Il serpente del Pacifico: seconda puntata

Viaggio dall’Atacama allo Stretto di Magellano. “Norte Grande ” e “Norte Chico”

di Kumba Diallo (*)

E’ convenzione cilena suddividere il territorio geofisico nazionale in cinque grandi aree: da nord a sud  Grande Nord, Piccolo Nord, poi il centro agricolo e vinicolo, e dal fiume Biobío in giù, Sur Chico (piccolo sud) e Sur Grande, quest’ultimo comprendente Patagonia e Terra del Fuoco, con le ghirlande di tutte le innumerevoli isole circostanti fino al parallelo 55°59’ latitudine sud; l’estrema punta rocciosa dell’isoletta di Cabo de Hornos non è però il limite estremo di un continente terragno, bensì un puntino nell’oceano sotto l’isola Navarino, quasi invisibile sulla carta. Ma cominciamo da 4300 km più a nord al confine con il Perù, dalla Regione di Arica y Parinacota, ovviamente Norte Grande.

 Arrivando ad Arica da Iquique il panorama dalla Panamericana (ora Ruta 5)

abbraccia speroni di roccia, vallate scabre e scarpate color ocra per centinaia di km: è l’Atacama, il deserto più arido del mondo, che inizia 1000 km più a sud. A volte compaiono rare macchie di paja brava, ispidissime barbe vegetali di colore indefinito e cactus un po’ rachitici. Su un declivio di terra rosata sul lato sinistro della strada in direzione nord appare la visione del Gigante di Tarapacá, un imponente geoglifo antropomorfo[1]lungo 115 mt che raffigura una sagoma umana attorniata da intricati disegni geometrici. Datato intorno al 1000 d.C., un sito cileno suggerisce che raffiguri una divinità mitica in viaggio dal lago Titicaca all’oceano[2].

Leggo strabiliata che tre turisti-vandali si sono addentrati in situ il 6 gennaio di quest’anno con la loro automobile, calpestando poi anche a piedi i geoglifi intatti da più di dieci secoli. Processati, sono state emesse condanne ridicolmente indulgenti, dato che si afferma che il danno è “irreparabile”[3]. Ho ammirato l’insieme ancora intatto dall’autobus, grazie all’autista comprensivo che si è quasi fermato per darmi modo di fotografarlo.

La monotonia del viaggio nel deserto è spezzata a volte inaspettatamente: filari di alberi anche maestosi, algarrobo o boschetti di tamarugo prosopis fioriti, seguiti da coltivazioni e orti, oasi che possono diventare delle città fiorenti, come Vallenar, o piccole enclaves deliziose come Pica, con le sue acque termali e gli alberi da frutto. I miracoli delle nappe freatiche nel deserto, nutrite da acquiferi profondi e giacimenti di acqua fossile sono stupefacenti, ma riposano su equilibri delicatissimi che lo sfruttamento dissennato dei giacimenti di litio contenuto nelle distese di sale dell’Atacama possono far scomparire come miraggi in una bolla di sapone. I cosiddetti salares[4], sterminate distese di croste salate che si estendono sull’altipiano nel triangolo Cile-Bolivia-Argentina, relitto geologico di un mare primigenio, racchiudono infatti le maggiori riserve di litio al mondo, minerale diventato negli ultimi 10-15 anni imprescindibile soprattutto nell’elettronica, ma anche nel nucleare, in campo bellico e persino in medicina. Facendo escursioni in paesaggi incantati nei dintorni di San Pedro de Atacama, per esempio al Geyser di El Tatio, al Salar de Atacama o alle Lagunas Escondidas – specchi d’acqua azzurrissimi circondate da distese saline di bianchezza abbagliante – sapevo di percorrere un ecosistema antichissimo, fragile come porcellana di Sèvres e ben più prezioso.

Si ricevono istruzioni essenziali di comportamento, a volte purtroppo, come ho constatato, non osservate. Ma non immaginavo, né le agenzie turistiche ne fanno cenno, l’impatto negativo che questo ambiente unico al mondo[5]sta già soffrendo a causa del prelievo di litio dalla massa salmastra (che viene pompata all’esterno dalle profondità del salar e lasciata evaporare in grandi mucchi fino a renderla lavorabile) dalle due principali imprese concessionarie: la cilena SQM –  il proprietario miliardario, Julio Ponce Lerou, è l’ex genero del generale Pinochet – e la Albemarle, nordamericana.

Le due imprese si accusano a vicenda di superare le quote di estrazione stabilite nei loro contratti con l’Agenzia statale cilena CORFO, mettendo così a repentaglio non solo le riserve di litio, ma soprattutto sottraendo con il sale anche l’acqua che rende possibile la vita delle oasi e l’economia indigena dell’area.

Nel 2013 gli ispettori della CORFO arrivarono alle installazioni della SQM e si avvidero che 23 algarrobo, alberi che sopravvivono protendendo le loro radici in profondità fino a raggiungere l’acquifero, perdevano foglie e stavano morendo[6]. Erano alberi sentinella che la SQM si era impegnata a monitorare: da allora, altri alberi sono morti. Insomma, un altro possibile ecocidio è in vista se le autorità cilene non riusciranno a tenere a bada l’avidità dei saccheggiatori. Del che si può dubitare: un articolo del 2018 reperibile in rete denuncia l’ultimo rinnovo contrattuale del Governo con la SQM (fino al 2032!), secondo i termini del quale la quota di estrazione potrà essere quintuplicata[7].

Il Museo di San Miguel de Azapa, 10km a nord di Arica, è ben lontano da questo tumulto di interessi: là dormono il loro sonno millenario le più straordinarie mummie che si possano immaginare: straordinarie per la loro antichità – 5000 anni a.C. – , per le tecniche ingegnose architettate per la loro confezione, e infine per il fatto che il popolo Chinchorro che le creò era allo stadio arcaico vivendo di caccia, pesca e raccolta di frutti selvatici, e non praticava l’agricoltura o il commercio come l’egizio. Inoltre, mentre le mummie egiziane erano di re, nobili, sacerdoti, i Chinchorro mummificavano democraticamente tutti, persino i feti e i nati morti. E questo aspetto è forse il più commovente.

 Le più antiche mummie sono “las negras” e la loro confezione era la più complessa: i corpi

venivano delicatamente scuoiati e la pelle messa da parte, poi le interiora e il cervello erano estratti, le carni eliminate, le ossa smontate. Lo scheletro ripulito era rimontato con l’aiuto di stecche e rivestito con materiale vegetale secco modellandolo per simulare i muscoli, si usava la pelle conservata per ricoprirli, usando anche pelle di leoni marini [8]per sanare i vuoti, e infine la sagoma ricostruita era ricoperta di una pasta di cenere e spennellata con una vernice di polvere di manganese (appunto, nera). Le mummie più recenti, le rosse, furono preparate meno accuratamente e ricoperte di una pasta di ocra rosso vivo. A volte si ornavano le teste con parrucche di capelli veri. I lineamenti erano infine modellati minuziosamente[9].

Sono rimasta letteralmente affascinata da questo immenso amore e rispetto per i trapassati, per questo legame così solido che abbracciava i viventi e i morti nella cornice di un unico mondo culturale, in un presente comune prolungato. Il clima secco e intriso di salinità ha fatto sì che queste creazioni artistiche singolari siano giunte intatte sino a noi. Ed ora, dopo avere attraversato i millenni, le mummie di San Miguel de Azapa rischiano di deperire a causa delle modifiche climatiche: dei batteri prodotti dall’aumento dell’umidità e della temperatura le stanno attaccando provocando lesioni. Per fortuna già si studia il modo di arrestare il deterioramento e trasferirle in un unico museo attrezzato adeguatamente nel 2020[10]. Intanto c’è pronto un dossier per chiedere per loro all’Unesco il crisma di patrimonio dell’umanità.

Vicino a San Miguel ho visitato il “Santuario del picaflor”, cioè del colibrì: segnalato malissimo e quindi difficile da raggiungere soprattutto a piedi, è stato deludente: mi aspettavo un frullare frenetico di minuscole ali, e in un’ora e mezzo ho avvistato un solo esemplare, mentre pochi giorni dopo, a Taltal, ho quasi sbattuto il naso contro un colibrì indisciplinato che mi ha tagliato la strada davanti all’albergo. Bella però la vegetazione rigogliosa dell’oasi: ci sono i balisiers, già ammirati nel clima tropicale della Martinica.

Più a sud, Iquique è oggi una mezza metropoli, con una lunga e bella spiaggia e un mare con onde temibili da surf, preda di un evidente appetito immobiliare stimolato dall’afflusso turistico crescente. Vi ho passato Natale e Capodanno, ma non consiglierei a nessuno di trovarvisi per le feste senza sapere in anticipo che né le sere del 24 e del 25 dicembre, né il 31 dicembre o peggio il 1° gennaio sarà possibile trovare un ristorante decente aperto. Il 24 dicembre ho festeggiato con un panino al formaggio e una bottiglietta di vino trovata per miracolo in uno spaccio caritatevolmente aperto, in compagnia di un tassista in vena di confidenze su pene d’amore coniugale. Comunque la sfida di trovare di che cenare si rinnova ogni domenica sera, a meno di non essere a Santiago o a Valparaíso.

Un’osservazione ecologica: appollaiati sulle palme che costeggiano la spiaggia di Iquique o sugli scogli, colpisce il numero di cormorani neri, chiamati patos yecos (pron. gecos), che si stanno moltiplicando e invadono sempre di più gli spazi urbani, tanto da generare aspre polemiche tra chi sostiene le ragioni degli animali e chi li vorrebbe eliminare. A me sono sembrati pittoreschi e simpatici.

Ho accennato al prelievo odierno del litio dal salar, ma l’Atacama aveva già vissuto una altro periodo di sfruttamento intensivo dei suoi tesori minerali con l’industria del salnitro, che contribuì a creare una prima borghesia cilena tra Antofagasta e Iquique, madre (o nonna) di una buona parte della attuale oligarchia. Il salnitro si trova sulla superficie delle rocce in Atacama. Dopo che uno scienziato tedesco scoprì come sfruttarlo, nella seconda metà del 1800 nacquero i primi centri di estrazione e trasformazione del minerale. Prima del 1879 la regione di Antofagasta apparteneva alla Bolivia, mentre le regioni di Tarapacá e Arica appartenevamo al Perù.

Fu precisamente un aumento dell’imposta che le imprese cilene ad Antofagasta pagavano alla Bolivia per il trasporto del salnitro a far scoppiare la Guerra del Pacifico (1879/84), al termine della quale il Cile aveva conquistato tutti i territori boliviani e peruviani a nord di Taltal fino oltre Arica, impadronendosi di tutte le fabbriche di salnitro, sviluppandole con capitali soprattutto inglesi e americani. Dopo la crisi del 1929 e la produzione del nitrato di potassio sintetico l’industria declinò e un esercito di operai cileni, boliviani e peruviani dovettero riciclarsi emigrando nelle bidonvilles di Santiago o di Lima. Oggi la città morta di Humberstone (dal nome di un impresario inglese), già centro dell’industria del salnitro, è meta di escursioni turistiche.

Ho ricordato questo capitolo di storia cilena perché al Museo Regionale di Iquique, oltre a reperti d’arte precolombiana e a mummie, sono esposte le fotografie scattate prima e dopo un feroce eccidio di operai che lavoravano nelle miniere di salnitro e vivevano in condizioni miserande nel deserto con le loro famiglie, pagati non in denaro bensì in gettoni solamente utilizzabili entro il recinto della “salitrera”, nei magazzini del padrone, esposti al sole infuocato di giorno e a temperature intono allo zero di notte.

Il 21 dicembre 1907, in seguito a un lungo sciopero per ottenere un migliore salario e più decenti condizioni di vita, si asserragliarono con donne e bambini in molte migliaia dentro e intorno alla scuola Santa Maria di Iquique. Fu loro ingiunto di sciogliere l’adunata e tornare al lavoro entro un’ora, e al rifiuto degli operai di cedere fu aperto il fuoco con mitragliatrici. Migliaia di persone, mai si seppe quante, furono falciate: chi governava aveva legami stretti con gli industriali e interessi personali nell’industria del salnitro. “Los dueños de Chile somos nosotros, los dueños del capital y del suelo…”; non aveva peli sulla lingua Eduardo Matte Perez (1847-1902), liberale, deputato, senatore e ministro, bisnonno di uno degli oligarchi attuali. I padroni siamo noi e vogliamo restarlo[11]. E si sono moltiplicati e perpetuati tali.

Vale la pena menzionare un aspetto che in Sudamerica ho osservato solo in Cile: quasi in ogni città ci sono orde nutrite di cani randagi unici per discrezione e savoir faire: non disturbano minimamente i passanti, sono anche piuttosto puliti dato che non mi è capitato spesso di vedere tracce spiacevoli di deiezioni. Dormono placidi al sole, attraversano la strada ai semafori al verde. A Taltal, altra città mineraria a sud di Antofagasta, dotata di una gradevole ancorché corta spiaggia con simpatico salvavidas, mi ero allarmata una sera, memore di una pessima esperienza in Albania, vedendomi davanti una torma di 14 esemplari (contati). Sembrava una riunione operativa, erano vicino a un giardino; dopo un conciliabolo apparente, si sono allontanati al trotto, ignorandomi. Autonomia canina.

Per concludere il capitolo miniere, ho voluto visitare la più grande miniera al mondo di rame a cielo aperto a Chuquicamata, vicino Calama, dove risiede la Società che gestisce l’estrazione di questo minerale in tutto il Cile, la CODELCO, nazionalizzata da Salvador Allende nel 1971. Anche qui i padroni privati precedenti avevano eretto una città abitata da migliaia di operai e tecnici con relative famiglie, dotata di teatro, hotel, stadio, scuole, giardini e ovviamente negozi, il tutto proprietà della nordamericana Anaconda Mining Company. L’insediamento fu abbandonato non molti anni fa per la pericolosità della vicinanza alla miniera, ma date le visite turistiche guidate organizzate dalla Codelco è ancora mantenuta in ordine, deserta e pulita, come imbalsamata.
Non lontano dalla ex città andiamo in gruppo a vedere la voragine immensa della miniera vera e propria che fumiga, quindi non si riesce a intravedere il fondo: si segue con lo sguardo l’arrancare lentissimo dei camion giganteschi che incessantemente salgono a spirale le pareti della cavità carichi di massi grigiastri e una volta scaricate le tonnellate di minerale ridiscendono la china, così per ore, un girone infernale. Sembra un gigantesco formicaio. Dietro alla città fantasma si scorge una montagna di materiale inerte da cui è stato estratto il rame: non ho idea di come (o se) verrà smaltito. Tutt’intorno complicate installazioni per l’estrazione e la raffinazione del rame.

Valparaíso è una città marinara incantevole, unica con i suoi murales, i suoi cerros (colli scoscesi) che possono essere raffinati o malfamati, sempre caratteristici, popolati da un miscuglio di classi sociali ma in pericolo di gentrificazione, e poi i suoi scorci coloratissimi, il porto accogliente e sempre affollato, le scalinatelle infinite. E la vita culturale è vivace: centri per incontrarsi e socializzare, negozietti di arte e di artigiani, ristoranti di ottimo pesce, caffè all’aperto traboccanti di gente, giardini e piazze. Solo il quartiere dietro il porto non sembra invitante, cadente e poco raccomandabile di notte.

La casa di Neruda (una delle sue numerose dimore), la Sebastiana, concepita come la prora di un bastimento e volta verso il mare, si raggiunge arrampicandosi da Cerro Alegre e proseguendo in cresta per vari km, ma ripaga la camminata perché è un vero museo, inconfondibilmente intriso di un’atmosfera raccolta e denso di una vita vissuta rincorrendo la bellezza. Purtroppo non si possono fare foto all’interno.

Vicino a Valparaíso c’è Viña del mar, raggiungibile con un trenino urbano, che vanta un imperdibile museo quasi interamente dedicato all’Isola di Pasqua. Un grande Moai si trova di fronte all’ingresso. Nel 1888 il Cile si annesse l’isola che oggi vive soprattutto di turismo, ma dopo quasi tre secoli di storia coloniale travagliatissima gli isolani si ribellano al destino di diventare un resort di lusso per la borghesia cilena e danarosi stranieri, e minacciano di denunciare il trattato del 1888 e adire all’indipendenza[12]. Bello anche il piccolo museo archeologico di Los Andes, pieno di informazioni su culture e popoli minori, tralasciati da altri musei di maggiori proporzioni. Da Los Andes tento di raggiungere la Cordigliera, ma l’autista dell’autobus, visto che sono l’unica passeggera, mi pianta in asso a metà strada, in un paesetto abbastanza insignificante, Rio Blanco, dove i cani non sono gentili come a Taltal e le montagne verso Mendoza lontane.

[1] Disegni antropomorfi, di animali o geometrici tracciati sul terreno sia in rilievo, con pietre e ciottoli, o in negativo, rimuovendo la terra. Sono numerosi in Atacama, specialmente vicino ad Arica.

[2] http://www.esascosas.com/el-gigante-de-tarapaca-atacama/

[3] https://www.biobiochile.cl/noticias/nacional/region-de-tarapaca/2019/03/04/condenan-a-turistas-que-danaron-irreparablemente-el-monumento-arqueologico-gigante-de-tarapaca.shtml

[4] http://www.metallirari.com/piu-grandi-riserve-litio-mondo/

[5] Nel salar di Uyuni in Bolivia, anche più esteso di quello di Atacama e anch’esso immensa riserva di litio, le brame delle multinazionali sembra siano state per ora tenute a bada, chissà per quanto?

[6] https://www.reuters.com/article/us-chile-lithium-insight/a-water-fight-in-chiles-atacama-raises-questions-over-lithium-mining-idUSKCN1MS1L8?feedType=RSS&feedName=topNews

[7] https://es.mongabay.com/2018/10/explotacion-de-litio-en-chile-estado-renueva-contrato-a-empresa-infractora-ambiental/

[8] Sono chiamati in spagnolo lobos marinos, lupi marini.

[9] “Making the dead beautiful: mummies as art”, https://archive.archaeology.org/online/features/chinchorro/

[10] “Las momias mas antiguas del mundo no se derriten en Chile”, http://www.mnhn.gob.cl/613/w3-article-72599.html?_noredirect=1

[11] https://aquevedo.wordpress.com/2009/05/09/los-duenos-de-chile-somos-nosotros-el-poder-de-los-grupos-economicos/

[12] https://criterio.hn/2017/10/05/isla-pascua-chile-quiere-independizarse/

(*) articolo tratto dahttp://croceorsa.blogspot.com/

La prima puntata –  Cile, serpente del Pacifico – è stata pubblicata in “bottega” il 10 aprile

 

Redazione
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