Il visitatore
di Jean Malaquais, ricordato da Pabuda
L’uomo sfociò sull’isola, si fermò. Delle zaffate d’aglio, di frittura, di barbabietola cotta lo investirono alle narici. Giava masticava. Sparpagliate davanti dietro intorno alla fontana che gorgogliava placidamente, le baracche, come bestie sfinite, parevano battere la fiacca. Qua e là si faceva sentire la densità di una parola, di una sillaba, e a quel punto era come se lo zoccolo avesse urtato il terreno. L’uomo emise una risata sorda, la risata rasserenata di un viaggiatore che, tornando da lontano, ritrova intatto l’ordine di casa. Niente era cambiato, non c’era stata né peste né colera, no quello no. Salì i gradini di una baracca, un istante di raccoglimento, poi socchiuse adagio la porta.
Karl il meccanico e Magnus il dottore davano fondo alla loro sbobba. Cotta e ricotta per successivi riscaldamenti, aveva la consistenza del mastice. Seduto di fronte all’ingresso, Karl scorse il visitatore per primo. Rimase con la forchetta per aria, un pezzo di carne smangiucchiato in punta. Hans!… Il diavolo se si aspettavano di vederlo, e vestito da sbalordire per di più – giacca di tweed e martingala, camicia a righe blu, cravatta rossa, pantaloni alla zuava, calzini scozzesi con pompon, feltro con piuma, scarpe gialle… continuavano a passarlo al vaglio, girati di qui, girati di là e Hans, occhi modestamente bassi, che assumeva pose da gradasso.
– Magnifique! – si entusiasmava Magnus che rimetteva i resti di spezzatino nella marmitta. – Très magnifique! E’ il tuo defunto zio canadese che ti ha agghindato in quel modo? Convoli a giuste nozze?
Hans, sguardo distolto, si lanciò in un racconto un po’ troppo rapido, un po’ troppo stretto per sembrare plausibile.
(da: Jean Malaquais, I giavanesi, DeriveApprodi 2009, pag. 196)