormentata e complessa. La storia delle donne e degli uomini che hanno lottato pro e contro la sua affermazione. Componendo nei fatti una grandiosa epopea che non ha ancora trovato poeti sufficienti a cantarla, privo come sono i tempi di un Dante e un Omero in grado di abbracciarne la grandezza e di rappresentarla (assenza che accomuna la gran parte delle epoche). Un’epopea destinata a percorrere i secoli, sulla quale invano ci si ostina a stendere la pietra tombale della dimenticanza; epopea frutto dell’incontro (appunto) tra la Scienza della Storia, meglio conosciuta e combattuta con il glorioso nome di “marxismo”, e il Movimento Operaio; che ha informato di sé e condizionato non solo gli avvenimenti che si sono succeduti dalla Comune di Parigi in poi, altra fantastica epopea volutamente occultata per occultare i crimini di cui si è macchiata la borghesia nonostante la tanto decantata “civile convivenza”, nonostante i suoi “inalienabili diritti dell’uomo”, la sua precaria “democrazia” e la improbabile società “affluente”. In questo secolo e mezzo di sconfitte e trionfi la Scienza della Storia ha costretto le Scienze Umane (spesso mere ideologie razionali) a misurarsi con essa, ad accettarne l’egemonia o quantomeno adottarne il metodo o subirne l’influenza (salvo per quanto attiene all’economia e agli economisti, nome santo della peggiore cricca di moderni chierici che frequenti gli schermi televisivi, la cui pudicizia è paragonabile a quella alquanto bassina degli uomini politici, che dell’etica ritengono opportuno, proficuo e positivo, fare strame; nello sessa misura in cui, bontà loro, almeno nelle comparse televisive, ritengono di poter fare a meno di dati e argomenti, in favore di apodittiche petizioni di principio, tipo – famosa quella di Modigliani – “i debiti si pagano”, a proposito del ventilato consolidamento del debito pubblico; non quelli però contratti con i pensionandi, il cui importo delle pensioni essi hanno finanziato da lavoratori dipendenti per mezzo di versamenti mensili che sono serviti per se stessi, unica gestione attiva, da sempre attiva, nonostante la enorme programmata evasione contributiva; e per i lavoratori autonomi, tutte gestioni passive, da sempre passive. Cosa altro dare allora se non parole di disistima a questi magliari, insigni premi Nobel dalle belle parole, osannati professoroni senza vergogna, un’unica “massa reazionaria” nei confronti del lavoro dipendente?)

A questo proposito ritengo che un unica vera grande riserva sia da sollevare sulle attuali sorti delle scienza. Quello ben poco scientifico svolto dalla tecnica economica e dalla maggioranza dei suoi adepti, i quali però opinano di poter dettare legge quantunque non di scienza si tratti, ma di dottrine la sostanza delle quali è per altro esercitata pressoché esclusivamente tramite apodittiche affermazioni sulle capacità taumaturgiche del mercato che qualsiasi manuale della scuole medie superiori smentisce allegramente. Ricordo il mio stupore quando appresi, su uno di essi, che una delle leggi cardine dell’economia di mercato è che in esso la moneta cattiva scaccia la buona (leggasi, la tendenza del mercato è di selezionare in negativo la presenza delle merci). Qualcuno ha mai udito evocare questa legge a proposito dei fenomeni che attraversano la globalizzazione? Strana questa scienza che comunica all’esterno senza parlare mai per mezzo dei contenuti veri di se stessa! Strano che di questa assenza sopravviva, invece di morirne! Nessuno però che gliene faccia carico. Nessun che avverta e segnali tutto questo come problema. Che ne denunci, volendo accettarne la auto definizione di “scienza economica”, la stagnazione, il non salto di qualità che invece si esige dalle altre scienze. La perdurante incapacità di salire abbastanza in alto per abbracciare con un solo sguardo l’insieme dei fenomeni che dovrebbe descrivere (non la sola contabilità aziendale, bensì l’insieme dei fenomeni che presiedono alla riproduzione di tutti gli elementi necessari alla produzione; tra i quali bisognerebbe annoverare, ottimizzando, la riproduzione degli agenti della produzione: i lavoratori).

Non si punta il dito contro l’economia e gli economisti, nonostante gli enormi danni che, anche in tempi recenti, con la loro (voluta? Inconsapevole? Sospetta?) ignoranza dei fatti economici ha prodotto. Vedi attuale crisi. Finanziaria prima, mentre, secondo gli economisti “tutto andava bene, madama la Marchesa”; produttiva oggi, e chi sa ancora per quanto. Lo si punta contro le (vere) scienze, nonostante i grandi benefici apportati all’umanità; noncuranti delle conseguenze psicosociologiche di questi diti puntati; ignorando che di questi diti puntati la scienza non ha bisogno, perché dei propri problemi ha ampia consapevolezza. Che già se ne occupa. Che avrebbe bisogno piuttosto di aiuto e sostegno contro tutti i dogmatismi e fanatismi religiosi che pretendono di dettarle legge; contro le ingerenze degli avventurieri della politica; contro il dispotismo dei Capitani d’Industria e annessi predicatori televisivi che l’accerchiano, la ricattano, la soffocano, pretendono d’imporlesi. Come io stesso, insieme a tutti, indebitamente pretendo d’impormi: andando con i desideri più in là di ciò che onestamente promette, pretendendo chiedendo sperando in un di più impossibile assente dalla realtà e presente solo nei miei e nostri sogni. Approfittando per altro delle perenni incompletezze e incertezze teoriche, dei vicoli ciechi in cui spesso si caccia (e si caccerà sempre: per uno scienziato l’errore è prezioso quanto un esperimento riuscito, in quanto essenziale per le depurazione dei contenuti ideologici che permangono anche all’interno di scienza mature, completate). La scienza non produce verità ultime; illumina aspetti parziali della realtà, la quale ci si presenta con aspetti diversi a seconda dell’ampiezza dello spazio illuminato. Producendo dunque verità vere, ma provvisorie, in grado di auto confutarsi mediante verità più vere e altrettanto provvisorie, offerte da uno sguardo più ampio.

Nessuno però si senta toccato da queste parole. Non rimprovero niente a nessuno. Non sono in grado di scagliate la prima pietra. Anche io ho la mia parte di dogmatismi e inclemente superficialità da farmi perdonare. Imparare però dai propri errori è il massimo, a volte difficile da raggiungere, che possa ottenere un uomo. Perché se sbagliare gli è proprio, è invece il perseverare che effettivamente lo condanna. È mantenersi nell’errore, negli automatismi (i famosi istinti) e nelle paure (paura del nuovo, paura di sbagliare, paura di perdere la faccia) della parte animale che vive in noi e dalla quale solo parzialmente abbiamo preso le distanze, che fonda il nostro stesso danno.

Comprendo comunque che in queste disgraziata temperie politico-ideologica qualcuno possa (in verità più d’uno) ritenere possibile negare al marxismo lo statuto di scienza. Una comprensione dalla quale escludo però i giudizi liquidatori (pre-giudizi). E tutti gli atteggiamenti apriori di negligente negazione dell’esistenza. La comprensione spetta (invece) a chi, spendendo qualche parole a scopo di mera confutazione, paga almeno il prezzo di confondersi con la interminabile congerie di soggetti che hanno preteso, decennio dopo decennio, ruminando in genere quanto già detto in proposito da Benedetto Croce, di averlo effettivamente confutato. Ognuno che, incurante della miserrima fine dei predecessori, pretende di aver trovato finalmente gli argomenti adatti a una resa dei conti definitiva. Tale fino alla prossima volta, naturalmente; e alla prossima ancora. Perché alla fin fine il riproporsi di questa ciclica necessità (la confutazione del marxismo), sintomo di un dubbio irrisolto, o eco di oscuri insondabili timori, a costoro qualche istanza di riflessione dovrebbe comunque proporla. Un tale accanimento contro una non-scienza? Contro dottrine sorpassate, ottocentesche, che la storia avrebbe condannato? Una qualche ragione dovrà pure esserci! Finendo in questo modo con il trovare quel che neppure avevano cercato. Il vero nascosto di tanto accanimento. La posta in gioco. Il potere. La necessità della dissimulazione, l’impossibilità di fornire risposte alle incalzanti domande della realtà. La realtà dello sfruttamento, dell’oppressione e dell’alienazione universale. Apparirebbe allora che ciò che muove i critici del marxismo è il medesimo che muove i Creazionisti contro il Darwinismo, il quale dopo due secoli non è riuscito a firmare neppure un armistizio con le forze politiche oscurantiste che portano avanti le loro battaglie di retroguardia nascondendosi dietro la religione; lo stesso motivo che ha determinato l’accanimento della Chiesa di Roma, strumento di dominio efficace come pochi, contro Galileo: la perdita di potere che l’affermazione del nuovo paradigma scientifico comportava. Nel caso di Marx, ultimo della serie, la denuncia dell’immane impostura sulla quale si reggeva e regge la gigantesca impalcatura capitalistica, degli orrori conseguenti alla necessità dell’accumulazione capitalistica. Ecco allora, contro tutte queste minacce, e altre minori ma non meno preziose che si sono succedute, la sollevazione di tante energie salvatrici dell’esistente, onde preparare il terreno, dopo i fiumi di inchiostro, al diluvio dei manganelli. Al termine del quale non è più questione di confutazione o meno, poiché non ci sarebbe nulla da confutare. E nemmeno più nessun ostinato da far rigare dritto. C’è la rimozione totale dei problemi posti; e il dibattersi inane in una realtà quotidiana difficile da decifrare, impossibile con gli strumenti offerti dal pensiero unico dominante.

Certo, non nascondo le difficoltà che ha sempre conosciuto il marxismo. In quanto Scienza della Storia è ben lontano dall’essere matura. Non è ancora sorto infatti il Newton capace di portarla a compimento. Galileo ha dovuto attendere decenni per veder sfumare le obiezioni dei conservatori dell’epoca contro il sistema Copernicano, obiezioni che quasi pareggiavano le argomentazioni a favore. Ma ecco irrompere la gravitazione universale che ogni velleità reazionaria spazza via, ogni dubbio cancella e ogni ulteriore discussione chiude. Lo stesso vale per il marxismo. Nonostante le riletture dei testi classici effettuate in tempi recenti, da pensatori del calibro Althusser, Beethleim, Lucaks, Haveman e altri, autentiche testimonianze di un pensiero vivo e creativo, non si può affermare che l’essenziale sia stato fatto. Che si possa chiudere il dibattito sui fondamenti del marxismo e andare avanti. Perché non solo è incompleto, ma anche se lo fosse resterebbe ugualmente nel limbo della parzialità. Non essendo il marxismo una scienza come le altre, nelle quali, pur nella specificità che contraddistingue l’una dall’altra, è possibile separare, i tre aspetti con cui ognuna si presenta: separazione della (a) ricerca e della riflessione dalla (b) sistematizzazione teorica e dalle (c) applicazioni tecnologiche. Peculiarità del marximo è l’impossibilità di mantenersi viva nei manuali, dai quali può, in circostanze storiche specifiche, essere estratta e appresa (e se dimenticata, ricostruita). Il marxismo vive nell’atto del proprio esercizio, nel movimento reale tendente a cambiare lo stato di cose presente. Fuori dall’esperimento sociale deperisce e muore. Così come è (quasi) morto dopo la sconfitta epocale degli anni venti (vedi discredito enorme guadagnato meritatamente dal Materialismo Dialettico, ridotto a sorta di scolastica moderna); e ha invece ripreso vigore, in seguito ai grandi avvenimenti degli anni sessanta (Rivoluzione Culturale inclusa) che le hanno fornito nuovo slancio e fornito materia di riflessione ai ricercatori che avevano interesse a promuoverla. Attualmente, depurata dalle incrostazioni ideologiche prodotte da oltre un secolo di lotte politiche e filosofiche antagoniste (vittima dei propri limiti quanto del pensiero dominante), si regge su una manciata di concetti sufficienti a attestarne l’esistenza: il concetto di Modo di produzione e formazione economico sociale; il concetto di rapporti di produzione, di plusvalore, di distinzione tra capitale fisso e capitale variabile, di totalità strutturata gerarchicamente a dominante, di determinazione in ultima istanza ecc. ecc.; concetti che delimitano un suo proprio spazio teorico in cui esercitare la ricerca. La quale, per altro, non è stata avara, in pieno periodo incriminato (da Calabrese incriminato) di risultati, scientifici e filosofici insieme, come è proprio di ogni rivoluzione scientifica.

Problematicità dunque, sempre problematicità, non certezze totalizzanti, impazienze, richieste illegittime, invasioni di campo e dogmi. Sottraendosi alle insidie di quel relativismo, quel “si ma anche” che tanto male ha procurato al popolo italiano. O, peggio, evitare di introdurre, in un determinato settore dello scibile umano, dubbi arbitrari sulla sua validità, o validità di determinate acquisizioni all’interno di esso, accampando la scadente motivazione del suo (della scienza) pessimo uso. Altrimenti finiremo con il maledire Einstein in quanto, con la sua relatività avrebbe aperto la strada alla costruzione delle armi nucleari. O condanneremmo la chirurgia dei trapianti in quanto all’origine dell’orrendo crimine del rapimento di bambini, espianto e commercio di organi. Lo stesso uso delle tecnologie hard (TV-computer) e software (Internet) non sono da accantonare per le deviazioni che introducono nella vita quotidiana e nei comportamenti dei singoli. Internet in particolare non è certo da prendere sottogamba. Gli sconvolgimenti a cui stiamo assistendo, IN PARTE POSITIVI IN PARTE NEGATIVI, sono poca cosa intorno a quelli che promettono di introdurre. Nuove forme di democrazia diretta, ad esempio (non fosse per i ritardi della politica, essa già potrebbe essere promossa. Riprendendo i principi alla base della democrazia dei primissimo momenti della Rivoluzione Russa: tutti elettori e tutti eleggibili, sottraendo ai partiti la facoltà di formare liste per guidare il consenso; e lasciando loro la sola funzione di formazione ideologica; la revocabilità in qualsiasi momento degli eletti, forse la più terrorizzante eventualità per un politico; il mandato imperativo, che dovrebbe vincolare l’eletto al patto stabilito con gli elettori ecc.). Oppure la ricostruzione dei rapporti di buon vicinato, fondati non più sulla costrizione della presenza in uno stesso condominio, come avviene nelle grandi città, con la conseguente dissoluzione di tali rapporti (in quanto forzosi, alienati); per ricostruirli invece sulla comunanza di interessi, opinioni, lavoro e percorso formativo, rese possibile dalla nuova forma di comunicazione. Oppure ancora con l’esplosione definitiva dei “diritti d’autore”, almeno nelle assurde forma imposte recentemente dagli USA, già compromessi dalle attuali tecniche di duplicazione; e che diventeranno più facili con gli ulteriori perfezionamenti. Aggiungo che qui siamo a uno dei casi, non contemplati da Calabrese, in cui non soltanto le tecnologie non si oppongono allo sviluppo culturale, ma in effetti lo favoriscono. Sono gli interessi costituiti invece che vi si oppongono. Le possibilità offerte dalla codifiche APE e FLC tramite i quali è possibile comprimere in un unico supporto, mantenendo la medesima qualità, almeno cinque o sei CD diversi, continuano dalle varie etichette a essere ignorate e anzi boicottate, un decennio ancora dopo la loro diffusione. Ed è logico: ridurrebbero notevolmente i loro guadagni. Nessuno comprerebbe un CD a cento euro è più, prezzo che invece può essere spuntato da sei dischi differenti. Lo stesso è accaduto con l’avvento dei DVD (ottanta CD comprimibili, senza perdita di dati, in un dual Layer) e accade oggi con l’avvento del Blue Ray e HD, utilizzato pressoché esclusivamente per archiviare dati o migliorare la definizione dei film. Con un lettore Blu Ray adeguato un qualsiasi appassionato o studioso potrebbe portare con sé in un raccoglitore le opere principali di tutti i grandi della musica, a partire da Monteverdi e finire in Arvo Paert. Cosa invece hanno permesso si sviluppasse? Il mediocre MP3, che nella codifica taglia alte e basse frequenze, rendendo impossibile la ricopiatura in alta fedeltà. Il mediocre MP3 non costituisce una vera alternativa al formato CDA. Eppure lo stesso le grandi etichette perseguono, con alterna fortuna, coloro che lo utilizzano per scambiare la musica in proprio possesso.

Dov’è qui la decadenza? Dove la povertà dei tempi? Non vedo grigiore d’epoca qui, ma una asimmetrica lotta dei “consumatori” contro i profittatori delle opere dell’ingegno, opere i cui principali proventi quasi mai finiscono con il premiare coloro che le creano ma coloro che possiedono il monopolio del mercato.

Quel che sconcerta nello scritto in questione e che l’estensore sembra essere consapevole di quanto appena sostenuto. Tanto è che nel citare uno scritto di Rulli “I sogni infranti della fantascienza”, del quale caldeggia la lettura, sceglie un passo in cui è detto esplicitamente che essendo alcune potenzialità dell’informatica sgradite ai mercati, questi ultimi ne hanno “completamente pervertito l’uso”. Eppure nelle proprie argomentazioni sembra non tenerne conto. Almeno io non sono riuscito a capire che l’abbia fatto. La descrizione che offre dei veri-presunti limiti della scienza sembra invece essere frutto di una condanna generica del destino cinico e baro, un qualcosa insito nel progresso medesimo, sua teleologica contraddizione o inspiegabile sciagura abbattutosi sull’umanità. Mai che venga offerto un legame organico tra i problemi degli uomini, nel caso preso in esame i problemi della cultura connessi ai problemi del progresso scientifico. Tra i vari argomenti è assente un legame organico riconducibile a una unica coerente visione delle cose. In un punto sembra accusare i medici non onesti, in un altro la pigrizia delle persone “che, terminate le scuole, non hanno più occasione di riprendere in mano un libro o un giornale o di scrivere una lettera”, in un altro ancora l’ottusità della “massa che sembra appagata dell’antica formula pane et circensens”, o l’avidità dei ricercatori, interessati prevalentemente a “sprecare denaro pubblico”.

Mi fermo qui per non infierire su chi, generosamente si espone alle critiche sollevando, come può e spesso come non può, i problemi cruciali intorno a cui ruota la Fantascienza e l’interesse del fantascientisti. Mi fermo qui per la necessità di spendere alcune parole su un paio di punti sui quali è essenziale effettuare alcune precisazioni (a detrimento di altre che pur di pari importanza renderebbero questo scritto mastodontico, crudele nei confronti del lettore medio.) Il primo è dato dall’antica questione dei falsi scientifici; la seconda dalle ruolo degli aggiustamenti interni a ogni branca del sapere. Ci sarebbe da dire qualcosa almeno per quanto attiene alla medicina, il capitolo però è così ampio e importante, grave la disinvoltura con cui è trattato, che mi limiterò a toccare i punti che cadono sotto la competenza del secondo punto di cui sopra.

Comincio proprio da questo. Dalla categorica negazione di ogni successo attribuibile alla medicina. Negazione che rifiuto drasticamente di avallare. Non mi sembra sia paragonabile la condizione di un malato oggi a quelli dell’altro ieri, ai tempi delle sanguisughe, dei salassi e delle purghe a oltranza. Anzi, i successi conseguiti nel Novecento e in particolare nella seconda metà del novecento, nonostante i coinvolgimenti affaristici, i cinismi dei primari e alcune odiose pratiche curative (elettroshock, tutt’ora in uso; chemioterapia; chirurgia a gogò ecc.) mi inducono a affermare che non è solo il discutibilissimo tema dell’aumento dell’età media che può vantare la medicina. Ce ne sono altri, dai trapianti, agli antidolorifici, dalla cura di rarissime malattie, al contenimento di altre, che insieme alla diffusione e allo sviluppo di pratiche mediche alternative (Omeopatia, Antroposofia, Agopuntura ecc.) hanno permesso di dare speranza a chi prima non l’aveva. Non solo la condizione dei malati sofferenti di infermità d’origine biotica o virale è dunque migliorata,ma anche quella di coloro che accusano carenze renali e di cuore, che soffrono di disfunzioni nervose, che patiscono il diabete, che subiscono l’aggressione di un tumore ecc. Per non parlare delle notevoli possibilità di prevenzione che offrono oggi i diffusissimi e sempre più sofisticati attrezzi di laboratorio.

Perché ignorare quel tanto o poco che pur offre l’aborrita medicina? Perché costituiscono solo progressi “minimi”, indegni di essere considerati? indegni di un premio Nobel? come lamenta a un certo punto dell’articolo a proposito di innovazioni scientifiche in genere. Temo di sì, temo sia proprio questo il secondo punto dolente che ci separa irreparabilmente. Non separazione di argomenti, ché su molti punti siamo d’accordo; separazione prodotta da una diversa formazione culturale, effetto di differenti e alternative visioni del mondo. Temo, per arrivare al dunque, di trovarmi al cospetto di un enorme fraintendimento su quel che sia scienza e di come proceda l’innovazione scientifica. I piccoli progressi nelle varie branche della scienza benché denunciare la decadenza della stessa sono invece indice vitale del suo sofferto progredire. Prima infatti di approdare a nuove paradigmi scientifici occorre che il territorio delimitato da una determinata scienza sia quasi del tutto oggetto di esplorazione; che, completato il ciclo di estensione delle conoscenze, vengano individuati fenomeni non completamente in accordo con le teorie in auge; che il moltiplicarsi di questi fenomeni costringa gli scienziati a uscire (decisione dolorosa) dalla olimpica loro tranquillità, la stessa con cui si relazionano con gli apparati teorici all’interno del quale si sono formati, sui quali hanno speso la loro gioventù e costruito le loro carriere. A quel punto i più duttili e fantasiosi, i più rigorosi e onesti, romperanno con il passato e tenteranno di volgere lo sguardo, non più tanto quieto, in direzioni nuove. Con un po’ fortuna, allora, e tanta fantasia, continui confronti e defatigante lavoro di calcolo, potranno arrivare a porre le basi per un paradigma nuovo. A una descrizione radicalmente diversa del mondo che ci ospita.

Impresa non facile. Improba. Che richiede altrettanto coraggio di quello di un emigrato che attraversa continenti, disagi e pericoli, la propria esistenza messa in gioco, per costruire una vita nuova a sé e ai propri cari.

La “stagnazione” degli ultimi sessanta anni è connessa proprio all’immane compito implicito in tale ricerca. Le difficoltà innumerevoli, senza precedenti. Riempire i vuoti parziali di conoscenza nelle diverse branche della fisica prima; completare la meccanica quantistica, poi; nonché individuare i fenomeni atipici atti a guidare alla ricerca del nuovo. Non un nuovo qualsiasi. Il più notevole e smisurato. Addirittura produrre uno spazio teorico in grado di dare conto nello stesso tempo della gravitazione, della relatività e della meccanica quantistica. Cioè, ambizione somma, produrre una teoria unificata del mondo. Si può essere più audaci (più pazzi?). Credo di no, che non si tratti di eccesso di ambizione o di resa a una vena di follia; credo invece si siano posti l’obiettivo giusto, nelle convenienza delle domande che vale la pena di porsi, vale la pena per noi che siamo alunni di questo mondo. Alunni della Fantascienza. Alunni della necessità che ci guida a sciogliere i misteri della nostra esistenza a partire dal mistero della natura dell’oggettività che ci ospita.

Non pazzi, dunque; ma saggi della saggezza profonda alla quale solo i pazzi possono accedere.

La pazzia stava in tutt’altro. Non nelle dimensioni dell’impresa. Non almeno per me appassionato da sempre della Fantascienza e del suo pensare grande. La pazzia stava nella speranza degli scienziati e di tutti noi, che il tema potesse essere svolto nel breve corso delle vite che ci sono state provvisoriamente affidate. Appare evidente oggi che questo compito, considerato le sue dimensioni, potrebbe richiedere molto più tempo di quello previsto. Potrebbe protrarsi, senza ragionevolmente autorizzare nessuno (tale è la mia opinione) a inoltrare istanze di fallimento al tribunale dei contribuenti, anche oltre la vita dei nostri nipoti. Quel che conta per la scienza non sono i successi insuccessi della ricerca, a esempio, del bosone di Higgs, sebbene quel che ha insegnato la programmazione e realizzazione delle ricerche atte a individuarlo. Che essi non se ne siano stati con le mano in mano, ma abbiano assolto al loro dovere di porsi interrogativi, elaborando nel contempo gli strumenti concettuali e materiali adatti a scioglierli. Che siano in grado, insomma, di elaborare progetti credibili di ricerca in numero adeguato a far sì che, al netto dei fallimenti, gli approdi positivi risultino sufficienti a portare avanti sul piano delle conoscenze l’intera umanità. Esattamente quel che negli ultimi sessanta, ma anche ottanta anni, si sono affaticati a realizzare. Quel tanto che sul terreno sia teorico che delle applicazioni pratiche è effettivamente successo. Forse non si è approdati alla ambita gravitazione quantistica, ma certo si sono prodotti modelli raffinati (la teoria delle stringhe e delle superstringhe, a esempio) che fanno ben sperare per il futuro. Non si è realizzata la decifrazione del DNA, ma non è che la sola mappatura sia faccenda di poco conto. Ma perché poi non entusiasmarsi per le importanti novità nel campo della energie alternative? Campo ricco di progetti ambiziosi in avanzata fase di sperimentazione, uno dei quali (basta uno per tutti) mira a sfruttare i venti d’alta quota per mezzo di aquiloni in grado, muovendosi in circolo, di ottenere la medesima energia di una piccola centrale atomica. O perché ignorare gli straordinari e inquietanti successi sulle clonazione? I risultati ottenuti sul terreno controverso degli OGM? Le inaudite prospettive intorno ai nuovi materiali ceramici? I progressi nella Robotica? La vertiginosa ideazione delle Singolarità? Perché non citare il moltiplicarsi delle scoperte astronomiche, almeno noi fantascientisti dovremmo appassionarcene! Scoperte che ci hanno dato una più ampia conoscenza del mondo dei quasar, Buchi Neri, galassie e ammassi di galassie, favorite proprie dalle imprese spaziali dei Pioneer, dei quali Calabrese sembra essersi dimenticato (i Pioneer sono oggetti umani spinti nello spazio extrasolare, teniamolo presente). Altro che scienza inerte! Altro che declino! Il declino è in ciò che l’ideologia corrente non vuole vedere: la crisi degli assetti dell’attuale forma di dominio, i cui effetti negativi riverberano sulle condizioni di vita degli uomini e producono difficoltà crescenti alla produzione intellettuale (ancora non rassegnata a cedere le armi).

Per quanto attiene ai falsi degli scienziati o alle loro sbruffonate si tratta di una storia antica che non varrebbe la pena trattare non ci fosse stata gettata sui piedi a rischio di farci inciampare. Che ha ben poco a che fare con il declino o non declino della scienza. Essa non fa altro che denunciare la medesima propensione criminogena comune a ogni essere fatto di carne e di sangue. Ha a che fare con la medesima impazienza dei ricercatori di approdare a risultati positivi, impazienza che ho già ammesso essere la mia e che indubbiamente è anche del mio (anche nostro?) interlocutore. Impazienza che porta chi a deprecare i ritardi con cui la scienza mantiene le sue (in realtà non formulate) promesse; e chi a vantare risultati prima che gli esperimenti effettivamente lo dimostrino. Ma non conta nel far precipitare questo o quello in queste disonorevoli attività la sola personalità del soggetto che se ne rende responsabile. Contano le auto illusioni, il grado di debolezza verso le bugie che ognuno è incline a raccontarsi; o il rigore con cui lo stesso considera le certezze che, nel corso dei propri studi, ha maturato.

Non c’è scienziato, ritengo, che non abbia sofferto di questa vera e propria sindrome, anche se non tutti hanno introdotto forzature nella descrizione degli esperimenti per farli accordare con le ipotesi di lavoro (vero e proprio raggiro); né è capitato a tutti di avallare teorie corrette utilizzando esperimenti, si è scoperto poi, che non potevano essersi svolti come descritto (è successo anche questo).

Non me la sento di unirmi alla condanna di Calabrese contro costoro. Non perché la consideri inesatta. O non consideri la disonestà di certi ricercatori (non si creda, sono fatti della medesima pasta del resto degli essere umani. Inclini all’errore, alla faziosità e al raggiro, come tutti). Capaci in nome della scienza di tradire i fondamenti medesimi del confronto scientifico: obiettività e onesta valutazione dei dati. Capaci, ad esempio, di manipolare i dati sul QI per avallare le loro opinioni razziste. Non mi unisco per indulgenza nei confronti della fretta che caratterizza spesso le azioni (e le aspettative) di noi uomini (indulgenza che spetta allo stesso Calabrese); fretta all’origine di molti errori. Il problema è che noi uomini non possiamo né sappiamo aspettare. Il tempo che ci è concesso è troppo breve. Troppo breve per saziare la fame di sapere, l’ansia di arrivare, la indomabile curiosità che ci ha spinto a esplorare e colonizzare ogni angolo del nostro pianeta. La stessa curiosità, lo credo ancora, che ci spingerà domani alla ricerca di Nuove Terre, attraversando gli spazi freddi e bui del nostro universo.

Di un universo che a noi appare senza fine e senza principio.

 

Aggiungo qualche altro dato sull’attività scientifica nel periodo (da Calabrese) incriminato:

  1. La teoria (anni ’70) degli equilibri punteggiati di Gould e Eldredge;
  2. Le applicazioni laser in medicina, recentissimi e importanti quelli in Oftalmologia e chirurgia refrattiva (si interroghi in proposito i pazienti sofferenti di cataratta, gli ipermetropici, i miopi, gli astigmatici);
  3. A proposito di quasar (anche) la recente individuazione delle variabili blazer;
  4. Gli studi sui computer quantistici dei quali nel 1982 Feynman ha dimostrato la fattibilità; e Bruce Kane nel 1998 ha progettato l’attuazione;
  5. Le nuove teorie sulle estinzioni di massa, tra le quali è di particolare interesse fantascientifico quella sull’estinzione dei dinosauri (anni ’80).

Ognuno che lo voglia si potrà documentare a usura. La letteratura scientifica è sterminata in proposito. Internet stesso fornisce materiale a iosa.

Miglieruolo
Mauro Antonio Miglieruolo (o anche Migliaruolo), nato a Grotteria (Reggio Calabria) il 10 aprile 1942 (in verità il 6), in un paese morente del tutto simile a un reperto abitativo extraterrestre abbandonato dai suoi abitanti. Scrivo fantascienza anche per ritornarvi. Nostalgia di un mondo che non è più? Forse. Forse tutta la fantascienza nasce dalla sofferenza per tale nostalgia. A meno che non si tratti di timore. Timore di perdere aderenza con un mondo che sembra svanire e che a breve potrebbe non essere più.

Un commento

  • Marco Pacifici

    …purtroppo o per fortuna(altrimenti l’incontro sarebbe stato esplosivo) Orazio Barrese,che era(è) un Libertario e la cgil sono andati in direzione diversa e contraria…

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