in Chiapas, intanto,
parlano del mondo, anche per noi, non fa male ascoltare quello che dicono.
Omaggio a Luis Villoro Toranzo e al maestro zapatista Galeano, dal Caracol di Oventic (Chiapas)
Si è svolto sabato 2 maggio nel Caracol di Oventic il tributo a Luis Villoro Toranzo e al maestro zapatista Galeano, atto che ha aperto le giornate del seminario “Il pensiero critico di fronte all’idra capitalista”.
Più di mille partecipanti insieme a tremila basi d’appoggio hanno riempito il Caracol per ascoltare i numerosi interventi. Aperto dall’inno messicano l’atto è cominciato con la lettura di uno scritto di Pablo González Casanova, letto dal comandante David. Sono intervenuti poi Adolfo Gilly, che ha ricordato il pensiero di Luis Villoro, Fernanda Navarro, la compagna di Don Luis e Juan Villoro,suo figlio.
Ha poi parlato il Subcomandante Insurgente Galeano.
Prima ha letto l’intervento che aveva preparato il Subcomandante Marcos per il seminario dello scorso 2 maggio 2014 al Cideci e che finora non era stato reso pubblico e che racconta come Luis Villoro Toranzo fosse uno zapatista, “Luis lo zapatista”.
Poi ha ricordato con “: Apuntes de una vida” lo zapatista ucciso alla Realidad nell’attacco paramilitare del maggio 2014, attraverso la lettura di alcune parti del suo diario.
Dopo questi due interventi hanno preso la parola la compañera escucha zapatista Selena e il compañero Manolo di Nueva Victoria, villaggio di Galeano che ha portato il contributo de La Realidad, ricordando l’esempio di Galeano e denunciando le responsabilità dei paramilitari e dei vari livelli del governo nell’assasinio del maestro il 2 maggio nell’attacco a La Realidad. I figli di Galeano la compañera Lisbet e il compañero Mariano hanno ricordato la vita, l’esempio, l’insegnamento del loro padre.
Il Subcomandante Insurgente Moisés ha chiuso gli interventi, prima dell’inno zapatista, parlando dell’importanza di organizzarsi con dignità per lottare.
da qui e da qui (completo, in spagnolo)
https://www.youtube.com/watch?v=uN-JrW1g6uU
qui un’intervista “filosofica” con Luis Villoro (in spagnolo)
Parole del Subcomandante Moisés
2 maggio 2015
Compagne ecompagni zapatisti delle comunità basi di appoggio dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale.
Compagne, compañeroas e compagni della Sexta nazionale e internazionale.
Sorelle e fratelli del Messico e del mondo.
Salutiamo la famiglia del compagno Luis Villoro.
Benvenuti in terra ribelle che lotta e resiste, in terra Zapatista.
È un onore avervi con noi e con le Basi di Appoggio Zapatiste delle 5 zone.
Benvenuta la famiglia del compagno Maestro Zapatista Galeano.
Vi abbracciamo, compagne e compagni della famiglia del compagno Galeano, come abbracciamo la famiglia del compagno Luis Villoro.
Dobbiamo dare e saper dare l’onore che meritano per la missione che i nostri compagni Galeano e Luis Villoro hanno compiuto.
Compagni, compagne e compañeroas, fratelli e sorelle, oggi siamo qui non per ricordare, ma per la mancanza fisica dei compagni Galeano e Luis Villoro.
Siamo qui per ricordare e parlare della lotta che hanno portato avanti nelle loro vite, del loro lavoro, la loro resistenza.
Non siamo qui a ricordare la morte, ma quello che hanno lasciato da vivi, e dobbiamo far sì che continuino ad essere vivi nella lotta e nel lavoro.
Siamo noi che dobbiamo tenere vivi per sempre coloro che hanno dato la vita per un mondo nuovo, hanno costruito per il popolo.
Non siamo qui per erigere una statua.
Una statua non trasmette vita, non dà vita un museo, non parlano.
Siamo noi che parliamo e che dobbiamo far sì che vivano e per generazioni ci saranno statue e musei nei nostri cuori e non semplicemente come un simbolo.
Ci ha fatto molto piacere che ci hanno parlato più della vita di lotta del compagno zapatista Don Luis Villoro, che in altre parti è conosciuto come teorico ma qui lo conosciamo nella pratica, in altre parti lo conoscono come filosofo ma qui lo conosciamo come zapatista.
Ringraziamo chi ha lottato e lavorato al suo fianco perché ci hanno parlato di lui, dei suoi altri pezzi di vita.
Così noi zapatisti vi parliamo di un altro pezzo.
Per esempio, grazie al compagno Luis Villoro, e ad altre persone come lui, ci sono cliniche e scuole per l’educazione Zapatista.
È il frutto del suo lavoro.
Ma non bastava, c’era bisogno anche di gente che costruiva, come il compa Galeano e poi altra gente che promuova e che si realizzi il sogno poi di organizzare gli alunni e le alunne.
E questo ha fatto il compagno Galeano, ha costruito e lavorato ed ha cominciato a farlo funzionare.
Così siamo organizzati noi popoli Zapatisti.
Grazie all’aiuto del compa Luis Villoro e di altre ed altri come lui il compa Galeano è diventato maestro.
Ci rispettava e noi lo rispettavamo, ci ha trattato da uguali, ha creduto in noi e noi abbiamo creduto in lui, abbiamo lavorato per lo stesso scopo, senza incontrarci fisicamente, cioè si può costruire molto senza incontrarsi fisicamente.
Così è stato, per esempio, per la Sexta che ha collaborato a livello mondiale per la ricostruzione della scuola e della clinica alla Realidad zapatista, sopra il sangue del nostro compagno Galeano.
I compas Luis Villoro e Galeano non si conoscevano, ma insieme hanno lavorato per costruire una stessa libertà.
Abbiamo ascoltato anche parti della vita di lotta del compa Galeano.
Per prima cosa decise di lottare, e poi chiedere appoggio, quindi organizzare la costruzione, e poi organizzare i promotori, per ultimo occuparsi delle alunne e degli alunni.
Questo richiede l’organizzazione.
Perché il compa Galeano era ed è miliziano, capo comando di milizia e poi sergente. Rappresentante Regionale del gruppo giovanile, membro dei MAREZ, Municipio Autonomo Ribelle Zapatista, maestro della scuola Zapatista ed era stato eletto per essere membro della Giunta di Buon Governo.
Questo significa ORGANIZZAZIONE.
Diventò maestro ed ha tenuto lezioni per gente di molte parti del mondo che hanno partecipato al corso “La libertà secondo le zapatiste e gli zapatisti”.
Perché c si deve organizzare per potersi liberare dal sistema capitalista.
Perché il popolo si libera da solo, nessuno gli regala la libertà, nessun leader, uomo o donna che sia, gli darà la libertà.
Perché i capitalisti non rinunciano, non si pentono e non smettono di sfruttare il popolo.
Perché non può umanizzare il sistema capitalista.
Per farla finita con questo sistema, bisogna distruggerlo, per questo bisogna organizzarsi.
Il compa Luis Villoro vide gli zapatisti lo stavano facendo, non dubitò di accompagnarli, di lottare, di lavorare ed appoggiare la lotta e l’organizzazione che rappresentò nella sua vita il compa Galeano.
Magari ci fossero altri Luis e Luisa e Luisoas Villoros, Villoras e Villoroas.
Non si finisce mai di organizzarsi, perché c’è bisogno di organizzazione per la costruzione e per vigilare su quanto si è già costruito.
Affinché non ritorni lo sfruttamento sulle persone, come ora si sfruttano uomini e donne e coloro che non sono né uomini né donne.
Affinché il popolo si autogerni.
Questo vuole l’organizzazione. L’organizzazione è fatta da comunità, donne, uomini ed otroas.
E dopo aver ascoltato, vogliamo dirvi questo:
C’è chi pensa che siamo un’organizzazione di indigeni o di messicane e messicani, invece no.
Siamo un’organizzazione di zapatisti, indigeni e non indigeni, proprio come vediamo qui, in questo omaggio ai 2 compagni zapatisti.
Siamo in Messico perché qui siamo nati, è la nostra geografia.
Come chi lotta per la libertà del popolo Curdo, gli è toccato perchè sono nati lì.
Ad ognuno tocca dove si trova. Come fa la Sexta in Messico e nel mondo che lotta dove gli tocca.
Per questo diciamo la geografia di ognuno, l’angolo del mondo dove ognuno si ribella e lotta per la sua libertà, per la libertà.
Qui è necessario avere ben chiaro cosa significa essere zapatisti.,
Essere zapatista vuol dire essere deciso, decisa, decisoa, ben forte.
Perché non c’è da supporre nulla, ma c’è da lavorare, organizzare e lottare in silenzio fino alle ultime conseguenze, cioè, teoria e pratica.
Indossare un passamontagna non significa essere zapatista, ma è organizzarsi e distruggere il sistema capitalista.
Dire a parole “sono zapatista” non significa essere zapatista, ma è lottare fino alla morte.
Parlare di zapatismo non significa essere zapatista, ma è lavorare collettivamente con i popoli organizzati.
Non significa niente essere zapatista quando va di moda esserlo, e non esserci quando si soffre per le aggressioni del malgoverno.
Indossare divise, mascherarsi, non significa essere zapatisti, per poi arrendersi al malgoverno, perché lo zapatista non si arrende.
Non è essere zapatista dire io sono comandante dell’EZLN e dialogare col malgoverno per progetti o soldi, perché lo zapatista non si vende.
Non è essere zapatista mettersi al servizio di quelli che ricercano solo cariche e soldi e lottano solo ogni 6 anni.
Lo zapatista lotta per un cambiamento totale e lotta tutta la vita e non tentenna. Cioè non cambia il suo pensiero secondo la moda o secondo la convenienza.
Non è essere zapatista stare con il piede in due scarpe, con i partiti e zapatista. Perché i partiti voglio solo cambiare il colore di chi comanda. Invece lo zapatista vuole cambiare tutto il sistema, non una parte, ma tutto. E che il popolo comandi e nessun altro lo comandi.
Non è essere zapatista non avere mai paura. A volte si ha paura, ma si controlla e si continua a lottare.
Non è essere zapatista avere molta rabbia e non organizzarsi, ma ci si deve organizzare con molta dignità.
Chi dice quando sei zapatista? I popoli.
Chi dice come è essere zapatista? I popoli.
Chi dice fino a quando si è zapatista?
Non c’è chi dice “basta hai finito”, ma devi andare avanti fino alla morte compiendo il sacro dovere di liberare il popolo sfruttato, e anche da morto si continua a lottare.
Per questo rendiamo questo omaggio, per ricordarci e ricordarvi che, anche se la morte arriva a cercare di farci dimenticare, continuiamo ad essere vivi nel popolo, nella lotta, per la lotta e per la lotta dei popoli e così la vita prosegue e la morte perde.
Grazie.
Subcomandante Insurgente Moisés Messico, Maggio 2015
Traduzione “Maribel” – Bergamo
La tormenta e il pensiero critico – John Holloway
Pensiero critico: pensiero che cerca la speranza in un mondo dove sembra che non esista più, che apre quel che è chiuso, che scuote quel che è fermo. Il pensiero critico è il tentativo di comprendere la tormenta e qualcosa in più. È capire che nel centro della tormenta c’è qualcosa che ci dà speranza.
La tormenta arriva, o meglio è già qui. È già arrivata ed è molto probabile che si vada intensificando. Abbiamo un nome: Ayotzinapa. Ayotzinapa come orrore, e anche come simbolo di tanti altri orrori. Ayotzinapa come espressione concentrata della quarta guerra mondiale.
Da dove viene la tormenta? Non dai politici, sono solo esecutori della tormenta, niente di più. Non dall’imperialismo, non è un prodotto degli stati, nemmeno di quelli più potenti. La tormenta nasce dalla forma nella quale la società è organizzata. È espressione della disperazione, della fragilità, della debolezza di una forma di organizzazione sociale che ha già superato la sua data di scadenza, è espressione della crisi del capitale.
Il capitale è di per sé un’aggressione costante. Ci dice tutti i giorni: “Devi dar forma a quello che fai in un certo modo, la sola attività valida in questa società è quella che contribuisce all’espansione del profitto del capitale”.
L’aggressione che è il capitale ha una dinamica. Per sopravvivere deve subordinare la nostra attività ogni giorno più intensamente alla logica del profitto: “Oggi devi lavorare più intensamente di ieri, devi piegarti più che ieri”.
Già da questo possiamo vedere la sua debolezza. Il capitale dipende da noi, dal fatto che vogliamo e possiamo accettare quello che ci impone. Se diciamo: “Scusa, ma oggi vado a coltivare il mio campo”, oppure “Oggi vado a giocare con i miei figli”, o ancora “Oggi mi dedico a qualcosa che ha più senso per me”, o semplicemente “No, non ci piegheremo”, allora il capitale non potrà ricavare il profitto che richiede, il tasso di profitto cadrà e il capitale entrerà in crisi. In altre parole, noi siamo la crisi del capitale, la nostra mancanza di subordinazione, la nostra dignità, la nostra umanità. Noi siamo la crisi del capitale e siamo orgogliosi di esserlo, siamo orgogliosi di essere la crisi del sistema che ci sta uccidendo.
In questa situazione il capitale si dispera. Cerca ogni metodo possibile per imporre la subordinazione che richiede: autoritarismo, violenza, riforma del lavoro, riforma della scuola. Introduce anche un gioco, una fiction: se non possiamo ricavare il profitto che pretendiamo, facciamo finta che esso esista, creiamo una rappresentazione monetaria per un valore che non si è prodotto, espandiamo il debito per sopravvivere e, nello stesso tempo, cerchiamo di usarlo per imporre la disciplina che serve. Però questa fictionaumenta l’instabilità del capitale e non riesce a imporre la disciplina necessaria. I pericoli per il capitale che ha generato questa espansione fittizia si sono visti chiaramente con il collasso del 2008, e con esso si è fatto più evidente che la sola via di uscita, per il capitale, è attraverso l’autoritarismo: tutto il negoziato sul debito greco ci dice che non esiste la possibilità di un capitalismo più morbido, il solo cammino è quello dell’austerità, della violenza. La tormenta è qui, la tormenta che arriva.
Noi siamo la crisi del capitale, noi che diciamo No, noi che diciamo basta col capitalismo! Noi che diciamo che è tempo di smettere di creare il capitale, che bisogna creare un altro modo di vivere.
Il capitale dipende da noi, perché se noi non creiamo direttamente o indirettamente il profitto (plusvalore), il capitale non può esistere. Noi creiamo il capitale, e se il capitale sta in crisi è perché non stiamo creando il profitto necessario per la sua esistenza, per questo ci stanno attaccando con tanta violenza.
In questa situazione, abbiamo realmente due opzioni di lotta. Possiamo dire “Sì, d’accordo, continuiamo a produrre il capitale, a promuovere la sua accumulazione, ma vogliamo migliori condizioni di vita”. Questa è l’opzione dei governi e dei partiti di sinistra: di Syriza, di Podemos, dei governi del Venezuela e della Bolivia. Il problema è che, quantunque riescano a migliorare le condizioni di vita per alcuni aspetti, a causa della stessa disperazione del capitale, c’è molto poca possibilità di avere un capitalismo più umano.
L’altra possibilità è dire “Ciao, capitale, è ora che tu te ne vada, noi andiamo a creare un altro modo di vivere, altre maniere di metterci in relazione, tra noi ma anche con le forme non umane della vita, maniere di vivere che non sono determinate dal denaro e dalla ricerca del profitto ma dalle nostre stesse decisioni collettive”.
In questo seminario siamo nell’autentico centro di questa seconda opzione. Questo è il punto di incontro tra gli zapatisti, i kurdi e altre migliaia di movimenti, tutti rifiutiamo il capitalismo cercando di costruire qualcosa di differente. Tutte e tutti stiamo dicendo “Vattene, capitale, il tuo tempo è finito, vai via, stiamo già costruendo un’altra cosa”. Lo esprimiamo in molti modi differenti: stiamo creando crepe nel muro del capitale e stiamo cercando di promuovere la loro confluenza, stiamo costruendo il comune, stiamo mettendo in comune, siamo il movimento del fare contro il lavoro, siamo il movimento del valore d’uso contro il valore, siamo il movimento della dignità contro un mondo basato sull’umiliazione. Stiamo creando qui e adesso un mondo di molti mondi.
Abbiamo la forza sufficiente? Abbiamo la forza sufficiente per dire che non ci interessa l’investimento capitalista, non ci interessa il lavoro capitalista? Abbiamo la forza per rifiutare completamente la nostra attuale dipendenza dal capitale per sopravvivere? Abbiamo la forza per dire un “adios” definitivo al capitale?
È possibile che non ce l’abbiamo, ancora. Molti di noi qui abbiamo stipendi o sovvenzioni che provengono dall’accumulazione del capitale o, se no, torneremo la settimana prossima a cercare un impiego capitalista. Il nostro rifiuto del capitale è un rifiuto schizofrenico: vogliamo dare un taglio netto alla necessità del capitale e non riusciamo a farlo, oppure ci costa troppa fatica. Non esiste purezza in questa lotta. La lotta per cessare di creare il capitale è anche una lotta contro la dipendenza dal capitale. È una lotta, cioè, per emancipare le nostre capacità creative, la nostra forza per produrre, le nostre forze produttive.
Siamo a questo punto, e per questo siamo venuti qui. Si tratta di organizzarci, chiaro, ma non di creare un’organizzazione. Si tratta di organizzarci in molteplici maniere per vivere da ora i mondi che vogliamo creare.
Come possiamo avanzare, come possiamo camminare?
Domandando, naturalmente, domandando e abbracciandoci e organizzandoci.
Fonte: la Jornada
Traduzione per Comune-info: marco calabria
Noi zapatisti e il processo elettorale – Subcomandante Moisés
Ai compagni della Sexta:
A quelli che stanno leggendo perché gli interessa sebbene non siano della Sexta:
In questi giorni, come ogni volta che avviene questa cosa che chiamano “processo elettorale”, sentiamo e vediamo che se ne escono col fatto che l’EZLN chiama all’astensione, cioè che l’EZLN dice che non si deve votare. Dicono questa e altre stupidaggini, poiché hanno la testa grande per niente, visto che non studiano la storia e neppure ci provano. E questo seppure scrivano libri di storia e biografie e prendano i soldi per tali libri. Ovvero, guadagnano per dir bugie. Come i politici.
Chiaro che voi sapete che a noi non interessano le cose che fanno quelli di sopra per cercare di convincere la gente di sotto del fatto che la tengano in considerazione.
Come zapatisti che siamo non chiamiamo a non votare e nemmeno a votare. Come zapatisti che siamo ciò che facciamo, ogni volta che è possibile, è dire alla gente che si organizzi per resistere, per lottare, per ottenere ciò di cui si ha bisogno.
Noi, come molti altri tra i popoli originari di queste terre, ormai conosciamo il modo di fare dei partiti politici, e si tratta di una brutta storia di brutta gente.
Una storia che per noi come zapatisti che siamo ormai storia passata.
Credo che fu il defunto Tata Juan Chávez Alonso a dire che i partiti politici dividono i popoli, li mettono gli uni contro gli altri, li fanno litigare perfino tra parenti.
E di quando in quando, lo vediamo accadere in queste terre.
Voi sapete che in varie comunità nelle quali stiamo, c’è gente che non è zapatista, che vivacchia senza organizzarsi e aspettando che il malgoverno gli passi la sua elemosina per farsi qualche foto per dimostrare che il governo è buono.
Allora vediamo che, ogni volta che ci sono elezioni, alcuni si vestono di rosso, altri di azzurro, altri di verde, altri di giallo, altri trasparenti, e così combattono tra di loro, a volte tra gli stessi familiari. Perché combattono? Ebbene, per vedere chi li comanderà, a chi obbediranno, chi gli darà ordini. E pensano che se vince il tale colore, chi ha appoggiato quel colore riceverà più elemosina. E allora li vediamo dire che sono ben decisi e consapevoli nell’aderire a un partito, e a volte arrivano ad ammazzarsi per un fottuto colore. Perché sono quelli che già comandano a volere l’incarico, a volte vestendosi di rosso, o di azzurro, o di verde, o di giallo, o mettendosi un nuovo colore. E dicendo che fanno parte del popolo e che bisogna appoggiarli. Ma non fanno parte del popolo, sono gli stessi governanti che un giorno sono deputati locali, un altro sono sindaci, un altro sono funzionari di partito, poi sono presidenti municipali e così via, saltando da un incarico all’altro, e anche da un colore all’altro. Sono gli stessi, gli stessi cognomi, sono i parenti, i figli, i nipoti, gli zii, i cugini, i parenti, i cognati, i fidanzati, gli amanti, gli amici degli stessi bastardi e bastarde di sempre. E dicono sempre la stessa roba: dicono che salveranno il popolo, che ora si comporteranno bene, che non ruberanno più così tanto, che aiuteranno i poveracci, che li tireranno fuori dalla miseria.
Ebbene, si spendono i loro soldi, che ovviamente non sono loro bensì sono presi dalle imposte. Però queste bastarde e bastardi non spendono i soldi per aiutare o sostenere i poveracci. No. Li spendono per mettere i loro nomi e le loro foto nella propaganda elettorale, negli annunci delle radio e televisioni commerciali, nei loro giornali e riviste a pagamento, e compaiono perfino al cinema.
Ebbene, quelli che nelle comunità sono sostenitori sfegatati di un partito al momento delle elezioni e molto consapevoli del loro colore, quando alla fine viene fuori chi ha vinto passano tutti a quel colore, perché pensano che così gli verrà dato il loro regalino.
Per esempio, che ora gli daranno un televisore. Ebbene, come zapatisti che siamo noi diciamo che gli stanno dando una pattumiera, perché attraverso la televisione gli manderanno un mucchio di spazzatura. Ma se prima il problema era che gli dessero tutto o no, ora non gli danno e non gli daranno più nulla.
Se glielo davano, era perché diventassero scansafatiche. Si sono perfino dimenticati come si lavora la terra. Se ne stanno lì, aspettando che arrivino i soldi del governo per spenderseli in bevute. E se ne stanno lì nelle loro case, sfottendoci perché noi andiamo al campo di lavoro mentre loro non fanno che aspettare che ritorni la moglie, la figlia, mandate a raccattare il sussidio, il sostegno del governo.
E così via, finché non arriva più. Senza preavviso, non esce nei media prezzolati, nessuno viene a dirgli di essere i loro salvatori. Semplicemente, cessa il sostegno. E quel fratello o sorella si rende conto di non aver più nulla, né per le bevute, né tanto meno per il mais, i fagioli, il sapone, i pantaloni. E allora deve tornare al campo di lavoro ormai in abbandono, inselvatichito che nemmeno ci si può camminare. E siccome si è ormai dimenticato come si lavora, gli si gonfiano le mani tanto che nemmeno può impugnare il machete. Lo hanno fatto diventare un essere inutile che vive solo di elemosine e non di lavoro.
Ecco ciò che già sta succedendo. Non viene fuori nelle notizie dei malgoverni. Al contrario, viene fuori che vengono dati molti fondi. Ma nei villaggi non arriva più nulla. Dove va a finire il denaro che il malgoverno dice di stare dando per la campagna di elemosine sulla fame? Ebbene, già lo sappiamo che là sopra hanno detto che ci sarà meno denaro o che semplicemente non ce ne sarà più. Voi credete che, mentre il contadino ormai campa di elemosina si dimentica di lavorare, quello che sta sopra e che gli passava il sussidio lavori? No, anche quello di sopra è abituato a ricevere gratis. Non sa vivere onestamente lavorando, sa solo vivere occupando incarichi di governo.
Quindi succede che essendoci meno soldi non arriva più nulla. Resta tutto di sopra. Un po’ lo arraffa il governatore, un altro po’ il giudice, un altro po’ il poliziotto, il deputato, il presidente municipale, il sindaco, il leader contadino e a quel punto alla famiglia del sostenitore di partito non arriva più nulla.
Prima sì che arrivava, ma ora non più. “Che succede?”, chiede il sostenitore di partito. E pensa che il problema sia che il tal colore non serve più, e prova a passare a un altro colore. Il risultato è lo stesso. Nelle assemblee i sostenitori di partito si incazzano, si urlano addosso, si accusano l’un l’altro, si chiamano traditori, venduti, corrotti. È in effetti sì, sia quelli che gridano che quelli che subiscono le urla sono traditori, venduti e corrotti.
E allora, la base di questi partiti si dispera, si angustia, è presa dalla pena. È svelato l’inganno perché nelle nostre case zapatiste c’è il mais, ci sono i fagioli, c’è la verdura, c’è quel minimo di soldi per le medicine e i vestiti. E dal lavoro collettivo viene fuori quel che serve per sostenerci tra di noi in caso di necessità. C’è la scuola, c’è la clinica. Non è il governo che ci viene ad aiutare. È che noi stessi ci aiutiamo tra compagni zapatisti e con le compagne e i compagni della Sexta.
Allora viene il fratello affiliato al partito e ci chiede che fare, perché è messo male.
Ebbene, sappiate cosa rispondiamo noi:
Non gli diciamo di cambiare il partito per un altro meno peggio.
Non gli diciamo di votare.
Nemmeno gli diciamo di non votare.
Non gli diciamo di farsi zapatista, perché lo sappiamo bene, per la nostra storia, che non tutti hanno la forza d’animo di essere zapatisti.
Non lo prendiamo in giro.
Semplicemente gli diciamo di organizzarsi.
“E allora cosa faccio?”, ci chiede.
E allora gli diciamo: “Veditela da solo sul da farsi, secondo quel che ti dice il tuo cuore, la tua testa, e non che venga qualcun altro a dirti cosa devi fare”.
E lui ci dice: “E’ che la situazione è veramente incasinata”.
E noi non gli diciamo bugie, non gli facciamo chissà che grandi discorsi. Noi gli diciamo soltanto la verità:
“Non farà che peggiorare”.
-*-
Sappiamo bene che così vanno le cose.
Ma come zapatisti abbiamo anche ben chiaro che c’è ancora gente che da altre parti della città e della campagna, cade nella trappola di mettersi con i partiti.
Sembra molto vantaggioso mettersi coi partiti, perché si guadagnano soldi senza lavorare, senza sbattersi per guadagnare pochi centesimi e avere il minimo per mangiare, vestirsi e curarsi.
Ciò che fanno quelli di sopra è ingannare la gente. Questo è il loro lavoro, vivono di questo.
Lo vediamo che c’è gente che ci crede, crede che la situazione migliorerà, che il tal dirigente risolverà il problema, che si comporterà bene, che non ruberà molto, che intrallazzerà solo un po’, che bisogna provare.
Quindi noi diciamo che sono pezzi di piccole storie che devono passare. Che devono constatare con i propri occhi che non ci sarà nessuno che risolverà il problema, ma che dobbiamo risolverlo noi stessi, stesse, come collettivi organizzati.
Le soluzioni le dà il popolo, non il leader, non i sostenitori dei partiti.
E non lo diciamo solo perché suona bene. È perché lo abbiamo visto accadere realmente, è perché già lo facciamo.
-*-
Può darsi che molto tempo fa, alcuni aderenti ai partiti di sinistra, prima di istituzionalizzarsi, cercassero di creare coscienza tra il popolo. Non cercavano il potere attraverso le elezioni, ma di smuovere il popolo perché si organizzasse, e lottasse, e cambiasse il sistema. Non solo il governo. Tutto, tutto il sistema.
Perché dico aderenti ai partiti di sinistra istituzionale? Be’, perché sappiamo che ci sono partiti di sinistra che non sono coinvolti negli intrallazzi di sopra, che hanno le loro modalità, ma non si vendono, né si arrendono, né cambiano il loro pensiero sul fatto che bisogna finirla con il sistema capitalistico. Perché lo sappiamo, e noi come zapatisti non lo dimentichiamo, che la storia della lotta di sotto è scritta anche con il loro sangue.
Ma la grana è la grana e il sopra è il sopra. E gli aderenti ai partiti di sinistra istituzionale hanno cambiato il loro modo di pensare che è diventato la ricerca di un posto, per i soldi. Semplicemente: i soldi. Cioè la grana.
O pensate che creare coscienza si faccia disprezzando, umiliando, criticando la gente di sotto? Dicendogli che sono dei mangiapanini che non pensano? Che sono ignoranti?
Pensate che creino coscienza se, quando gli si dice: “senti tu, uomo di partito di sinistra, quel capretto o capra, che tu dici essere la speranza, è già stato di altri colori e non è che un ratto”, ti rispondono che sei venduto a Peña Nieto?
Pensate che creino coscienza se dicono alla gente la menzogna che noi zapatisti diciamo di non votare; magari perché stanno vedendo che forse non otterranno l’elezione, ossia più grana, e stanno cercando un pretesto per incolpare qualcuno?
Pensate che creino coscienza se stanno dicendo di non votare chi non ha studiato ed è povero perché sono ignoranti che votano soltanto il PRI?
Se il Velasco del Chiapas dà ceffoni con la mano, questi uomini di partito danno ceffoni con il loro razzismo mal nascosto.
Guardate che l’unica coscienza che stanno creando questi uomini di partito è che, oltre a essere orgogliosi, sono degli imbecilli.
Cosa si credono?
Che dopo aver ricevuto i loro insulti, le loro menzogne e i loro rimbrotti, la gente di sotto accorrerà a inginocchiarsi dinanzi al loro colore, a votare per loro e a pregarli di salvarla?
Ecco cosa diciamo come zapatisti: ecco la prova che per essere un politico di partito di sopra bisogna essere bavoso o svergognato o criminale, o le tre cose insieme.
-*-
Noi zapatisti diciamo che non bisogna aver paura che il popolo comandi. È la cosa più sana e giudiziosa. Perché il popolo stesso cambierà le cose come ha veramente bisogno. E solo così esisterà un nuovo modo di governare.
Non è che non capiamo che significhi eleggere o elezione. Noi zapatisti abbiamo un altro calendario e un’altra geografia su come fare le elezioni in territorio ribelle, resistendo.
I nostri villaggi eleggono già per conto proprio, e non si spendono milionate né si consumano tonnellate di immondizie plastiche, di teloni con le loro fotografie di ladruncoli e criminali.
Certo, abbiamo appena 20 anni di cammino nell’elezione delle nostre autorità autonome, secondo la vera democrazia. Così abbiamo camminato, con la Libertà che con cui stiamo e con l’altra Giustizia del popolo organizzato. Dove si coinvolgono migliaia di donne e di uomini per scegliere. Dove tutte e tutti sono d’accordo e si organizzano nella vigilanza affinché mantengano il mandato dei villaggi. Dove i villaggi si organizzano per vedere quali saranno i lavori spettanti alle autorità.
Cioè come il popolo comanda il suo governo.
I villaggi si organizzano in assemblee, dove si iniziano a esprimere pareri e di conseguenza a venire fuori le proposte che vengono studiate, nei loro pro e contro, e si analizza qual è la migliore. E prima di decidere le portano a tutti i villaggi per l’approvazione e tornano in assemblea per la presa di decisione secondo la maggioranza della decisione dei villaggi.
Questa è già la vita zapatista nei villaggi. È già una cultura di verità.
Vi sembra che sia molto lento? Perciò noi diciamo che è in base al nostro calendario.
Vi sembra che avvenga perché siamo popoli originari? Perciò diciamo che è secondo la nostra geografia.
È chiaro che abbiamo commesso molti errori, molti sbagli. Certo che ne faremo altri.
Ma sono i nostri sbagli.
Noi li commettiamo. Noi li paghiamo.
Non come nei partiti nei quali i dirigenti sbagliano e per di più incassano, e quelli di sotto sono quelli che la pagano.
Perciò la storia delle elezioni nel mese di giugno non ci fa né caldo né freddo.
Non facciamo una chiamata né a votare né a non votare. Non ci interessa.
C’è di più: nemmeno ci preoccupa.
Quel che interessa a noi zapatisti è sapere di più su come resistiamo e affrontiamo le molte teste del sistema capitalista che ci sfrutta, ci reprime, ci disprezza e ci ruba.
Perché non è solo da un lato e in un modo che il capitalismo opprime. Opprime se donna. Opprime se impiegato. Opprime se operaio. Opprime se contadino. Opprime se giovane. Opprime se bambina o bambino. Opprime se maestro. Opprime se studente. Opprime se artista. Opprime se pensi. Opprime se sei umano, o pianta, o acqua, o terra, o aria, o animale.
Non importa che lo profumino o lavino, il sistema capitalista “gronda sangue e fango, da tutti i pori, dalla testa ai piedi” (andatevi a vedere chi lo ha scritto e dove).
Pertanto la nostra idea non è di promuovere il voto.
Tanto meno di promuovere l’astensione o il voto in bianco.
Il nostro pensiero non è di fornire ricette su come far fronte al problema del capitalismo. Non è nemmeno per imporre il nostro pensiero ad altri.
Il seminario serve a vedere le varie teste del sistema capitalista, a cercare di capire se ha nuovi metodi per attaccarci o sono gli stessi di prima.
Se ci interessano i pensieri altrui è per vedere se è vero ciò che vediamo arrivare, ovvero una crisi economica tremenda che si congiungerà ad altri mali e farà molti danni a tutte e tutti da tutte le parti, in tutto il mondo.
Perciò se è vero che sta per accadere questo, o che sta già accadendo, bisogna pensare se ha senso agire allo stesso modo di prima.
Pensiamo che dobbiamo obbligarci a pensare, ad analizzare, a riflettere, a criticare, a cercare il nostro proprio passo, il nostro proprio modo, nei nostri luoghi e nei nostri tempi.
Ora chiedo a voi che state leggendo queste righe: che votiate o no, vi danneggia pensare come va il mondo nel quale viviamo, analizzarlo, capirlo? Pensare criticamente vi impedisce di votare o di astenervi? Vi aiuta o no a organizzarvi?
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Finendola sulle elezioni:
Soltanto perché resti ben chiaro e non vi facciate ingannare sul fatto che diciamo ciò che non diciamo.
Noi capiamo che ci sono quelli che credono di poter cambiare il sistema votando alle elezioni.
Noi diciamo che è una cazzata perché è chi comanda a organizzare le elezioni, a dire chi è candidato, a dire come si vota e quando e dove, a dire chi vince, ad annunciarlo e a dire se tutto si è svolto in maniera legale o no.
Ma va bene, c’è gente che pensa di sì. Va bene, noi non diciamo di no, ma nemmeno di sì.
Quindi, che votino per un colore o trasparente, o non votino, quel che noi diciamo è che bisogna organizzarsi e prendere nelle nostre mani il governo e obbligarlo a obbedire al popolo.
Se avete già pensato di non votare, noi non diciamo che va bene, e nemmeno diciamo che va male. Vi diciamo solo che pensiamo che non basti, che bisogna organizzarsi. E ovviamente di prepararvi perché vi daranno la colpa delle miserie della sinistra partitica istituzionale.
Se avete pensato di votare e già sapete chi voterete, è uguale, non discutiamo se va bene o va male. Quel che vi diciamo chiaramente è di prepararvi perché resterete molto arrabbiati per gli inganni e le frodi che subirete. Perché a ingannare sono esperti quelli che stanno al Potere. Perché quel che succederà è già deciso da quelli di sopra.
Sappiamo anche che ci sono leader che ingannano la gente. Le dicono che ci sono solo due strade per cambiare il sistema: o la lotta elettorale o la lotta armata.
Ecco ciò che dicono per ignoranza o per assenza di vergogna, o per entrambe.
In primo luogo, essi non stanno lottando per cambiare il sistema, né per prendere il potere, bensì per diventare governo. Non è la stessa cosa. Dicono che una volta al governo faranno cose buone, ma hanno cura di mettere in chiaro che non cambieranno il sistema, bensì che ne rimuoveranno gli aspetti negativi.
Converrebbe che studiassero un po’ e capissero che essere governo non è detenere il Potere.
Si vede come non sappiano nemmeno che rimuovendo gli aspetti negativi del capitalismo non c’è più capitalismo. E vi dirò perché: perché il capitalismo è lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, dei molti da parte di pochi. Se ci aggiungete anche le donne, la faccenda non cambia. Se ci aggiungete anche gli altrei, la faccenda non cambia. Continua ad essere il sistema nel quale alcunei si arricchiscono a spese del lavoro di altrei. E sono pochi gli altrei di sopra, e sono molti gli altrei di sotto. Se gli affiliati ai partiti dicono che ciò va bene e che bisogna solo stare attenti che non passino il segno, che lo dicano pure.
Ma per arrivare a essere governo non ci sono solo due vie come dicono loro (la via armata e la via elettorale). Dimenticano che anche il governo si può comprare (o hanno già dimenticato com’è arrivato al governo Peña Nieto?). E non solo questo, forse non lo sanno ma si può comandare senza essere governo.
Se questa gente dice che si può fare solo con le armi o con le elezioni, l’unica cosa che dicono è che non conoscono la storia, che non studiano bene, che non hanno immaginazione, che sono degli svergognati.
Basterebbe che guardassero un po’ di sotto. Ma ormai gli si è torto il collo dal tanto guardare di sopra.
Perciò noi zapatisti non ci stanchiamo di dire: organizzatevi, organizziamoci, ciascuno nei suoi luoghi, lottiamo per organizzarci, lavoriamo per organizzarci, pensiamo a iniziare a organizzarci e incontriamoci per unire le nostre organizzazioni per un Mondo in cui i popoli comandano e il governo obbedisce.
Riassumendo: come abbiamo detto prima, come diciamo ora: che tu voti o no, organizzati.
E quindi noi zapatisti pensiamo che bisogna avere un pensiero adeguato per organizzarsi. Cioè si necessita la teoria, il pensiero critico.
Col pensiero critico analizziamo le modalità del nemico, di chi ci opprime, ci sfrutta, ci reprime, ci disprezza, ci deruba, ma andiamo verificando anche com’è la nostra strada, come sono i nostri passi.
Perciò stiamo chiamando tutta la Sexta a fare riunioni di pensiero, di analisi, di teoria, di come vedete il vostro mondo, la vostra lotta, la vostra storia.
Vi chiamiamo a realizzare i vostri semenzai e a condividere ciò che lì seminerete.
-*-
Noi come zapatisti continueremo ad autogovernarci secondo il principio che il popolo comanda e il governo obbedisce.
Come dicono i compagni zapatisti: Hay lum tujbil vitil ayotik. Vuol dire: va molto bene come siamo.
Un’altra: Nunca ya kikitaybajtic bitilon zapatista. Vuol dire: non smetteremo mai di essere zapatisti.
Un’altra ancora: Jatoj kalal yax chamon te yax voon sok viil zapatista. Vuol dire: Fino a quando morirò il mio nome sarà zapatista.
Dalle montagne del sudest messicano.
A nome di tutto l’EZLN, degli uomini, delle donne, dei bambini e degli anziani dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale.
Subcomandante Insurgente Moisés.
Messico, aprile-maggio 2015.
Fonte Comitato Chiapas “Maribel”
Testo originale: http://enlacezapatista.ezln.org.mx/2015/05/06/sulle-elezioni-organizzarsi/
Traduzione a cura dell’Associazione Ya Basta! Milano
Il muro e la crepa – Subcomandante Galeano
Primo Appunto sul Metodo Zapatista.
3 maggio 2015
Buona sera, giorno, notte a chi ci ascolta e chi ci legge, indipendentemente da calendari e geografie.
Il mio nome è Galeano, Subcomandante Insurgente Galeano. Sono nato all’alba del 25 maggio 2014, per volere collettivo e non mio, e nemmeno di altri, altre e otroas. Come il resto delle mie compagne e compagni zapatisti, mi copro il volto quando è necessario mostrarmi, e mi scopro per nascondermi. Nonostante non abbia ancora compiuto un anno di vita, il comando mi ha assegnato il compito di guardia, vedetta o sentinella in uno dei posti di osservazione di questa terra ribelle.
Siccome non sono abituato a parlare in pubblico, tantomeno di fronte a così tante e così (scusate, dev’essere il singhiozzo da panico del palcoscenico), dicevo così raffinate personalità, vi ringrazio per la comprensione per i miei balbettii ed inciampi nella difficile e complicata arte della parola.
Ho assunto il nome di Galeano, il nome di un compagno zapatista, un maestro ed organizzatore, indigeno che fu aggredito, rapito, torturato ed assassinato da paramilitari patrocinati da una presunta organizzazione sociale: la CIOAC-Histórica. L’incubo che si concluse con la vita del compagno maestro Galeano, iniziò l’alba del 2 maggio 2014. Da quell’ora, noi, zapatiste e zapatisti, abbiamo iniziato la ricostruzione della sua vita.
In quei giorni la direzione collettiva dell’EZLN decise di far morire il personaggio autonominato SupMarcos, allora portavoce degli uomini, donne, bambini ed anziani zapatisti. Da allora, l’incarico di portavoce dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale è stato assunto dal Subcomandante Insurgente Moisés. Per sua voce parliamo, attraverso i suoi occhi guardiamo, nei suoi passi camminiamo, noi siamo lui.
Mesi dopo quel 2 maggio, la notte è scesa sul Messico aggiungendo un nuovo nome alla già la lunga lista del terrore: “Ayotzinapa”. Come è già avvenuto altre volte nel mondo, una geografia del basso veniva segnalata e nominata da una tragedia studiata ed eseguita, cioè, un crimine.
Abbiamo già detto, per voce del Subcomandante Insurgente Moisés, cosa ha significato Ayotzinapa per zapatiste e zapatisti. Col vostro permesso e delle mie compagne e compagni cape e capi zapatisti, riprendo le sue parole.
Ayotzinapa è dolore e rabbia, ma non solo. È anche e soprattutto l’ostinato impegno dei genitori e compagni degli assenti.
Alcuni di questi genitori che non hanno lasciato cadere la memoria, ci hanno fatto l’onore della loro condivisione e sono qui con noi in terre zapatiste.
Abbiamo ascoltato la parola di Doña Hilda e Don Mario, madre e padre di César Manuel González Hernández, ed abbiamo la presenza e la parola di Doña Bertha e Don Tomás, madre e padre di Julio César Ramírez Nava. Con loro reclamiamo i 46 assenti.
A Doña Bertha e Don Tomás chiediamo di far arrivare queste parole agli altri familiari degli assenti di Ayotzinapa. Perché è stata la loro lotta a far avviare questo semenzaio.
Credo che più di una, uno, unoa, della Sexta e dell’EZLN concorderanno con me che avremmo preferito che non fossero qui. Voglio dire che avremmo voluto che fossero qui ma non per dolore e rabbia, ma per un abbraccio tra compagni. Che non fosse successo nulla quel 26 settembre. Che il calendario avesse dato una mano amica ed avesse saltato quella data, e che la geografia si fosse persa e non si fosse fermata ad Iguala, Guerrero, Messico.
Ma se dopo quella notte di terrore la geografia ha raggiunto gli angoli più remoti del pianeta, e se il calendario resta fisso su quella data, è stato per il vostro impegno, per la grandezza della vostra semplicità, per la vostra dedizione incondizionata.
Non abbiamo conosciuto i vostri figli. Ma conosciamo voi. E vorremmo che la nostra ammirazione e rispetto sia per voi una certezza, anche nei vostri momenti di dolore e solitudine.
È vero, non possiamo riempire le strade e le piazze delle grandi città.Ogni mobilitazione, per piccola che sia, per le nostre comunità rappresenta una perdita importante nella loro economia, già di per sé difficile, come quella di milioni di persone, sostenuta con difficoltà dalla ribellione e resistenza che dura da oltre due decenni. Dico nelle nostre comunità, perché i nostri aiuti non sono la somma di individualità, ma sono azione collettiva, pensata ed organizzata. Sono parte della nostra lotta.
Non possiamo emergere nelle reti sociali, né far arrivare le vostre parole oltre i nostri cuori. Non possiamo nemmeno aiutarvi economicamente, anche se sappiamo che questi mesi di lotta vi hanno segnato nella salute e nelle condizioni di vita.
Succede anche che il nostro essere ribelli ed in resistenza il più delle volte è visto con sospetto e sfiducia. Movimenti e mobilitazioni che si svolgono da diverse parti, preferiscono non rendere esplicita la nostra simpatia. Sensibili al “cosa diranno” mediatico, non vogliono che la loro causa sia associata in alcun modo “agli incappucciati del Chiapas”. Lo capiamo, non lo discutiamo. Il nostro rispetto per le ribellioni che pullulano nel mondo include il rispetto delle loro valutazioni, dei loro passi, delle loro decisioni. Rispettiamo, ma non ignoriamo. Siamo attenti ad ognuna delle mobilitazioni che affrontano il Sistema. Cerchiamo di comprenderle, cioè, di conoscerle. Sappiamo che il rispetto nasce dalla conoscenza, e che la paura e l’odio, queste due facce del disprezzo, non poche volte nascono dall’ignoranza.
La stragrande maggioranza nel mondo, non solo nel nostro paese, è come voi, sorelle e fratelli familiari degli assenti di Ayozinapa. Persone che devono combattere giorno e notte per un pezzo di vita. Gente che deve lottare per strappare alla realtà qualcosa per sopravvivere.
Chiunque in basso, uomo, donna, otroa, che conosca la storia che vi addolora, simpatizza con la vostra lotta per chiedere verità e giustizia. La condivide perché nelle vostre parole vedono la ripetizione delle loro storie, perché si riconoscono nel vostro dolore, perché si identificano con la vostra rabbia.
La maggioranza non è andata a manifestare, non ha creato temi nelle reti sociali, non ha rotto vetri, non ha incendiato auto, non ha gridato slogan, non ha usurpato palchi, non ha vi ha detto che non siete soli.
Non l’hanno fatto semplicemente perché non hanno potuto farlo.
Ma hanno ascoltato e rispettano il vostro movimento.
Non demoralizzatevi.
Non credete che, solo perché chi prima era al vostro fianco ed ora se n’è andato dopo aver fatto la sua parte o dopo aver visto che non avrebbe potuto farla, la vostra causa sia meno dolorosa, meno nobile, meno giusta.
Il cammino che avete fatto fino ad ora è stato intenso, certo. Ma voi sapete che c’è ancora molto da camminare.
Sapete? Uno degli inganni di quelli che stanno sopra è convincere quelli in basso che quello che non si ottiene rapidamente e facilmente, non si otterrà mai. Convincerci che le lotte lunghe e difficili stancano e non arrivano a niente. Truccano il calendario del basso sovrapponendo il calendario di sopra: elezioni, apparizione, riunioni, appuntamenti con la storia, date commemorative che occultano solo il dolore e la rabbia.
Il Sistema non teme le esplosioni, per quanto grandi e luminose siano. Se un governo cade, sui suoi scaffali ne ha pronti altri da porre ed imporre. Quello che lo terrorizza è la perseveranza della ribellione e la resistenza del basso.
Perché in basso il calendario è un altro. Il passo è un altro. È un’altra la storia. È un altro il dolore ed un’altra la rabbia.
Ed ora, col trascorrere dei giorni, questo basso diffuso e plurale che siamo, non solo è partecipe del vostro dolore e della vostra rabbia. Ma siamo inoltre attenti alla vostra costanza, al vostro andare avanti, al vostro non arrendervi.
Credete. La vostra lotta non dipende dal numero di manifestanti, dal numero di righe sui giornali, dal numero di citazioni nelle reti sociali, dal numero di incontri ai quali siete invitati.
La vostra lotta, la nostra lotta, le lotte del basso in generale dipendono dalla resistenza. Dal non arrendersi, dal non vendersi, dal non tentennare.
Naturalmente, questo secondo noi, zapatiste e zapatisti. Ci sarà gente che vi dirà altre cose. Vi diranno che è più importante stare con loro. Per esempio, che è più importante invitare a votare per quel tal partito politico perché così troveranno gli assenti. E che se non inviterete a votare per quel tal partito, non solo avrete perso l’opportunità di ritrovare coloro che vi mancano, ma sarete anche complici del proseguimento del terrore nel nostro paese.
Sapete bene che ci sono partiti politici che approfittano dei bisogni materiali della gente. Che offrono generi alimentari, materiale scolastico, carte prepagate, biglietti per il cinema, cappellini, panini e bibite colorate in tetra pack? Beh, c’è anche chi approfitta dei sentimenti delle persone. La speranza, amici e nemici, è il bisogno maggiormente quotato là sopra. La speranza che tutto cambi, la speranza di benessere, democrazia, giustizia, libertà. La speranza che gli illuminati di sopra emancipino dal basso i reietti, per poi rivenderla. La speranza in cui la soluzione dei bisogni dipende dal colore di uno dei prodotti sullo scaffale del sistema.
Forse è gente che ne sa più di noi zapatiste e zapatisti. Sono saggi. Inoltre, vengono pagati per sapere. La conoscenza è la loro professione, di quella vivono… o con quella defraudano.
Loro ne sanno più di noi, e riferendosi a noi dicono che siamo “persi là, sulle montagne, chissà dove”, e dicono che invitiamo all’astensione e che siamo settari, forse perché, a differenza di loro, noi rispettiamo i nostri morti.
È così comodo pronunciare e ripetere nozioni e bugie! Così a buon mercato diffamare e calunniare, e poi predicare l’unità, il nemico principale, l’infallibilità del pastore, l’incapacità del gregge.
Molti anni fa, noi zapatisti non facevamo marce, non gridavamo slogan, né inalberavamo striscioni, né alzavamo i pugni. Fino a che una volta abbiamo sfilato. La data: il 12 ottobre 1992, quando in alto celebravano i 500 anni dell’”incontro dei due mondi”. Il luogo: San Cristóbal de Las Casas, Chiapas, Messico. Invece degli striscioni, portavamo archi e frecce, ed un silenzio sordo era il nostro slogan.
Senza chiasso, la statua del conquistatore cadde. Se l’hanno risollevata, non importa. Non potranno mai risollevare di nuovo la paura di quello che rappresentava.
Qualche mese dopo, tornammo nelle città. Neanche quella volta avevamo slogan né striscioni, e non portavamo archi e frecce. Quell’alba odorava di fuoco e polvere da sparo. E furono i nostri volti a sollevarsi.
Mesi dopo arrivarono alcuni dalla città. Ci raccontarono delle grandi marce, degli slogan, degli striscioni, dei pugni alzati. Naturalmente, sempre premettendo che se questi poveri indios e indias, siamo sempre attenti all’equità di genere, erano sopravvissuti, era grazie a loro che nelle città avevano fermato il genocidio dei primi giorni di quell’anno 1994. Noi zapatiste e zapatisti non domandammo se prima del 1994 non ci fosse stato genocidio, né se fosse stato fermato, né se quelli della città stavano parlando di qualcosa già successo o delle sue conseguenze. Noi zapatiste e zapatisti capimmo che c’erano altre forme di lotta.
Poi abbiamo fatto le nostre marce, i nostri slogan, i nostri striscioni ed alzato i pugni. Da allora le nostre marce sono un pallido riflesso di quella marcia che illuminò l’alba dell’anno 94. I nostri slogan hanno la rima disordinata delle canzoni negli accampamenti guerriglieri di montagna. I nostri striscioni sono tremendamente complicati per trovare l’equivalente di quello che nelle nostre lingue si descrive con una parola, mentre in altre lingue c’è bisogno dei tre tomi del Capitale. I nostri pugni alzati più che sfidare, salutano. Come se si rivolgessero al domani e non al presente.
Ma qualcosa non è cambiato: i nostri volti sono ancora sollevati.
Anni dopo, i nostri cosiddetti creditori della città ci chiesero di partecipare alle elezioni. Noi non capimmo, perché noi non avevamo mai chiesto a loro di sollevarsi in armi, né che resistessero, né che si ribellassero contro il malgoverno, né che onorassero i loro morti in lotta. Non abbiamo mai chiesto loro di coprirsi il volto, di negarsi il nome, di abbandonare famiglia, professione, amicizie, tutto. Ma i moderni conquistadores, travestiti di sinistra progressista, ci minacciarono: se non li seguivamo, ci avrebbero lasciato soli e saremmo stati i colpevoli della destra reazionaria al governo. Eravamo loro debitori, dissero, e presentarono il conto da pagare stampato su una scheda elettorale.
Noi, zapatiste e zapatisti non capivamo. Eravamo insorti per comandarci da soli, non perché qualcun altro ci comandasse. Si arrabbiarono.
Poi quelli della città hanno continuato a fare cortei, gridare slogan, alzare pugni e striscioni, ed ora aggiungono tweet, hashtag, like, trending topics, followers, nei loro partiti politici ci sono gli stessi che ieri erano nella destra reazionaria, ai loro tavoli siedono insieme gli assassini ed i familiari degli assassinati, ridono e brindano insieme per i soldi ricevuti, si lamentano e piangono insieme per le poltrone perse.
Nel frattempo noi zapatiste e zapatisti qualche volta abbiamo sfilato, gridato slogan impossibili o taciuto, a volte abbiamo sollevato striscioni e pugni, sempre lo sguardo. Diciamo che non abbiamo manifestato per sfidare il tiranno, ma per salutare chi, in altre geografie e calendari, lo affronta. Per sfidarlo, noi costruiamo. Per sfidarlo, noi creiamo. Per sfidarlo, noi immaginiamo. Per sfidarlo, noi cresciamo e ci moltiplichiamo. Per sfidarlo, noi viviamo. Per sfidarlo, noi moriamo. Invece dei tweet, facciamo scuole e cliniche, invece di trending topics, feste per celebrare la vita e sconfiggere la morte.
Nella terra dei creditori della città continua a comandare il padrone, con un’altra faccia, con un altro nome, di un altro colore.
In terra zapatista comanda il popolo ed il governo obbedisce.
Forse per questo noi zapatiste e zapatisti non capivamo che noi dovevamo essere i seguaci, ed i leader della città i capi.
E continuiamo a non capire.
Ma può essere che la verità e la giustizia che voi, noi e tutti, tutte, todoas, cerchiamo, si ottenga grazie al dono di un leader circondato da persone intelligenti come lui, un salvatore, un padrone, un capo, un modello, un pastore, un governante, e tutto solo col minimo sforzo di inserire una scheda nell’urna, un tweet, la presenza nel corteo, al meeting, nella lista degli affiliati… o tacendo di fronte alla farsa che simula interesse patriottico dove c’è solo fame di Potere.
Se è vero o no, forse ce lo diranno altre idee durante questo semenzaio.
Quello che noi, zapatiste e zapatisti, abbiamo imparato è che non è vero. Da sopra vengono solo sfruttamento, furto, repressione, disprezzo. Da sopra, viene solo dolore.
E da sopra vi chiedono, esigono che li seguiate. Che voi dovete a loro che il vostro dolore sia conosciuto a livello mondiale, che dovete a loro le piazze piene, le strade colme di colore e ingegno. Che voi dovete a loro l’opera di polizia che ha denunciato, perseguitato e demonizzato gli “anarco-inflitrati-schifosi”. Che voi dovete a loro le manifestazioni ordinate, gli articoli sui giornali, le foto a colori, le recensioni favorevoli e le interviste.
Noi, zapatiste e zapatisti, vi diciamo:
Non temete di perdere chi non è mai stato davvero con voi. Sono loro che non vi meritano. Che si avvicinano al vostro dolore come ad uno spettacolo alieno che piace o no, ma del quale non saranno mai parte reale.
Non temete di essere abbandonati da chi non vuole accompagnarvi ed appoggiarvi, ma solo gestirvi, domarvi, farvi arrendere, usarvi e poi gettarvi via.
Temete invece di dimenticare la vostra causa, di abbandonare la lotta.
Ma finché resisterete avrete il rispetto e l’ammirazione di molta gente in Messico e nel mondo.
Persone come quelle che oggi sono qui con noi.
Come Adolfo Gilly.
Quello che ora vi dirò, non era previsto. La ragione? Inizialmente sia Adolfo Gillys ia Pablo González Casanova avevano detto che forse non sarebbero stati presenti, entrambi per problemi di salute. Ma Adolfo è qui, e a lui ora chiediamo di parlare dopo Don Pablo.
Il defunto supMarcos raccontava che a volte qualcuno criticava che l’EZLN avesse tante attenzioni per Don Luis Villoro, Don Pablo González Casanova e Don Adolfo Gilly. L’accusa si basava sulle divergenze che queste tre persone avevano rispetto allo zapatismo, mentre non ci fosse la stessa deferenza verso intellettuali che erano cento percento zapatisti. Immagino che il Sup, dopo aver acceso la pipa, dicesse: “Per prima cosa, le loro differenze non sono su ciò che è lo zapatismo, bensì su valutazioni, analisi o posizioni che lo zapatismo assume rispetto diversi temi. In secondo luogo, personalmente ho visto queste tre persone di fronte ai miei capi compagne e compagni. Qua sono arrivati intellettuali di grande prestigio ed alcuni nemmeno tanto apprezzati. Sono venuti ed hanno detto la loro parola. Pochi, molto pochi, hanno parlato con le comandanti ed i comandanti. Solo di fronte a quelle tre persone ho visto i miei capi e cape parlare ed ascoltare da uguale a uguale, con mutua fiducia e cameratismo. Come hanno fatto? Bisognerebbe chiederlo a loro. Quello che so è che questo costa, ottenere la parola e l’ascolto delle mie compagne e compagni capi e cape, con rispetto e affetto, costa e molto. In terzo luogo, aggiunse il Sup, sbagli se pensi che noi zapatisti cerchiamo specchi, consensi ed applausi. Noi apprezziamo e stimiamo le differenze nelle idee, naturalmente se sono idee critiche ed articolate, e non quei pasticci che ora abbondano tra il progressismo istruito. Noi, zapatiste e zapatisti, non valutiamo un’idea sulla base del fatto che coincida oppure no con le nostre, ma se ci fa pensare, se ci provoca, soprattutto se rende conto esattamente della realtà. Queste tre persone naturalmente hanno mantenuto posizioni differenti e perfino contrarie alla nostra rispetto diverse situazioni.
Mai, non sono mai stati contro di noi. E, nonostante il viavai della moda, sono stati sempre al nostro fianco.
I loro argomenti critici e non poche volte contrari ai nostri, non ci hanno convinti, certo, ma ci hanno aiutato a comprendere che esistono posizioni diverse e pensieri differenti, e che è la realtà a decretare la ragione, non un tribunale auto-istituito nell’accademia o nella militanza. Provocare il pensiero, la discussione, il dibattito è qualcosa che noi zapatisti apprezziamo molto.
Per questo la nostra ammirazione va al pensiero anarchico. È chiaro che non siamo anarchici, ma i suoi concetti sono di quelli che provocano e animano, che fanno pensare. E credimi, il pensiero critico ortodosso, per definirlo in qualche modo, ha molto da imparare sotto questo aspetto, e non solo dal pensiero anarchico. Per farti un esempio, la critica allo Stato in quanto tale, è qualcosa presente nel pensiero anarchico già da molto, molto tempo.
Ma tornando ai nostri 3, disse il Sup a chi chiedeva una spiegazione zapatista, quando chiunque di voi riuscirà a sedersi di fronte ai miei compagni e compagne senza che questi temano di essere presi in giro, di essere giudicati, di essere condannati; quando riuscirà a parlare con loro da uguale e con rispetto; quando sarà visto come compagno e compagna e non come un giudice estraneo; quando gli mostrino affetto, come si dice qua; o quando il suo pensiero, coincidente o no col nostro, ci aiuti a scoprire il funzionamento dell’Idra; ci suggerisca nuove domande; ci inviti a percorre nuove strade; ci faccia pensare; o quando potrà spiegare o sollecitare l’analisi di un aspetto concreto della realtà; allora, e solo allora vedrà che avremo per lui le stesse poche attenzioni che possiamo offrire. Nel frattempo, disse il Supmarcos con quel senso dello humor acido che lo caratterizzava, abbandonate per favore queste gelosie etero-patriarcali, mondialiste, viperine e stupide.
Ho ricordato questo aneddoto che mi è stato riferito dal SupMarcos, perché alcuni mesi fa, quando è venuta in visita una delegazione dei familiari che lottano per la verità e la giustizia per Ayotzinapa, uno dei papà ci ha raccontato di una loro riunione con il malgoverno. Non ricordo se fosse la prima. Don Mario ci raccontò che i funzionari erano arrivati con le loro carte e la loro burocrazia, come se si stessero occupando di un cambiamento di targhe e non di un caso di sparizione forzata. I familiari erano impauriti ed arrabbiati e volevano parlare, ma il burocrate che avevano davanti diceva che potevano parlare solo quelli che erano autorizzati e li intimoriva. Don Mario racconta che con loro c’era un signore di mezza età, “di giudizio” direbbero le zapatiste e gli zapatisti. Quel signore, senza che nessuno se l’aspettasse, diede una manata sul tavolo ed alzò la voce chiedendo che fosse data la parola a chiunque familiare che volesse parlare. Don Mario ci disse, parola più, parola meno, “quel signore non aveva paura, e ce la tolse anche a noi e così cominciammo a parlare, e da allora non ci siamo più fermati”. Quell’uomo che spinto dalla rabbia si era imposto di fronte alla negligenza governativa, avrebbe potuto essere una donna, o unoa otroa, e sono sicuro che ognuno di voi avrebbe fatto la stessa cosa o qualcosa di simile in quelle circostanze, ma è toccato farlo a quel signore che si chiama Adolfo Gilly.
Compas familiari:
A questo ci riferiamo quando diciamo che c’è gente che sta con voi senza considerarvi una merce da comprare, vendere, scambiare o derubare.
E come lui, ce ne sono altre, altri, otroas, che non picchiano i pugni sul tavolo solo perché non ce l’hanno davanti, altrimenti vedreste.
Noi zapatisti abbiamo imparato anche che niente di quello che meritiamo e di cui abbiamo bisogno si ottiene con facilità né rapidamente.
Perché la speranza per quello che sta sopra è una merce. Ma per chi sta in basso è la lotta per una certezza: Otterremo ciò che meritiamo e di cui abbiamo bisogno perché ci stiamo organizzando e stiamo lottando per questo.
Il nostro destino non è la felicità. Il nostro destino è lottare, lottare sempre, ad ogni ora, in ogni momento, in tutti i luoghi. Non importa che il vento non sia a favore. Non importa che abbiamo tutto contro. Non importa che arrivi la tormenta.
Perché, lo crediate o no, i popoli originari sono specialisti in tormente. Sono lì. E qui siamo. Noi ci chiamiamo zapatisti. E da oltre 30 anni paghiamo il costo di chiamarci così, in vita e da morti.
Tutto quello che abbiamo, cioè, la nostra sopravvivenza nonostante tutto e nonostante tutti quelli che stanno sopra e che si sono succeduti nei calendari e nelle geografie, non lo dobbiamo a singoli individui. Lo dobbiamo alla nostra lotta collettiva ed organizzata.
Se qualcuno chiede a chi devono gli zapatisti e le zapatiste la loro esistenza, la loro resistenza, la loro ribellione, la loro libertà, dirà la verità chi risponderà: “A NESSUNO”.
Perché è così che il collettivo annulla l’individualità che soppianta ed impone, fingendo di rappresentare e indirizzare.
Per questo vi abbiamo detto, familiari della ricerca della verità e della giustizia, che quando tutti se ne andranno e vi lasceranno soli, rimarranno i NESSUNO.
Una parte di questi NESSUNO, forse la più piccola, siamo noi zapatisti. Ma ce ne sono molti altri.
NESSUNO è chi fa girare la ruota della storia. È NESSUNO a lavorare la terra, che fa funzionare le macchine, che costruisce, che lavora, che lotta.
NESSUNO è chi sopravvive alla catastrofe.
Forse ci sbagliamo, e la strada che vi offrono potrebbe essere quella giusta. Se così credete e deciderete in questo senso, non aspettatevi da parte nostra un giudizio di condanna, né ripudio, né disprezzo. Avrete ugualmente il nostro affetto, il nostro rispetto, la nostra ammirazione.
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Familiari degli Assenti di Ayotzinapa:
È molto ciò che non possiamo fare, che non possiamo darvi.
Ma in cambio abbiamo una memoria forgiata in secoli di silenzio ed abbandono, nella solitudine, nei luoghi dell’aggredito perché di colore diverso, diversa bandiera, lingua diversa. Sempre dal sistema, il maledetto sistema che è su di noi. Il sistema che si regge a nostro costo.
E forse le memorie ostinate non riempiono le piazze, né vincono o comprano poltrone nei governi, né occupano palazzi, né bruciano automobili, né rompono vetrine, né innalzano monumenti nei musei effimeri delle reti sociali.
Le memorie testarde solo non dimenticano, e così lottano.
Le piazze e le strade si svuotano, le poltrone ed i governi finiscono, i palazzi crollano, le automobili e le vetrine si sostituiscono, i musei ammuffiscono, le reti sociali corrono da una parte all’altra a dimostrare che la futilità, come il capitalismo, può essere di massa e simultanea.
Ma arrivano momenti, compagni familiari degli assenti, in cui la memoria è l’unica cosa che si ha.
In quei momenti, sappiate che avrete anche noi zapatiste e zapatisti dell’EZLN.
Perché la tenace memoria delle zapatiste e degli zapatisti è molto altra. Perché non solo porta l’annotazione dei dolori e delle rabbie passate che disegnano sul quaderno le mappe di calendari e geografie che sopra sono stati dimenticati.
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IL MURO E LA CREPA
Come zapatisti, la nostra memoria si affaccia anche su quello che viene. Segnala date e luoghi.
Se non c’è un punto geografico per quel domani, cominciamo a mettere insieme rametti, sassolini, brandelli di stoffa e carne, ossa e fango, ed iniziamo la costruzione di un isolotto, o meglio, di una barca piantata in mezzo al domani, lì dove ora si scorge solo una tormenta.
E se nel calendario noto non c’è un’ora, un giorno, una settimana, un mese, un anno, cominciamo allora a riunire frazioni di secondi, minuti, e li facciamo passare per le crepe che apriamo nel muro della storia.
E se non c’è una crepa, allora facciamola graffiando, mordendo, scalciando, battendo con le mani e la testa, con l’intero corpo fino a procurare alla storia questa ferita.
E poi succede che qualcuno si avvicini e ci veda, veda la zapatista, lo zapatista che picchia duro contro il muro.
Chi passa lì vicino, a volte è chi crede di sapere. Si ferma un attimo, muove la testa con disapprovazione, giudica e condanna: “così non riuscirete mai ad abbattere il muro“.
Ma, a volte, molto raramente, passa l’altra, l’altro, l’otroa. Si ferma, guarda, capisce, si guarda i piedi, si guarda le mani, i pugni, le spalle, il corpo. E sceglie. “Qui va bene“, potremmo sentire se il suo silenzio si potesse udire, mentre fa un segno nel muro solido. E giù a picchiare.
Chi crede di sapere ritorna, dato che il suo percorso è sempre di andata e ritorno, come per passare in rassegna i suoi sudditi. Vede l’altro impegnato nello stesso ostinato compito. Valuta che ce n’è abbastanza affinché lo ascoltino, lo applaudano, lo acclamino, lo votino, lo seguano. Parla molto, dice poco: “non riuscirete mai ad abbattere quel muro, è indistruttibile, è eterno, è interminabile”. Quando ritiene sia opportuno, conclude: “quello che dovreste fare, è vedere come gestire il muro, cambiare la guardia, cercare di farlo un poco giusto, educato. Io vi prometto di ammorbidirlo. In ogni modo, staremo sempre da questa parte, Se continuate così, state solo facendo il gioco all’attuale amministrazione, del governo, dello Stato, di quel che è, non importa, perché il muro è il muro e – lo capite? starà sempre lì”.
Poi si avvicina qualcun altro. Osserva in silenzio e dice: “invece di impegnarvi tanto contro il muro, dovreste capire che il cambiamento sta dentro di ognuno, si deve solo pensare in modo positivo, ma guarda il caso, ho proprio qui questa religione, moda, filosofia, alibi che vi servirà. Non importa se è vecchia o nuova. Venite, seguitemi”.
Ma quelli che sono tenaci e picchiano contro il muro sono già meglio organizzati, diventano collettivi, squadre, si rimpiazzano, si alternano. Ci sono squadre grasse, deboli, alte e piccole; là ci sono quelli sporchi, brutti, cattivi e volgari; ce ne sono con testoni, piedoni, con le mani incallite dal lavoro, ce ne sono che, sia donne, sia uomini, sia otroas, danno una mano, il corpo, la vita.
A darci dentro con quello che hanno.
Chi con un libro, un pennello, una chitarra, un giradischi, un verso, una zappa, un martello, una bacchetta magica, una matita. C’è perfino chi colpisce il muro con un “pas de chat“. E succede quello che succede, perché il ballo è contagioso. E qualcuno porta una marimba, una tastiera o un pallone e poi i turni… beh, potete immaginare.
Naturalmente il muro non ne vuol sapere. Segue impavido, potente, immutabile, sordo, cieco.
Ed arrivano i mezzi di comunicazione prezzolati: scattano foto, video, si intervistano tra loro, consultano esperti. L’esperta tal dei tali, la cui unica virtù è essere di un altro paese, dichiara con sguardo trascendente che la composizione molecolare della materia che conferisce al muro la sua corporeità è tale che nemmeno una bomba atomica può abbatterlo e che, pertanto, quello che fa lo zapatismo è assolutamente controproducente e finisce per essere complice del muro stesso (fuori onda l’esperta chiede all’intervistatore di citare il suo unico libro, sperando che così si riesca a vendere).
Segue la sfilata di esperti. La conclusione è unanime: è uno sforzo inutile, così non abbatteranno mai il muro. All’improvviso, i media corrono ad intervistare chi offre un’amministrazione “più umana” del muro. Il groviglio di telecamere e microfoni produce un effetto curioso: chi non ha argomenti né seguaci, sembra averne molti sia degli uni che degli altri. Grande e commovente discorso. C’è la notizia. I mezzi di comunicazione prezzolati se ne vanno, perché nessuno prestava attenzione a quello che diceva il candidato, il leader o il saggio, ma ai loro telefonini che, ovviamente, sono almeno più intelligenti dell’intervistato o intervistata, informano che è scoppiato un terremoto, il funzionario tal dei tali è stato scoperto corrotto, james bond è arrivato nello Zócalo, e la partita del secolo ha attirato milioni di persone, forse perché pensavano che era tra sfruttati e sfruttatori.
Nessuno chiede niente alla zapatista, allo zapatista. Se l’avessero fatto, probabilmente non avrebbero risposto. O forse avrebbero rivelato la ragione del loro assurdo impegno: “non voglio abbattere il muro, basta fare una crepa”.
Non è stato dai libri già scritti, ma da quelli ancora non scritti ma che già sono stati letti da generazioni che le zapatiste e gli zapatisti hanno imparato che se smetti di graffiare la crepa, questa poi si chiude. Il muro si sistema da solo. Per questo devono continuare senza fermarsi. Non solo per allargare la crepa, soprattutto perché non si chiuda.
La zapatista, lo zapatista, inoltre sa che il muro muta aspetto. A volte è come un grande specchio che riproduce l’immagine di distruzione e morte, come se non fosse possibile altro. A volte il muro si dipinge gradevolmente e sulla sua superficie appare un sereno paesaggio. Altre volte è duro e grigio, come per convincere della sua impenetrabile solidità. Il più delle volte il muro è una grande pensilina dove si ripete “P-R-O-G-R-E-S-S-O”.
Ma lo zapatista, la zapatista sa che è una bugia. Sa che il muro non è sempre stato lì. Sa come è nato. Sa come funziona. Conosce i suoi inganni. E sa anche come distruggerlo.
Non gli preoccupa la presunta onnipotenza ed eternità del muro. Sa che entrambe sono false.
Ma ora la cosa importante è la crepa, che non si chiuda, che si allarghi.
Perché anche lo zapatista, la zapatista, sa che cosa c’è dall’altra parte del muro.
Se glielo domandassero, risponderebbe “niente“, ma sorriderebbe come se avesse detto “tutto“.
Durante uno dei cambi, los Tercios Compas, che non sono media, né liberi, né autonomi, né alternativi, né come si chiamino, ma sono compas, interrogano con severità chi sta picchiando sul muro.
“Si dice che dall’altra parte non ci sia niente, perché volete fare una crepa nel muro?”.
“Per guardare”, risponde la zapatista, lo zapatista, senza smettere di graffiare.
“Perché vuoi guardare di là?”, insistono los Tercios Compas che, siccome tutti i media sono andati via, sono gli unici a restare. E per ratificarlo, sulla maglietta portano scritto “Quando i media se ne vanno, rimangono los tercios”.Ovviamente sono di troppo perché sono gli unici che fanno domande invece di battere sul muro con la telecamera o col registratore o con finalmente-so-a-che-diavolo-serve-questo-dannato-treppiede.
Los Tercios chiedono di nuovo, ci mancava altro. E gli è entrato solo in testa, perché il registratore già se n’è andato, della telecamera meglio non parlare, e il treppiede è diventato centopezzi. Quindi ripetono: “E perché vuoi guardare?”.
“Per immaginare tutto quello che si potrà fare domani“, risponde lo zapatista, la zapatista.
Quando la zapatista, lo zapatista ha detto “domani” poteva benissimo riferirsi ad un calendario perso in un futuro a venire. Potrebbero essere millenni, secoli, decenni, lustri, anni, mesi, settimane, giorni… o già domani? dopodomani? domani domani? Ti piace? Non rompere che non mi sono nemmeno pettinato!
Ma non tutti, tutte, sono passati alla larga.
Non tutte, tutti, sono passati ed hanno giudicato assolvendo o condannando.
Sono stati in pochi, molto pochi, così pochi come nemmeno le dita di una mano.
Stavano lì, in silenzio, a guardare.
E sono ancora lì.
Solo di quando in quando proferiscono un “mmm” molto simile a quello dei più antichi abitanti delle nostre comunità.
Contrariamente a quanto si possa pensare, il “mmm” non significa disinteresse o indifferenza. Nemmeno disapprovazione o accordo. È piuttosto un “sono qui, ti ascolto, ti guardo, continua”.
Sono avanti con gli anni questi uomini e donne, “di giudizio” dicono i compas quando si riferiscono alle persone mature, ad indicare che i calendari sfogliati nella lotta conferiscono ragione, saggezza e discrezione.
Tra quei pochi, ce n’era uno, c’è uno. A volte quell’uno si unisce alle partite di calcio che il comando anti muro organizza per continuare a picchiare anche se con un pallone, e poi toccherà alla tastiera della marimba.
Come d’abitudine in quelle partite, nessuno chiede i nomi. Uno o una o unoa non si chiama juan, o juana o krishna, no. È la tua posizione a darti il nome. “Senti portiere! Passala ala! Vai terzino! Dai attaccante!“, si sente tra il frastuono sul campo, con le mucche indignate perché l’andirivieni delle squadre gli rovina il pascolo.
Ai bordi del campo una ragazzina irrequieta tenta di infilarsi un paio di stivali di gomma che, si vede, le stanno grandi.
“E tu, come ti chiami?“, chiede l’uomo alla bambina.
“Io terzina zapatista”, dice la ragazzina e lancia uno sguardo tipo “vattene se non vuoi morire”.
L’uomo sorride. Non ride apertamente. Sorride soltanto.
La ragazzina, è chiaro, sta reclutando elementi per sfidare il perdente.
Sì, perché qua, quando una squadra vince, va a picchiare sul muro. E la squadra che perde continua a giocare, “fino a che ha imparato“, dicono.
La ragazzina ha già una parte della squadra e se ne vanta con l’uomo.
“Quello è l’attaccante”, dice indicando un cagnolino di colore indefinito per le croste di fango e che muove la coda entusiasta. “Se si mette a correre, arriva fino là”, e la bambina indica l’orizzonte nascosto dal muro.
“Basta che non dimentichi il pallone“, dice quasi per scusarsi, “perché corre dall’altra parte; la palla di là ed il cagnolino attaccante di là”.
“Quello è portiere o si dice anche portinaio, credo”, dice ora indicando un vecchio cavallo.
“Il mio compito”, spiega la ragazzina, “è non far passare il pallone, perché lo guardi, è orbo, gli manca l’occhio destro e guarda solo in basso e a sinistra e se il tiro arriva da destra, niente da fare”.
“Beh, ora qui non c’è tutta la squadra. Manca il gatto… o forse è un cane. È molto strano quel-come-si-chiama, è come un cane ma miagola, è come un gatto ma abbaia. Ho cercato nel libro di erboristeria per vedere come si chiama un animale così. Non l’ho trovato. Pedrito ha detto che il Sup ha detto che si chiama gatto-cane.
Ma non bisogna credere a tutto quello che dice Pedrito perché…” la ragazzina si guarda intorno per assicurarsi che non ci sia nessuno che possa sentire e dice al signore in gran segreto “Pedrito tifa per l’América”, poi, con maggior confidenza: “Suo papà tifa las Chivas e si arrabbia. Così litigano e sua mamma li prende tutti e due a ciabattate così si acquietano, ma il Pedrito si mette a parlare della libertà secondo las zapatillas [le pantofole] e non so che altro”.
“Sarà, secondo gli zapatisti”, corregge il signore. La ragazzina lo ignora, ben gli sta al Pedrito, la deve pagare.
“Bene, tu-come-ti-chiami, pensi che il gatto-cane sappia giocare?”.
“Sa giocare”, risponde a sé stessa.
“Siccome il nemico non capisce se è un cane o un gatto, corre di qua e di là e allora, zac! goal! L’altro giorno stavamo quasi vincendo quando il pallone è finito nella montagna ed è arrivata l’ora del pozol e quindi la partita è stata sospesa. Te lo dico, quel gatto-cane come-si-chiami, sa giocare. Quel gatto-cane ha l’occhio giallo”.
L’uomo è rimasto di stucco. La ragazzina ha descritto un colore con le sue manine. L’uomo ha viaggiato per mari e monti, ma non aveva mai incontrato qualcuno che descrivesse un colore con un gesto. Ma la bambina non sta impartendo corsi di fenomenologia del colore, e continua a parlare.
“Adesso però il gatto-cane non c’è”, dice dispiaciuta, “credo che sia andato a farsi prete perché dicono che è andato in un seminario contro il fottuto capitalismo. Tu sai cos’è il fottuto capitalismo? Bene, ti faccio un po’ di lezione di politica. Allora, il dannato sistema non ti morde solo da un lato, ma ti frega da tutte le parti. Il sistema morde tutto, ingoia tutto e si ingrassa. Cioè, per farmi capire meglio, il maledetto capitalismo è senza fondo. Per questo ho detto al gatto-cane di andare a farsi prete in un seminario. Ma non obbedisce. Lei crede che un gatto-cane può farsi prete? No, vero? Nemmeno per quanti goal faccia, e neanche per l’occhio giallo. Tu permetteresti che un gatto-cane, anche se con un occhio giallo, celebrasse un matrimonio? No, vero? Per questo quando io mi sposerò con mio marito non voglio preti, solo in municipio autonomo e poi a ballare, e se no, niente. Solo ufficialmente, perché poi non si sparli in giro. Solo io ed il mio come-si-chiami, e poi devi tenere a bada il marito, perché ‘se fai volare i corvi ti caveranno gli occhi’. Così dice mia nonna che è ormai vecchia ed ha combattuto il primo gennaio 1994. Non sai cosa è successo il primo di gennaio 1994? Allora poi te lo dico con una canzone che racconta tutto. Adesso no, perché tra poco ci tocca giocare e bisogna essere pronti. Ma per non lasciarti in sospeso, ti dico che quel giorno abbiamo detto basta ai maledetti malgoverni, basta con le loro stronzate. Mia nonna dice che è stato grazie alle donne, che se fosse stato per quegli stronzi dei mariti saremmo ancora qui a penare, come quelli che stanno con i partiti. Non so ancora chi sarà mio marito, perché gli uomini sono dei testoni, sapessi. E poi sono ancora una bambina. Ma so che più avanti gli uomini mi guarderanno, ma io sono seria, niente sì e no, niente non so, io so il fatto mio e se quello stronzo di marito vuole solo perdere tempo, allora resto terzino zapatista, gli dò uno scappellotto e lo mando via, perché mi deve rispettare come donna zapatista. E se non lo capisce subito, allora giù a sberle fino a che capisce la lotta di noi donne”.
L’uomo ha seguito attentamente tutta la pappardella della ragazzina. Non così il cagnolino con le croste di fango che gira a zonzo. Né il cavallo orbo che mastica con parsimonia una borsa di plastica eredità degli alunni della escuelita. E dopo tutto questo, l’uomo non ride, è riuscito solo a sbattere le palpebre allo stesso ritmo della sua sorpresa.
“E saremo sempre di più”, sostiene la ragazzina, “sì, saremo sempre di più”.
L’uomo tarda un po’ a capire che ora la ragazzina si riferisce alla sua squadra. Oppure no?
Ma adesso la ragazzina studia l’uomo con sguardo da talent-scout, dopo vari “mmm“, lo interroga “E tu, come ti chiami?“.
“Io?” dice l’uomo sapendo che la ragazzina non sta chiedendo l’albero genealogico, né lo stemma araldico, ma una posizione.
Dopo aver percorso mentalmente varie opzioni, l’uomo risponde: “io mi chiamo raccattapalle“. La ragazzina valuta in silenzio l’utilità di questa posizione.
Dopo averci pensato un po’, dice all’uomo, non per consolarlo, ma perché si renda conto di quanto è importante:
“Raccattapalle, nientemeno. Se il pallone va di là per il bosco, scordatelo, nessuno vuole andarci perché è pieno di spine, cespugli, ragni, perfino bisce. Se poi il pallone va verso il ruscello la corrente se lo porta via, allora bisogna correre per prenderlo, il pallone. Quindi, raccogliere i palloni conta, bene dunque. Senza raccattapalle non può esserci partita. E se non c’è partita, non c’è festa, e se non c’è festa non c’è ballo, e se non c’è ballo mi pettino i capelli con i miei nastri colorati per niente”, dice la ragazzina e dal suo zainetto tira fuori un mucchio di nastri colorati.
“Raccattapalle, nientemeno”, ripete la bambina all’uomo mentre lo abbraccia, non per consolarlo, ma perché capisca che tutto quello che vale la pena fare, si fa in squadra, collettivamente, ognuno ha il suo compito.
“Lo farei io, ma ho molta paura dei ragni e dei serpenti. L’altra notte ho perfino sognato di incontrare una dannata biscia lunghissima nel prato”, ed allarga le braccia fino a dove riesce.
L’uomo sorride.
La partita è finita, la ragazzina non ha completato la squadra per la sfida e si è addormentata sul prato.
L’uomo si alza e la copre con la sua giacca perché il pomeriggio si oscura e già la frescura allevia la terra. Forse perfino pioverà.
Un miliziano sta tornando con i documenti che aveva chiesto la Giunta di Buon Governo. L’uomo aspetta il suo turno.
Finalmente dicono il suo nome e riprende il suo passaporto che sulla copertina riporta l’incisione “Repubblica Orientale dell’Uruguay”. Al suo interno c’è la foto di un uomo con la faccia da “Che diavolo ci faccio qui?” e di fianco si legge “Hughes Galeano, Eduardo Germán María”.
“Senta”, gli chiede il miliziano, “si è messo il nome di battaglia Galeano per il compa sergente Galeano?”.
“Sì, credo di sì”, risponde l’uomo mentre regge dubbioso il passaporto.
“Ah!”, dice il miliziano, “l’avevo immaginato”.
“Dove si trova il suo paese?”.
L’uomo guarda il miliziano zapatista, guarda il muro, guarda le persone che scavano la crepa, guarda i bambini che giocano e ballano, guarda la ragazzina che vuole parlare col cagnolino, con il cavallo orbo e con un animaletto che potrebbe essere un gatto, o un cane, e dice rassegnato: “anche qui”.
“Ah” dice il miliziano, “e lei che cosa fa?”.
“Io?”, cerca di rispondere mentre raccoglie il suo zaino.
E all’improvviso, come se avesse appena capito tutto, risponde sorridendo “Io faccio il raccattapalle”.
L’uomo è già lontano e non riesce a sentire il miliziano zapatista che mormora con ammirazione: “Ah, raccattapalle, nientemeno”.
Raggiunta la sua formazione, il miliziano dice ad un altro: “Ehi Galeano, oggi ho conosciuto uno che si è messo il tuo nome”.
Il sergente Galeano sorride e risponde “ma va!”.
“Sì,”, dice il miliziano, “sennò da dove l’avrebbe preso questo nome quel signore?”.
“Ah”, dice il sergente di milizia e maestro della escuelita Galeano, “e che cosa fa quello?”, domanda.
“Il raccattapalle”, dice il miliziano e corre a prendersi il suo pozol.
Il sergente di milizia Galeano raccoglie il suo quaderno di appunti e lo mette nello zaino mentre dice tra i denti: “Raccattapalle, come se fosse facile. Non è da tutti fare il raccattapalle. Per fare il raccattapalle si deve avere molto cuore, come essere zapatista, e per essere zapatista non è da tutti, anche se qualcuno poi non sa di essere zapatista… fino a che non lo scopre”.
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Forse non mi crederete, ma questo è successo solo pochi giorni fa, alcune settimane, alcuni mesi, alcuni anni, alcuni secoli fa, quando il sole di aprile schiaffeggiava la terra non per offenderla, ma perché si svegliasse.
-*-
Sorelle e fratelli familiari degli Assenti di Ayotzinapa:
La vostra lotta è già una crepa nel muro del sistema. Non lasciate che Ayotzinapa si richiuda. Attraverso questa crepa respirano non solo i vostri figli, ma anche le migliaia di desaparecidas e desaparecidos nel mondo.
Affinché quella crepa non si chiuda, affinché quella crepa diventi ancora più profonda e si allarghi, avrete in noi, zapatiste e zapatisti, una lotta comune: la lotta che trasformi il dolore in rabbia, la rabbia in ribellione, e la ribellione nel domani.
SupGaleano.
Messico, 3 maggio 2015
Traduzione “Maribel” – Bergamo
Il semenzaio – Gustavo Esteva
Il seminario stava per finire. In piena cerimonia di chiusura, sabato 9 maggio, ci è arrivata la notizia della repressione sui compagni di San Quintín. Trovava conferma, nel modo peggiore, ciò che avevamo appena analizzato. Il subcomandante Moisès lo aveva messo in evidenza: forse non abbiamo più il tempo che credevamo di avere. La tormenta si intensifica e ci attacca. Si accumulano le sofferenze. Non siamo ancora guariti da Ayotzinapa, siamo ancora in attesa dei nostri 43, e già succede questo. E questo richiede una reazione immediata, se abbiamo imparato qualcosa nel semenzaio, per trovare il modo di avvertirci, di prenderci cura l’uno dell’altro, di … tessere le nostre storie.
Credo che a nessuno sia tremata la penna o la parola quando si è trattato di descrivere l’orrore. Eravamo carichi di emozione, però anche di rigore analitico e storico. Eravamo riusciti a mostrare, senza ambiguità, molte delle teste dell’idra e anche il modo in cui nel tagliarle se ne moltiplica il numero. Ci era anche chiaro che, nonostante le brillanti, molteplici e solide analisi, siamo ancora molto indietro: abbiamo appena cominciato. Per lo meno, però, è stato possibile stendere il terreno teorico e pratico nel quale poter deporre i semi della conoscenza che abbiamo appreso, per poterlo coltivare, ognuno a modo suo, nei vivai che possiamo aprire ovunque.
Il compito più pressante è chiaro: tornando a casa, senza irresponsabili precipitazioni, ma con la consapevolezza dell’urgenza, dobbiamo moltiplicare i semenzai. Quelli di noi che partecipano a collettivi, ad assemblee, a loro spazi di riflessione, a forme autonome del pensare e dell’agire, devono mettere in comune in esse quello che hanno appreso, sia per avventurarsi sulle nuove strade che si sono aperte, sia per percorrere nuovamente, con rinnovati sguardi, quelle che hanno percorso mille volte. Coloro che non hanno di questi spazi, devono crearne, anche fosse … con due amici o amiche prossimi.
Tra le cose più importanti del semenzaio c’è stata la concordanza puntuale sulla gravità del momento. Dalle posizioni più diverse, in un ampio ventaglio in cui sono state rese evidenti differenze importanti, abbiamo riconosciuto pericoli immensi che gravano su noi tutti, nessuno è escluso.
E si, è stato affascinante. Ma la verità è che all’incontro siamo arrivati inquieti. Che fare di fronte a questa situazione tanto opprimente, minacciosa, immediatamente catastrofica, una condizione che non lascia alcuno spazio all’ottimismo e ne lascia appena un po’ alla speranza?
Continuavamo a farci e rifarci la vecchia domanda, perché sapevamo che le vecchie risposte non funzionano più ma pesano ancora: l’immaginazione si paralizza se vengono abbandonate radicalmente.
Non abbiamo ottenuto una risposta. Ne abbiamo ascoltate molte. E’ questa la natura delle resistenze e delle ribellioni di oggi. Non consistono solamente nell’opporsi a qualcosa, per resistere all’aggressione di una qualsiasi delle teste dell’idra. E’ stato chiaro, per molte e molti dei partecipanti al semenzaio, che l’unico modo efficace di agire è quello di moltiplicare i No, i rifiuti radicali a quello che ci minaccia e ci opprime, e in quella stessa operazione, moltiplicare i Sì, i diversi modi di costruire il mondo nuovo.
Credo che molte e molti di noi abbiano imparato anche una lezione essenziale: non avvinghiarsi a una posizione su ciò che potrebbe essere meglio.
Molte volte, nelle parole ripetute del subcomandante Moises, gli zapatisti ci hanno tolto la voglia e la capacità di idealizzarli e ci hanno fatto capire che non dobbiamo nemmeno imitarli. Era necessario sottoporci a questa operazione quasi chirurgica. L’emozione di essere nel territorio zapatista, l’impronta che la escuelita ha lasciato in tanti partecipanti, le gesta di questi 30 anni, la vitalità di un’iniziativa che sembra essere la più radicale e importante al mondo, e persino il fatto stesso che gli zapatisti ci abbiano convocato questo semenzaio con il loro tradizionale senso della opportunità politica, tutto questo portava a una perdita del senso della realtà. Anche fosse stato possibile e sensato riprodurre questa esperienza tale e quale, ciascuno nei suoi territori, non abbiamo più il tempo che hanno avuto loro.
Una delle sfide più difficili, tra le tante che ci portiamo a casa, è quella di condividere queste riflessioni e perfino il senso dell’urgenza con compagni e fratelli che sembrano distratti, che non percepiscono né sentono la gravità del momento attuale, che hanno ancora speranze che le cose tornino alla normalità e che, per questo, possano aggrapparsi ancora ai percorsi abituali. Come trovare le parole semplici che consentano di condividere senza offendere e di aprire al risveglio le altre menti e gli altri cuori con i quali abbiamo bisogno di diventare fratelli?
Portiamo un gran peso sulle spalle. Ma sono spalle rinnovate e piene di coraggio. Possiamo camminare e persino andare al trotto con questo nuovo peso.
Fonte: la Jornada traduzione per Comune-info: Camminar domandando