Il Sistema Sanitario Nazionale è molto malato

articoli di Antonio Bove (ripreso da dinamopress) e Nicoletta Dentico (ripreso da comune-info)

In fin di vita: appunti dal capezzale del Sistema Sanitario Nazionale – Antonio Bove

 

Dopo la pandemia la speranza di un possibile cambiamento rispetto alle drammatiche condizioni del sistema sanitario si è arenata: nel silenzio dell’opposizione sociale la classe dominante si organizza e il progetto di autonomia differenziata firmato Calderoli sarà l’unica risposta concreta al dramma del Servizio Sanitario Nazionale italiano: la sua definitiva cancellazione.

 

Durante il primo lockdown la speranza in un possibile cambiamento del sistema dissestato in cui gli operatori si trovavano a lavorare era l’unico antidoto all’angoscia dei turni di Pronto Soccorso. Ripensando, però, alle condizioni storiche che hanno prodotto lo sfascio del nostro sistema sanitario, alle enormi responsabilità della stessa categoria medica e al sostanziale disinteresse del resto della popolazione per i temi della salute, è chiaro che quella fosse solo una forma disperata di autodifesa, il miraggio di una luce in fondo alla galleria. Terminata per decreto l’emergenza, infatti, la salute pubblica è tornata a essere l’ultimo problema dell’agenda politica. E non parliamo soltanto dell’agenda dei politici di professione, perché sarebbe troppo semplice quando, invece, è arrivato il momento di parlare di tutti noi.

La politica, del resto, una risposta al problema la sta elaborando, perché nel silenzio dell’opposizione sociale la classe dominante si organizza e il progetto di autonomia differenziata firmato Calderoli sarà l’unica risposta concreta al dramma del Servizio sanitario nazionale italiano: la sua definitiva cancellazione. Per il resto in Italia non si è avuta alcuna mobilitazione generale sulla «questione sanità» mentre nel resto d’Europa qualcosa si muove.

Una serie di scioperi ha attraversato il continente dallo scorso dicembre, quando i medici francesi sono scesi in piazza contro la proposta di riforma sanitaria seguiti a gennaio da infermieri e medici addetti alle cure primarie nel Regno Unito. A febbraio 250.000 operatori sanitari spagnoli hanno sfilato a Madrid contro i tagli alla sanità e in Portogallo e Germania a marzo sono scattati gli scioperi dei medici contro i tagli e per il rinnovo del contratto. Queste mobilitazioni, senza precedenti negli ultimi anni, sono il segnale di un rinnovato protagonismo del settore contro la chiara direzione delle politiche sanitarie europee in risposta alla crisi: tagli, deterioramento delle condizioni lavorative e la volontà di liberarsi della spesa sanitaria, ormai preponderante nei bilanci pubblici, per devolvere ai gruppi privati quello che ormai è un «problema» per governi centrali ed enti locali.

Una riforma sostanziale in grado di investire non soltanto gli aspetti organizzativi e quelli del lavoro ma lo stesso ruolo della medicina nella società necessiterebbe, infatti, di investimenti che le classi dirigenti europee non vogliono accollarsi perché significherebbe uno travaso di miliardi in un progetto a lungo termine che non produrrebbe profitti immediati e nemmeno facile consenso elettorale, per una classe politica che della borghesia industriale e finanziaria è, oggi più che mai, «comitato d’affari». Intanto nel summit organizzato da Oms, Ue e Ministero della Salute rumeno a marzo è stata firmata la Carta di Bucarest, un documento che risponde alla crisi con 11 punti nei quali si punta a intervenire, con una dichiarazione d’intenti ma senza progetti concreti, sulle condizioni lavorative e l’aumento di investimenti pubblici.

In Italia la risposta alla crisi del sistema, messa a nudo dalla tragedia del Covid, si è concretizzata nella fuga degli operatori verso il privato, emigrazione all’estero e rifiuto di intraprendere le attività più rischiose come quelle dell’area di urgenza-emergenza. Sono molti i concorsi per contratti a tempo indeterminato andati deserti o quasi, laddove un tempo ci sarebbe stata ressa per entrare a vita dentro la «Grande Madre» del Servizio sanitario pubblico.

Resta la domanda, a fronte delle mobilitazioni europee di settore, sul perché del silenzio italiano su un tema così rilevante. Una risposta esaustiva ha bisogno di tenere presente la condizione attuale in relazione ai processi storici che l’hanno prodotta, senza comprendere i quali si finisce con l’abbaiare alla luna.

Guardando all’Europa che si muove è evidente che quelle mobilitazioni, così come le lotte in Francia contro la riforma del sistema pensionistico, siano eventi dentro cui è forte l’impronta dei sindacati che, a differenza di quanto accade dalle nostre parti, gli scioperi li fanno invece che minacciarli di continuo. In Italia ormai l’idea dello sciopero generale è ridotta allo spauracchio di Cavallo Pazzo che a cavalcioni della ringhiera di Sanremo urla: «Mi butto! Guarda che mi butto! Oh, mi butto davvero ho detto!», aspettando che Pippo Baudo vada a recuperarlo.

Se si considera, invece, fuori dalle lotte di settore, la società nel suo complesso, va detto che nel nostro Paese mancano mobilitazioni concrete e di massa perché non esiste più una cultura della salute e delle politiche sociali a sua tutela, gli italiani considerano il servizio sanitario pubblico qualcosa di «naturale» e hanno interiorizzato il discorso del potere, ritenendo la questione salute un problema esclusivamente tecnico.

Esperienze di lavoro collettivo e mobilitazioni locali, che pure ci sono, rappresentano sicuramente momenti importanti ma la loro frammentazione e l’incapacità a produrre proposte politiche articolate è un elemento di debolezza strutturale determinante. Per quanto riguarda le diverse categorie di operatori del settore, invece, che abbiano dato prova, durante la crisi, di abnegazione e professionalità è indubbio ed è solo per questo che, per quanto disastrato, il Ssn non è ancora colato a picco. A proposito di tale «senso di responsabilità», però, andrebbe fatta una riflessione sull’altra faccia di questa dedizione al lavoro che è l’incapacità di protagonismo politico di chi ha «tirato la carretta» durante la crisi senza mai mobilitarsi a fronte della mancanza di percorsi di sicurezza nelle strutture ospedaliere, della carenza di presidi, della sostanziale arte di arrangiarsi delle direzioni sanitarie di gran parte delle strutture, tristemente rappresentata dalle buste della spazzatura legate ai piedi degli operatori privi di calzari per lavorare nei Pronto Soccorso.

La passività di fronte a questa situazione tragica è senso di responsabilità o il grado zero della capacità di iniziativa politica? La remissività di fronte al potere monocratico dei Direttori Generali rientra nella virtuosa abnegazione o è, invece, uno specchio drammatico dell’anemia politica del mondo degli operatori e delle loro rappresentanze sindacali?

Sarebbe onesto, a fronte di tale situazione, parlare chiaramente, a parte la meritoria resistenza in trincea, della resa collettiva di una categoria, in particolare quella medica, che non ha mostrato uno spessore culturale e politico adeguato a prendere in mano il proprio destino (inevitabilmente legato a quello collettivo) nemmeno di fronte a una simile catastrofe. In questo senso aveva ragione chi parlava di «apocalisse» perché la crisi pandemica è stata soprattutto una «rivelazione», in grado di mostrarci davvero chi siamo e dove stiamo andando.

Il silenzio italiano, del mondo del lavoro e della società del suo complesso, quindi, è frutto di un disastro culturale e politico prodotto da quarant’anni e oltre di arretramento delle lotte di classe e della disgregazione del tessuto politico che fino alla fine degli anni ’70 aveva tenuto testa alla ristrutturazione capitalistica. Se ci si vuole interrogare davvero su quello che sta accadendo nel nostro Paese, quindi, bisogna riflettere su quanto avvenuto in questi ultimi quarant’anni e sullo stato di agonia delle organizzazioni di classe e dei movimenti sociali, di cui il silenzio sui temi della sanità è uno degli aspetti.

All’indomani della riforma 833 del ’78 che istituiva il Servizio sanitario nazionale (Ssn) dopo un decennio di lotte di classe di intensità inaudita, si è avviato un immediato processo di controriforma, all’interno di un piano complessivo di ridimensionamento delle conquiste operaie del «decennio rosso», operato dalle classi egemoni italiane all’indomani della sconfitta di Mirafiori del 1980. La riforma del ’78 rappresentava un indubbio punto di svolta per le politiche di salute nel nostro Paese e sarebbe dovuta diventare la pietra angolare di un processo di evoluzione del servizio sanitario, in grado di rispondere in maniera dinamica alle esigenze di una popolazione in transizione demografica ed epidemiologica. Quel punto di svolta rappresentava una faglia che andava chiusa perché avrebbe significato investimenti continui, da stornare da altre voci di bilancio più redditizie e così a partire dal 1980 le classi dirigenti italiane si sono adoperate con ogni mezzo per azzerarne il portato. È evidente, quindi, che se la riforma 833 nasceva dalla spinta delle lotte di classe, l’attuale disgregazione delle organizzazioni di base e dei movimenti sociali è il vero responsabile del grande sonno in cui versa il dibattito sulla salute (e non solo) in Italia.

In questo senso solo un rinnovato protagonismo di queste organizzazioni può incidere in maniera significativa su quella che sembra un’agonia irreversibile e confidare, invece, in una iniziativa riformatrice guidata dagli «addetti ai lavori» significa confondere il ruolo dei tecnici con quello della direzione politica dei processi.

Che questo sia il nodo, del resto, lo dice la storia stessa della medicina, durante la quale i momenti più alti sono stati quelli in cui il protagonismo della «soggettività del servo» ha prodotto una filosofia del mondo e una dimensione storica all’interno delle quali le scienze, come prodotti storico-sociali, si avvicinavano alle reali esigenze umane. Pensiamo alla Rivoluzione francese e a tutte le esperienze storiche in cui l’emergere di questa soggettività ha spinto la medicina ad abbandonare il suo carattere esclusivamente «assistenziale» e perdere il suo aspetto di razionalizzazione e controllo per diventare scienza al servizio degli esseri umani.

Dalla Russia dei Soviet al Viet Nam della «medicina al servizio del popolo», dall’America Latina dell’esperienza di Allende fino alla rottura rivoluzionaria degli anni Settanta italiani, dentro cui matura un’esperienza della medicina sociale di grande rilievo. Questi esempi, nobili e purtroppo lontani, testimoniano che solo quando «i servi», sani o malati, si organizzano ponendosi di fronte alla scienza con l’esigenza che ne siano controllate la finalità possono costringerla a mettersi al servizio di una collettività non più inerte e passiva.

Il rapporto della scienza con i problemi concreti dell’uomo, infatti, è sempre relativo al grado di pressione che gli oppressi esercitano e, nello specifico, la vicinanza o la distanza della medicina da essi coincide con il ruolo che occupano dentro l’organizzazione sociale, soggetti protagonisti oppure oggetti subordinati.

La direzione della medicina, l’organizzazione sanitaria e i suoi aspetti tecnici sono un riflesso dell’ordinamento sociale e la separazione della scienza dall’umano che andrà aumentando sempre più dalla fine del XIX secolo per diventare smisurata ai giorni nostri coincide perfettamente con ciò che diventa l’umanità nella società del dominio capitalistico: un insieme di soggetti espropriati del corpo in funzione della produttività.

Ecco perché è fondamentale che un nuovo dibattito non solo sull’organizzazione sanitaria ma sulla medicina e il suo ruolo cominci non tra gli scranni parlamentari e nemmeno all’interno delle società scientifiche ma dentro il corpo vivo della società e all’interno delle organizzazioni di base, anche per evitare che una serie di istanze pur giuste e comprensibili, come quelle espresse da una parte della società durante la crisi pandemica, siano abbandonate all’influsso mefitico degli algoritmi e al veleno dei social network.

A tale proposito l’insieme dei movimenti sociali deve cominciare con urgenza ad analizzare la complessità di questa fase storica ponendo come prioritaria la questione culturale e la necessità di una nuova alfabetizzazione dei movimenti sociali e delle organizzazioni di base sui temi della salute, della medicina e della sanità, per evitare che le mobilitazioni si riducano a un insieme di proclami generici senza sostanza politica che fanno il gioco del nemico.

Ripartire da questo è un punto necessario, per cominciare almeno a chiarire alcuni nodi teorici e pratici essenziali, in un rinnovato rapporto culturale e politico tra tecnici e organizzazioni che provi a rianimare il paziente, prima che sia troppo tardi.

da qui

 

 

Il diritto alla salute è malato – Nicoletta Dentico

 

Il diritto alla salute non gode affatto di buona salute. E neppure l’Oms, sfregiata dalla tentacolare influenza di interessi privati. Ma guai a ritenerla frettolosamente inutile o spacciata

 

La comunità di salute pubblica internazionale è tutta a Ginevra questa settimana per la 76ma assemblea Mondiale della Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms). Un evento fortemente simbolico quest’anno. Settantacinque anni fa diventava operativa l’Oms, la prima agenzia tecnica delle Nazioni Unite, e il diritto alla salute era il primo a farsi diritto internazionale vincolante.

Un fatto che pochi conoscono, ma che interpreta un’inequivocabile visione, negli anni del dopoguerra. La classe politica sopravvissuta alla catastrofe di due conflitti mondiali, alla follia di due genocidi (contro armeni ed ebrei), alla ferocia di due ordigni nucleari sganciati in pochi giorni su Hiroshima e Nagasaki, non esitarono a incarnare un’aspirazione decisamente utopica, per rinascere dalle braci della distruzione.

Cooperare era meglio che farsi la guerra. Realizzare il più alto livello di salute possibile per tutta l’umanità era la strategia vincente per rendere il mondo un luogo più sicuro.

La Costituzione dell’sms, il cui preambolo si staglia come una delle più alte elaborazioni concettuali di politica internazionale, coniuga salute e pace come condizioni per la sostenibilità e la dignità di ogni persona sul pianeta. Che cosa resta oggi di quella visione?

È in chiaroscuro la lunga storia dell’Oms, certo, ma non possiamo liquidare le molti luci. In sette decenni l’aspettativa di vita nel mondo è aumentata da 46 a 73 anni, con i progressi più significativi nel Sud globale. La campagna contro il vaiolo, iniziata nel 1959, ha portato alla sua eradicazione nel 1980: il vaiolo resta la sola patologia della storia estirpata finora.

Siamo vicini a eliminare la poliomielite e il verme della Guinea. In 42 paesi è scomparsa la malaria e in 47 è stata debellata almeno una malattia infettiva. Prima che Covid sconvolgesse il pianeta, tubercolosi e HIV erano sotto controllo. La mortalità materna al parto è crollata di un terzo negli ultimi venti anni, del 50% quella dei bambini – anche se un recente rapporto dell’Oms lancia l’allarme di un pericoloso stallo sulla salute materno-infantile dal 2015, a confermare la fragilità di ogni successo anche nell’era della sostenibilità.

L’Oms ha saputo esprimere il meglio di sé quando, avvalendosi del suo potere normativo, ha agguantato la piaga del tabagismo e smascherato la lobby del fumo, che negava la sua connessione con il cancro.

La adozione nel 2005 della convenzione sul controllo del tabacco segna una pagina memorabile dell’Oms, e rimanda alla storica riluttanza dei governi di usare questa potenzialità enorme in altri ambiti.

Nel 1978 la prima conferenza internazionale sulla salute pubblica voluta dal direttore dell’Oms Halfdan Mahler ad Alma Ata si incuneava nelle pieghe della guerra fredda per proiettare una politica ispirata ai diritti sociali fondamentali e alla richiesta di un nuovo ordine economico internazionale, con lo storico orizzonte della salute per tutti entro l’anno 2000.

Questa pietra miliare della salute pubblica ha ridisegnato la cultura sanitaria nel mondo. Mahler ebbe a definire la Dichiarazione di Alma Ata «un momento sacro» e «un sublime consenso» della comunità internazionale. La sua attualità è intatta.

Ma nel 1981, a pochi anni da Alma Ata, negli Stati Uniti una nuova patologia del tutto sconosciuta colpiva la comunità gay, salvo poi diffondersi a macchia d’olio su persone di ogni genere ed età. Ci vollero due anni per trovarne l’origine nel virus dell’HIV.

 

Intanto un altro virus si faceva strada, ben più difficile da fronteggiare: l’ideologia dell’economia assolutizzata come mezzo e non come fine ha imposto l’universalizzazione del modello di sviluppo americano, combinato con forme selvagge di deregolamentazione e finanziarizzazione, in tutto il mondo.

Il vento del riduzionismo economico ha trasfigurato le politiche sanitarie, ampliando e stratificando le disuguaglianze sanitarie ovunque.

Se è vero che dal 2000 è aumentato l’accesso ai servizi sanitari essenziali, è altrettanto evidente che la adozione di programmi verticali su singole malattie, basati sull’approccio biomedico di matrice occidentale – l’opposto della visione di Mahler – ha neutralizzato la spinta di molti paesi – anche nel Sud del mondo – verso politiche correlate ai determinanti della salute.

L’agenda sanitaria neoliberale ha sospinto con forza una declinazione umanitario-medicalizzata della salute, con il preciso intento di aprire le porte ai privati. Una strategia che ha progettato gli interventi e deformato l’impianto dei sistemi sanitari dei paesi in via di sviluppo, asserviti alle priorità dei donatori.

Oggi, il 50% della popolazione mondiale non ha accesso a uno o più servizi sanitari di base, né al personale sanitario. Dal 2000, due miliardi di persone sono costrette a pagare di tasca propria, con sacrifici inenarrabili, i servizi sanitari essenziali: un terzo in più in 20 anni (Oms, 2023).

Aumentano intanto i bisogni della popolazione mondiale, sotto gli effetti intossicanti del modello di sviluppo imposto dalla globalizzazione sul suolo, l’aria, le acque, sul modo stesso di vivere delle persone. Cresce la popolazione che vive in uno stato di eccezione quasi permanente, discriminata e marginalizzata come se non fosse umana.

Cresce la massa di popoli in movimento alla ricerca di una via di salvezza o solo di una vita degna, costretta a scontrarsi con la ferocia di politiche sicuritarie che alterano lo stato di salute fisico e mentale di chi le subisce ma anche lo stato di salute civile e umana di chi le somministra.

Il diritto alla salute non gode affatto di buona salute. E neppure l’Oms, sfregiata nel suo mandato costituzionale dalla tentacolare influenza di interessi privati. Ma guai a ritenerla frettolosamente inutile, o spacciata.

L’Oms è la somma della volontà dei suoi stati, il mondo sarebbe ben peggiore senza. Così, tanto per cominciare da noi: che fa l’Italia per sostenere davvero questa organizzazione?

Articolo pubblicato su Il Manifesto

da qui

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