In memoria di due antifascisti
Le vite parallele di Ferruccio Manea detto Tar e di Ferrer Visentini
di Gianni Sartori
Quindici anni fa, quasi nello stesso giorno (rispettivamente 9 e 11 febbraio 2001), se ne andavano due tra i maggiori esponenti dell’antifascismo militante nel vicentino: il Tar, Ferruccio Manea, a 86 anni; Ferrer Visentini a 90 anni.
Quella della morte quasi sincronica non è stata l’unica coincidenza. Le loro vite in qualche modo si erano già incrociate.
Nato a Trieste, Ferrer Visentini (il nome gli era stato in memoria del pedagogista libertario fucilato a Barcellona nel 1909) mi aveva raccontato con partecipazione, direi anche con orgoglio, di aver conosciuto il fratello maggiore del Tar, Ismene Manea, destinato a perire tragicamente nel 1944 per mano dei nazisti. Avevano combattuto fianco a fianco come volontari internazionali in difesa della Repubblica contro i franchisti (fronte di Caspe e battaglia dell’Ebro).
Sia Ferruccio che Ferrer parteciparono attivamente alla Resistenza ma in seguito i loro destini personali erano stati diversi: il Tar quasi emarginato per il suo “estremismo” (tacciato a volte di “anarchismo”); Visentini rispettato militante del Pci e consigliere comunale dal 1956 al 1970.
Il saluto al Tar lo avevano dato gli antifascisti dell’Alto Vicentino al Circolo Operaio di Magrè di Schio mentre Ferrer Visentini era stato ricordato nella storica Loggia del Capitanio, in piazza dei Signori. Le note dell’«Internazionale» e di «Bella ciao» avevano accompagnato l’ultimo viaggio di entrambi.
FERRUCCIO MANEA, nome di battaglia “TAR”
Del comandante della “Brigata Ismene” – citato ripetutamente dal compaesano Luigi Meneghello, sia in «Libera nos a Malo» che in «I Piccoli Maestri» (*) – conservo una serie di ricordi personali, un collage di incontri e conversazioni, a volte casuali, altre più approfonditi. E tante immagini fugaci di iniziative a cui entrambi abbiamo partecipato. Sia le manifestazioni organizzate a Schio da Lotta Continua (in particolare quelle contro il golpe cileno) che le riunioni nella sede del Gruppo anarchico operaio (GAO) di Marano Vicentino tra il 1973 e il 1974.
Nel 1974 toccò al Tar tenere l’orazione funebre per il “Borela”, un vecchio antifascista che egli considerava suo maestro. Personalmente avevo potuto incontrare questo anarchico scledense soltanto pochi mesi prima, all’ospizio di Schio dove regolarmente i giovani anarchici dell’Alto Vicentino si recavano a visitarlo. Ricordo che anche l’ultima volta, ormai costretto a letto, si preoccupava di devolvere una parte cospicua della sua esigua pensione a qualche prigioniero politico (in particolare a Giovanni Marini) e a sostegno di «Umanità nova», giornale anarchico fondato da Errico Malatesta nel 1920.
Arrivai appena in tempo per raccogliere qualche testimonianza, poi ampliata dallo stesso Tar, sui precedenti libertari in zona: la visita di Pietro Gori (l’autore di «Addio Lugano Bella») per l’inaugurazione della prima Camera del lavoro nel vicentino di ispirazione anarcosindacalista; le barricate sulla strada che collega Vicenza con Schio per sbarrare il passo ai fascisti messi poi in fuga a pistolettate da un gruppo di Arditi del Popolo (tra cui il Borela); la partenza forzata per l’Australia di una decina di famiglie di noti militanti anarchici dopo che per loro era ormai diventato impossibile trovare lavoro negli stabilimenti della zona.
Il corteo che accompagnò, a piedi, il Borela dalla camera ardente dell’ospizio verso il cimitero era composto, oltre che dai familiari, da una cinquantina di compagni: partigiani delle Brigate Garemi, esponenti dell’Anpi, anarchici da tutta la provincia, qualche militante di Lotta Continua e di Lotta Comunista. Numerose le bandiere nere (con l’A cerchiata rossa) e quelle rosse e nere (tipo CNT e USI). Sventolava anche una in odor d’eresia: rossa con l’A cerchiata nera. Ferma nella memoria l’espressione intensa del Tar, col volto tirato, direi livido. Conclusa l’orazione funebre per il Borela, nel silenzio totale pronunciava quasi un ordine: “Saluto, compagni!”. E decine di pugni chiusi si alzarono, ecumenicamente, senza distinzioni ideologiche, mentre la bara del vecchio Ardito del popolo scendeva nella terra.
Un altro ricordo, risalente al marzo 1985: il Tar al corteo di Padova indetto per protestare contro l’uccisione a Trieste di un esponente dell’Autonomia padovana (“Pedro” a cui venne poi intitolato uno dei più noti Centri sociali del nord-est). In seguito lo incontrai a Bassano (dove avevo portato una mostra contro l’apartheid, mi pare nel 1987) in occasione dell’incontro-dibattito con un responsabile in esilio del Pan African Congress (PAC, organizzazione dei Neri del Sudafrica, seconda solo a quella di Mandela, l’African National Congress, ANC). Da qualche parte dovrei conservare ancora i negativi delle foto che immortalavano il vecchio combattente antifascista insieme a due esponenti della lotta (anche armata) contro il razzismo istituzionalizzato di Pretoria, non a caso denominato “Quarto Reich”. Una continuità e un passaggio del testimone non soltanto ideali. Lo rividi ancora, sempre nel 1987, ai funerali del partigiano Alberto Sartori “Carlo”. Una scena che non avrebbe sfigurato nella Piazza Rossa, tra decine di bandiere rosse mentre cadeva la neve imbiancando sia la bara che il colbacco del Tar.
In seguito mi ero ripromesso di tornare a intervistarlo, di telefonargli, ma come spesso accade, rinviai la cosa di mese in mese, di anno in anno e non lo rividi più.
Invece nei primi anni settanta capitavo spesso a casa sua (e solitamente senza preavviso, forse anche in modo inopportuno, però mai che mi abbia mandato a quel paese). Prima a Malo, poi nella casa colonica in aperta campagna dove si era trasferito. Passavo in bici, talvolta in moto, magari dopo un’arrampicata in Pasubio o un’escursione in Val d’Astico, Rio Freddo, Posina. Sempre ospitale, davanti a un bicchiere di rosso, se interpellato il Tar riandava volentieri alle sue avventure partigiane tra gli stessi monti. Del Pasubio mi resta la intensa descrizione di un cruento scontro a fuoco tra il Palon e il Dente austriaco. Ma soprattutto il fatto che Ferruccio, a guerra finita, fosse ritornato decine di volte fra quelle pietraie sfregiate dalle trincee per ritrovare e recuperare i corpi dei compagni caduti.
Altre volte ci avvinceva descrivendo in dettaglio i mille espedienti messi in atto per sopravvivere durante le gelide notti, soprattutto quelle passate in gran parte all’addiaccio durante il primo inverno. Con una tecnica che ricordava il film «Corvo Rosso non avrai il mio scalpo» (“Jeremy Johnson”) mettevano grosse pietre a riscaldare sul fuoco e poi le seppellivano ricoprendole con uno strato di terra. Si stendevano quindi a dormire e se il lavoro era stato ben eseguito potevano sperare di dormire fino al mattino successivo mentre le pietre rilasciavano lentamente il calore accumulato. Accadeva talora che lo strato di terra fosse troppo sottile e in questo caso rischiavano bruciature, ustioni o un principio di combustione degli abiti. Se invece lo strato era troppo spesso, il calore finiva rapidamente e ci si risvegliava indolenziti e tremanti per il freddo nel cuore della notte.
Questo avveniva per esempio in Val d’Assa, destinata a diventare tristemente celebre per l’eccidio di Pedescala e di Forni operato dai nazifascisti nel ’45. Sempre in Val d’Assa (sinistra orografica della Val d’Astico) si svolse un episodio che il Tar ricordava con rabbia. Si trovava in ricognizione con altri due partigiani e si era allontanato da solo per controllare un sentiero quando il silenzio del bosco venne infranto da grida e lamenti. Provenivano dalla radura dove aveva lasciato i compagni. Arrivato sul posto trovò uno dei due agonizzante; rantolando pronunciò le sue ultime parole: “Tar, tradimento!” e indicò la direzione verso cui l’altro (evidentemente una spia, un infiltrato) si era dileguato. Ferruccio si pose all’inseguimento e, ormai allo sbocco della valle, scorse il fuggitivo in lontananza. Forse fu il dolore per il compagno vilmente assassinato, forse il desiderio di vendicarlo (sembra che “Tar”, nome conferitogli da Alberto Sartori, significasse proprio “Vendetta”) fatto sta che nonostante la distanza riuscì a colpire, ma solo con il secondo colpo, l’infame. Dopo questo fatto, temendo di essere stati ormai individuati, i partigiani decisero di trasferirsi verso Posina (destra orografica della Val d’Astico). Si accinsero quindi ad attraversare nottetempo la vallata che separa le pendici dell’Altopiano di Asiago da quello di Tonezza, dal Pria forà, dal Summano… Nonostante ogni accorgimento, i loro movimenti non sfuggirono ai numerosi cani presenti nelle contrade tra Cogollo e Arsiero e nella notte si levarono ripetutamente ululati e latrati che avrebbero potuto mettere sull’avviso i fascisti. Riuscirono comunque ad arrivare (“a passo di marcia”) indenni prima dell’alba a Castana e da qui a Posina. Anche se la storiografia non vi ha dedicato molte pagine, si può legittimamente sostenere che in queste valli, per qualche mese, si organizzò una vera e propria Repubblica partigiana, stroncata soltanto dal grande rastrellamento del 1944.
Proprio sopra Posina e Laghi (separate da un rilievo di modeste dimensioni) si erge il Monte Maggio, da cui è ben riconoscibile Malga Zonta dove un folto gruppo di partigiani (tra cui Bruno Viola, il “marinaio”) venne fucilato dai tedeschi dopo che avevano strenuamente combattuto fino all’esaurimento delle munizioni. A Laghi invece è stato recentemente restaurata la lapide, posta vicino a un capitello, per il partigiano Vitella morto “in difesa del popolo” durante lo stesso rastrellamento; curiosamente la scritta è sia in italiano che in latino. Tutte queste vittime del nazifascismo erano state compagni di lotta del Tar che, anche a distanza di tanti anni, li ricordava con sincera commozione. Ricordava anche, con gratitudine, il cane che gli era stato vicino in tutte le vicissitudini della Resistenza e a cui, diceva, doveva anche la vita per tutte le volte che lo aveva avvisato anticipatamente di un possibile pericolo.
La vita non era mai stata tenera con il Tar, un operaio autodidatta che aveva cominciato a lavorare duramente in tenera età. Fu perseguitato dal fascismo e perse il fratello maggiore, Ismene, in circostanze drammatiche. Ismene Manea, muratore comunista emigrato in Francia, aveva combattuto in Spagna con le Brigate Internazionali fin dal 1936, prima nella formazione “Picelli” e poi nella “Garibaldi”. Venne fatto prigioniero dai franchisti nella battaglia dell’Ebro (settembre 1938) e da questi consegnato alla polizia italiana. Inviato al confino a Ventotene, dopo la caduta del fascismo, dall’autunno 1943 partecipò attivamente all’organizzazione del movimento partigiano nel Veneto. Il 6 luglio 1944 venne catturato da un gruppo di ucraini al servizio dei tedeschi. Torturato in maniera orribile, sarà fucilato il 12 luglio insieme a Giovanni Penazzato. Esistono le immagini, riprese coraggiosamente da un improvvisato operatore nascosto nel palazzo di fronte, del trasferimento dalla Caserma Cella di Schio al luogo dell’esecuzione. Appena saputo della cattura di Ismene, il Tar cercò invano di organizzare una formazione abbastanza numerosa da poter assalire la caserma dove il fratello era rinchiuso. Purtroppo era appena arrivato l’ordine di sganciarsi e di trasferirsi altrove in piccoli gruppi; quindi la maggior parte dei partigiani scledensi si trovava nell’impossibilità di essere allertata. La formazione fu in grado di ricostituirsi soltanto dopo alcuni giorni, troppo tardi per liberare i prigionieri. Successivamente la Brigata del Tar venne denominata “Brigata Ismene”. A questo dolore si aggiunse, proprio nei giorni della Liberazione, la morte prematura del figlio. Un solo rimpianto: non aver preso il mitra per procurarsi, armi alla mano, le indispensabili medicine dove si trovavano in abbondanza, nell’infermeria dell’esercito statunitense a cui si era rivolto invano. (**)
Nonostante tutte queste amarezze, negli anni successivi il Tar fu sempre lucidamente a fianco dei movimenti di lotta e contestazione, stimato e amato da varie e successive generazioni di giovani antagonisti. Lo ricordano ancora tutti coloro che in momenti e con metodi diversi hanno lottato contro lo “stato di cose presente” (e magari anche futuro): dalla Resistenza al ’68, dalla “breve estate dell’Autonomia” ai Centri sociali… E lo ricordano con le immagini fortunosamente riprese durante la “battaglia di Schio”, mentre corre attraverso una faggeta, piegato in avanti, colbacco ben calcato, pistola nella destra e arma automatica a tracolla… all’assalto del cielo.
(*) «…c’è una società da smontare, pensavo, e forse questa è la volta buona…La società non è stata smontata, però: dopo la guerra l’uomo col berretto di pelo tornò in prigione, e io dico che è una bella vergogna»: Luigi Meneghello in «I Piccoli Maestri»
(**) «…ah la liberazione: fu un giorno tremendo. Non potendo comprare la penicellina mio figlio l’ho visto morire mentre chi aveva il denaro quelli hanno sopravvissuto, mentre mio figlio è venuto a morire, il mio primo figlio, che aveva già sofferto scappando qua e là. Mai potrò perdonare questa infame società… io ero pieno di miseria tanto è vero che quando è morto mio figlio alla liberazione non avevo neanche diocan quelle 20 mila lire da prendere la penicellina che veniva venduta al mercato nero, così chi che gavea denaro, i figli dei ricchi oppure anche i vecchi che oramai avevano fatto una esistenza, avevano la possibilità di prendere la peniccellina e hanno protratto la loro vita ancora per altri mesi o qualche anno, mio figlio invece che era nel fiore della vita, perché non avevo una manciata di vile denaro da comprare questa penicellina, mi è morto proprio alla Liberazione, subito dopo la liberazione quando tutti inneggiavano alla libertà ed erano tutti felici, alla vittoria insomma, io purtroppo ho conosciuto una delle più grandi amarezze, per non avere questo denaro per comprare la penicellina. Così voglio dire che non perdonerò mai a questa società diocan». (dai ricordi del Tar registrati da A. Galeotto)
«Purtroppo solo la somministrazione di penicillina, venduta allora al mercato nero avrebbe potuto strapparlo alla morte… ma noi non disponevamo di tanto denaro. E pensare che appena una decina di giorni prima mio marito, che aveva nomea di “ladro di galline”, alla testa di un reparto della Brigata da lui comandata aveva ritrovato a Longa di Schiavon ciò che molti cercavano in quelle ore: il tesoro della sinagoga di Firenze trafugato dai nazisti in ritirata. Si trattava di una quarantina di casse ricolme di opere d’arte di inestimabile valore, che mio marito avrebbe potuto dichiarare “preda bellica” ma che preferì invece restituire immediatamente alla comunità ebraica». (Alessia Giustina, moglie del Tar)
FERRER VISENTINI, in Spagna per la Libertà
Ferrer Visentini era nato a Trieste nel 1910. Il padre Ulderico, un calzolaio prima socialista e poi tra i fondatori del Partito comunista a Trieste, venne assassinato dai fascisti nel 1922. Gli aveva dato questo nome in memoria di Francisco Ferrer i Guardia, famoso pedagogista anarchico catalano fucilato l’anno prima, il 13 ottobre 1909 a Barcellona. Nativo di Trieste si considerava ormai pienamente vicentino avendo vissuto nella nostra città per molti anni in qualità di membro dirigente del Pci prima e del Pds poi.
In anni ormai lontani lo avevo intravisto nell’antica sede comunista vicentina (anche insieme a Sartori Antonio, altro operaio comunista volontario in Spagna) e poi meglio conosciuto alla presentazione di una sua preziosa pubblicazione sui volontari vicentini nella Guerra civile spagnola («In Spagna per la libertà» Edizione ANPI Provincia di Vicenza). Fu in quella occasione che parlammo di Ismene Manea la cui foto segnaletica è riprodotta a pagina 48. Fra i partecipanti, il poeta Fernando Bandini, autore della prefazione, Eugenio Magri, giovanissimo gappista durante la Resistenza, Gino Morellato che dopo aver combattuto nelle Brigate internazionali partecipò alla Resistenza francese raggiungendo il grado di capitano dei Ftp (Francs-tireurs et partisans, il movimento di resistenza interna francese creato ancora nel 1941 dal Parti communiste francais, Pcf)
Lo rincontrai un paio di volte verso la metà degli anni novanta riportandone questa intervista. Troppo breve per riassumere in modo esauriente una vita tanto avventurosa ma forse in grado di delineare la personalità di un “rivoluzionario di professione” del secolo scorso.
- Innanzitutto qualche cenno biografico…
«Provengo da una famiglia di socialisti, mio padre, un calzolaio con la terza elementare, fu uno dei fondatori del Partito Comunista d’Italia a Trieste. Mi chiamò Ferrer per un motivo ben preciso, un mio fratello fu chiamato Darwin, un altro Giordano Bruno… Nel 1926 mi iscrissi alla gioventù comunista cominciando molto presto a svolgere attività clandestina. Diffondevo materiale propagandistico in città e nei cantieri navali. Nell’ottobre del 1930 venni chiamato dalla direzione nazionale giovanile a dirigere l’attività clandestina in Lombardia. Per questo sfuggii all’arresto al momento della caduta dell’organizzazione giovanile a Trieste e, sempre nel ’30, venni inserito tra i latitanti ricercati dalla polizia politica. A Milano, con documenti falsi, resistetti pochi mesi. Venni arrestato il 21 gennaio 1931 in seguito a una retata a Sesto San Giovani».
Cosa è poi successo? Il carcere, il confino…?
«Il carcere di sicuro. Sono stato processato dal Tribunale speciale e condannato a nove anni di reclusione per ricostituzione del Partito Comunista. Fui inviato prima a Lucca, dove rimasi dal ’31 all’estate del ’33 e poi a Civitavecchia, dove vennero concentrati i politici. Venni amnistiato nell’ottobre del ’34 per la nascita del figlio del re. Ritornai a Trieste in libertà vigilata e nel maggio ’35 scappai riprendendo l’attività clandestina. Ma mi andò male, venni ripreso e inviato al confino per due anni, dal ’35 al ’37, a Ponza. Il 24 maggio 1937 espatriai clandestinamente con un passaporto falso fornitomi dal partito e arrivai a Parigi il 27 maggio. Un ricordo direi sconvolgente risale all’ultima domenica di maggio quando partecipai alla grande manifestazione in memoria dei trentamila comunardi trucidati nel maggio 1871. Un milione di persone percorse i boulevards inneggiando alla memoria della Comune e in difesa della Repubblica spagnola. A Parigi collaborai con Ruggero Grieco (segretario del partito comunista) alla redazione di «Lo Stato Operaio».
Io avrei voluto andare subito in Spagna dove era già in corso lo scontro armato fra i repubblicani e i franchisti, ma il partito non era d’accordo. Raggiunsi ugualmente la Spagna nel dicembre 1937 con Giuseppe Boretti che avevo conosciuto a Ponza e che era riuscito a fuggire dalla compagnia militare di disciplina di stanza a Ponza, riparando a Parigi. Questo compagno morì durante la battaglia dell’Ebro. Dopo un periodo di addestramento militare che mi fu molto utile poiché non avevo fatto il soldato in Italia, a Quintenar de la Republica, venni assegnato al IV Battaglione della Brigata Garibaldi. Qui svolsi mansioni di responsabilità del partito».
Quel periodo segnò il ripiegamento dei repubblicani…
«I franchisti, grazie al consistente aiuto di fascisti e nazisti, erano all’offensiva su tutti i fronti. Ruppero il fronte a Caspe e avanzarono fino al mare, tagliando in due parti il territorio della Repubblica. Il nostro comando dispose il trasporto immediato verso la Catalogna di tutti gli organici dei centri di addestramento delle formazioni internazionali che si trovavano nella provincia di Albacete. Ci ricongiungemmo con le rispettive unità militari e assieme ad altre unità spagnole prendemmo posizione lungo l’Ebro. La situazione era molto grave: l’esercito repubblicano era diviso in due tronconi. Inoltre eravamo nettamente inferiori nell’aviazione, nell’artiglieria pesante e leggera e nei carri armati; potevamo competere solo nell’armamento leggero. Fu una battaglia durissima. Noi della Brigata Garibaldi entrammo in azione il 3 settembre, prendendo posizione sulla Sierra Caballs (*) dove rimanemmo fino al 24 settembre. Furono 24 giorni di duri e continui combattimenti con gravissime perdite che raggiunsero l’ottanta per cento degli effettivi. Complessivamente la battaglia dell’Ebro durò tre mesi e mezzo, dal 25 luglio al 16 novembre con perdite complessive, calcolando entrambi gli schieramenti, di oltre 250mila tra morti, dispersi e feriti».
E dopo la Spagna, l’Italia?
«Non subito ovviamente. Nel dicembre del ’38 con Italo Nicoletto rientrai in Francia. A Parigi continuai a lavorare nell’organizzazione dei volontari antifascisti di Spagna e collaborai al quotidiano “Voce degli Italiani”. Ma lo scoppio della guerra e l’invasione del territorio francese da parte dei tedeschi mi costrinsero a rientrare nella clandestinità. Svolsi il mio lavoro politico tra i migranti con il Pcf (**). Nel giugno del 1941 venni arrestato dalla Gestapo e inviato al campo di sterminio KZ delle SS a Compiegna dove rimasi fino all’agosto del ’44. Con l’avanzata alleata, durante il trasferimento degli internati in Germania, riuscimmo a evadere con l’aiuto dei partigiani francesi. Dei quattromila che eravamo solo trecento erano riusciti a sopravvivere. Rientrai poi in Italia giusto in tempo per partecipare alla fase finale della lotta di liberazione a Torino. In seguito la vita e gli incarichi mi portarono stabilmente a Vicenza».
(*) Sierra Caballs e Pandols, una catena collinare, costituirono quel “fronte di Gandesa” ricordato in una versione della famosa canzone repubblicana: Si me quieres escribir / ya sabes mi paradero: / en el frente de Gandesa, / primera línea de fuego
(**) da ricerche successive penso di poter affermare che Visentini ebbe modo di collaborare con il Moi (Main-d’oeuvre immigrée, organizzazione sindacale dei lavoratori immigrati della Cgtu – Confédération gènéral du travail unitaire) che aveva attivamente sostenuto la Repubblica spagnola (anche con la partecipazione di suoi membri alle Brigate Intenazionali) e forse anche con il primo Ftp-Moi (Francs-tireurs et partisans–Main-d’oeuvre immigrée) sorto nel 1941. Del Ftp-Moi è nota la vicenda dell’Affiche rouge, un manifesto stampato dai nazisti nel 1943 con le foto di 23 membri del Ftp-Moi poi fucilati. Il gruppo era guidato dal poeta armeno Missak Manouchian. I nazisti cercavano, peraltro invano, di alimentare l’ostilità dei francesi nei confronti della Resistenza mostrando come a questa partecipassero molti stranieri immigrati (italiani, spagnoli, armeni…) e molti ebrei.
NOTA DELLA REDAZIONE: di Ftp-Moi e di Missak Manouchian varie volte si è parlato in “bottega”. La vignetta di Mauro Biani è stata scelta dalla redazione
Solo una piccola, ma indispensabile, precisazione: il nome dell’antifascista anarchico scledense “Borela” era Carlo Marchioro (vedi articolo sul TAR)
GS