Il quotidiano orrore, l’officina e il pizzaiolo egiziano
Recensione di Giuliano Spagnul a «Cosa si fa quando si fa filosofia?» di Rossella Fabbrichesi
Oggi la filosofia va molto di moda: festival, articoli su giornali e riviste, pubblicazioni di libri, a grande tiratura, su (e di) grandi filosofi. E, come si sa, quando una branca della cultura considerata alta si fa fenomeno, fenomeno di massa, il rischio di uno svilimento, di riduzione a una pappa buona per tutti i gusti è molto forte. È importante quindi che gli addetti ai lavori, soprattutto quelli che lavorano sul serio, quelli che non si fanno attrarre dalle comode poltrone dei talk show televisivi, si espongano a intervenire nel merito della loro disciplina. Per i filosofi, appunto, chiarire cosa fanno quando fanno filosofia e perché la fanno. Allora non tanto cosa è la filosofia ma, più concretamente: cosa si fa quando si fa filosofia? Ecco allora che il libro di un’insegnante di Ermeneutica filosofica dell’Università degli Studi di Milano, Rossella Fabbrichesi,1 si assume l’arduo compito di chiedersi: «che genere di esercizio teorico si compia ‘facendo’ filosofia e perché esso affascina ancora migliaia di giovani che continuano a scegliere questa materia di studi, palesemente improduttiva secondo alcuni paradigmi della contemporaneità»2. Mettere a nudo la propria professione, il proprio fare, implica il rischio di perdere quella legittimità che alberga, sonnacchiosa e pigra, nelle pieghe della consuetudine, di quel fare abitudinario e scontato di cui si è nutrito l’abito accademico nell’arco dei secoli della propria storia. Il risultato potrebbe essere imbarazzante. Lo stesso imbarazzo in cui il giovane studente di filosofia si è trovato nel non riuscire a spiegare al pizzaiolo egiziano in cosa consistesse la propria materia di studio, come viene riportato in appendice nel resoconto di una esperienza seminariale sulla ‘pratica filosofica’ tenuto dalla stessa autrice nel 2013 in un’aula dell’Università; ma su questo episodio particolare dovrò tornare più avanti. Rossella Fabbrichesi risolve il proprio imbarazzo nel tentare di spiegare in cosa consista il suo personale impegno nel fare filosofia, cercando di generalizzarlo nella più ampia domanda “cosa si fa quando si fa filosofia” all’inizio del corso con i nuovi studenti: la domanda delle domande che quasi nessun professore pone: «dare ragione del perché si entra in quell’officina e si sceglie proprio quello strumento». Normalmente «si comincia in media res» cioè si va subito al dunque come se veramente si «trattasse di entrare in un’officina e di trovare gli strumenti lì, pronti a essere usati. Ecco dice il maestro, ora ti mostro come si fa e ti spiego cosa ci puoi costruire»3. Rossella Fabbrichesi in questo libro che potrebbe avere come sottotitolo “Manuale di resistenza all’orrore del presente”, denuncia un comportamento che poco si addice a chi si trova investito di quel poter/sapere che la quasi millenaria storia dell’istituzione accademica gli ha conferito. Lei probabilmente è tra quelli che pensano (pochi, in verità) che per resistere all’orrore, che sempre più solertemente il quotidiano ci apparecchia nelle nostre tavole del vivere comune, occorra invertire l’ordine normale delle cose, imparare ad andare contro corrente e disdegnare il consueto. E questo per un insegnante di filosofia significa (sempre che abbia il coraggio della verità) dover dire ai propri allievi che la loro materia di studio «è l’unica disciplina teoretica in cui contano più il cammino e il modo in cui lo si percorre che l’approdo». Verità che per un’istituzione come quella scolastica, sempre più vincolata alle ragioni del merito, dell’obiettivo e dell’utile, è cosa probabilmente alquanto fuori dalla norma. E così, rivolgendosi anche a noi lettori del suo libro, l’autrice chiarisce che «non esiste dunque la filosofia ma la pratica filosofica. Che evidentemente non si può insegnare, ma solo mostrare in atto» perché la filosofia è in ultima istanza «attrazione per il sapere esaltata dall’amicizia comune»4. Per darne un esempio concreto rimanda all’appendice del volume, al seminario sopracitato, che esemplifica come «fare filosofia» significhi «condurre con sé delle anime, insegnando loro a battere il ritmo del canto corale»; mirando così «a costruire una comunità di ricerca, fondata sulla condivisione degli interessi e sull’invenzione di nuove pratiche collettive: per non dimenticare mai come la filosofia sia l’unica difesa dalle mitologie con cui il tempo presente tenta di incantarci»5. Tra la premessa e l’appendice, quindici brevi ma densi capitoli ci predispongono, con l’aiuto di Foucault, Deleuze, Wittgenstein e giù fino a Platone e Socrate, nel difficile compito di ‘dominare l’orrore’, ‘invertire la direzione del presente’ e renderci capaci di ‘praticare il reale’, ‘interpellare’, ‘sperimentare’ fino al più problematico e ambìto ‘educare all’amore per la vita’. Non essendo un romanzo giallo posso qui svelare il finale: ci dice che «la pratica della filosofia risiede dunque, molto semplicemente, nel comprendere ciò che siamo. Comprendere, per imparare a non irridere, non detestare, non disperdersi. Per esercitare la più alta forma di amore, quella che conduce alla felicità. Fare filosofia non è proprio quel fare che mira a coltivare la sapienza, ma solo al fine di condurre una vita felice?»6 . A fine lettura la prima cosa che mi è venuta alla mente è stata che un libro come questo non poteva che essere scritto da una donna; difficilmente un uomo riuscirebbe a coltivare una così tenace dose di speranza coniugata a una visione comunque tragica della realtà del nostro presente. Anche se dubito assai che le donne possano mai ereditare la Terra, come qualche giornalista di punta sostiene, sicuramente sono loro che hanno da sempre cercato di esercitarsi in quell’esercizio filosofico che, come scrive Foucault, consiste nell’«imparare a stare sulle frontiere» che significa, come aggiunge l’autrice, «che l’esercizio filosofico consisterà nell’individuare la soglia ‘meta-stabile’ sulla quale ci si può installare cercando di avvistare il punto critico in cui accade un cambiamento. Punto di catastrofe in cui una forma di vita cede a un’altra»7. Ed è proprio questa la criticità del nostro presente, un presente in grande trasformazione ma che potrebbe ridurci ad essere sempre più simili a quei prigionieri della mitica caverna platonica «bloccati in una posizione fissa, rigida, volta al muro, non possono che dirigere lo sguardo in avanti, e quel che vedono si rivela essere tutto il loro mondo ‘incapaci, a causa della catena, di volgere attorno il capo’»8. La filosofia può aiutarci? Certo ci dice l’autrice, sempre che riusciamo a comprendere come nella filosofia «la domanda di senso non è quella che indirizza verso la necessità di sapere – che sia sapere del mondo o sapere sull’anima – ma quella che chiede cosa si deve fare, in quale direzione si debba orientare le proprie azioni»9. Insomma la filosofia o è prassi o non è. Non può essere accumulo di saperi ma un costante aiuto per navigare nel caos, non pensando di governarlo ma piuttosto, mettendoci in grado di governare noi stessi e riuscire a non esserne travolti. Ma alla fine, un po’ da guastafeste, anche se consapevole della pochezza dei miei personali attrezzi filosofici, non posso astenermi dall’avanzare almeno un dubbio e chiedermi se quel titolo, quella domanda cruciale ‘cosa si fa quando si fa filosofia?’ non abbia il difetto di dare per scontato quel «…quando si fa filosofia?» che lo sottende. Per capirlo dobbiamo ora tornare al nostro pizzaiolo egiziano: lo studente S.M. «un po’ scoraggiato» per non essere riuscito a spiegare in cosa consista il proprio studio, si rende conto «che della filosofia non potevo dire cosa fosse, ma solo mostrarla nel suo operare (…). Mi sembrò che lo spiegare che cosa sia la filosofia dovesse equivalere al mostrare come si faccia filosofia: dunque un esercizio sempre e ancora da svolgere, che comprende nel suo compito anche la stessa figura del filosofo con le sue verità». E così lo studente può infine dirsi di aver trovato una risposta «soddisfacente» ma «che non si può certo dare a un pizzaiolo egiziano che ti chiede qualcosa per chiedere. Era come se per poter parlare di filosofia bisognasse comunque esser già stati catturati al suo interno, come se già l’iniziare presupponesse l’avere un certo atteggiamento e in qualche modo l’aver già iniziato»10. Viene qui da interrogarsi sullo statuto del filosofo, su chi ha diritto a sentirsi investito da tale carica. Esiste allora, forse, un tecnico, specialista della materia filosofica? Hanno torto quindi quelli come Gramsci nel loro voler dimostrare che tutti gli uomini sono filosofi (possiedono una ‘filosofia spontanea’) o come Gunther Anders che auspicava una filosofia grossolana? Per fare solo alcuni esempi di altri filosofi poco inclini a perseguire i sicuri sentieri della tranquillità accademica. O forse ha torto lo studente a non capire che il proprio scacco consiste non tanto nel non essere riuscito a far capire, quanto a non aver capito che anche l’altro aveva, probabilmente, una sua vita filosofica da far capire. Che a nulla serve ritirarsi in un cenobio a ‘praticare filosofia’ se questo non serve a trasformare in forma di vita (più consapevole, più critica) le proprie e le altrui pratiche di resistenza, di libertà al cambiamento per poter continuare a essere vivi insieme, perché insieme si parte – con tutta quella folla che ostinatamente continuiamo a chiamare “io” – e insieme dobbiamo imparare a coesistere, conflittualmente sì, ma caparbiamente cercando di comprenderci.
Nota 1: Della vasta produzione di Rossella Fabbrichesi vorrei ricordare soprattutto il libro «In comune. Dal corpo proprio al corpo comunitario», Mimesis, Milano, 2010 (del quale non ho resistito a farne un uso improprio con una citazione per un articolo sulla protesta No Tav in Val di Susa https://www.labottegadelbarbieri.org/wu-ming-1-molti-mondi-oltre-le-colline/ ) e il video di una sua conferenza su Michel Foucault visibile qui: https://www.youtube.com/watch?v=9avM99XpMvY
Nota 2: Rossella Fabbrichesi, «Cosa si fa quando si fa filosofia», Raffaello Cortina Editore, Milano, 2017. La citazione è ripresa dallo ‘strillo’ della quarta di copertina.
Nota 3: Premessa, pag XI
Nota 4: Premessa, pag XIII
Nota 5: Premessa pag XIV
Nota 6: pag 93
Nota 7: pag 53
Nota 8: pag 5, e nella relativa nota a pag 6 aggiunge: «Prigionieri con lo sguardo rivolto in basso e costretti a una distanza visuale sempre più accorciata appaiono ancor oggi i moderni, ossessivi utilizzatori di tablet e smartphone».
Nota 9: pag 52
Nota 10: pag 105