In memoria di Maurizio Giaron, morto di guerra in tempo di pace
Una storia di fabbriche di armi, di “omicidi bianchi”, di omertà e di lotta
di Gianni Sartori
Giorni fa su un quotidiano locale è apparsa la notizia della morte di una anziana imprenditrice bassanese. Ricordo doveroso, come per ogni dipartita. Eppure qualcosa non mi quadrava. Il nome dell’azienda non mi era nuovo e avevo l’impressione che tra elogi e riconoscimenti all’attività sua e del marito mancasse qualcosa. Brutta bestia la “memoria storica”. Anche quando pensi di aver dimenticato o rimosso, il tarlo ritorna e scava. Così sono riandato a quei giorni del 1987 quando avevo raccolto la denuncia di alcuni compagni dell’Alto Vicentino che avevano manifestato ripetutamente contro quella che senza eufemismi avevano chiamato una “fabbrica di morte”.
La tragica fine di Maurizio Giaron, avvenuta nella fabbrica d’armi Remie, risaliva al 3 ottobre 1985 ma l’opinione pubblica cominciò a sentirne parlare con una certa insistenza solo due anni dopo, nel 1987. Il 15 maggio di quell’anno si tenne la prima manifestazione di protesta davanti ai cancelli della fabbrica, protetta dal filo spinato elettrificato, da una ventina di sorveglianti e da quasi altrettanti cani da guardia. Si denunciava questa “produzione di morte” e i suoi traffici con il Sudafrica razzista e nella guerra Iran-Iraq. Inoltre i manifestanti protestavano per il modo ignobile con cui sulla morte di Maurizio si era steso un velo di omertà. Anche da parte di chi, come il sindaco, avrebbe dovuto denunciare con forza il fatto. Invece niente, neanche un minuto di sciopero. La fabbrica sorgeva nei pressi di Rossano Veneto ma in comune di Rosà. Qui dal dopoguerra operava una polveriera che ebbe varie gestioni, ultima quella dei Gasparotto. I genitori di Maurizio Giaron mi avevano spiegato come all’epoca il personale fosse «composto da qualche decina di lavoratori. Operavano non solo con la paura dei materiali che maneggiavano (esplosivi, bombe, detonatori…) ma anche con quella di perdere il posto di lavoro in quanto i proprietari (Gasparotto, n.d.r.) usavano minacciare di continuo il licenziamento». Si sapeva con certezza che in questa polveriera, nonostante avesse solo la licenza di scaricare ordigni e residuati bellici, si costruivano bombe che poi venivano regolarmente inviate a entrambi i contendenti della guerra Iran-Iraq, realizzando ingenti guadagni. Così parlava la madre, Regina Piovesan: «Uno dei dipendenti era nostro figlio, di 23 anni. Un giorno lo mandarono da solo in un cortile a smontare materiali esplosivi che servivano da espulsori dei sedili di aereo. Tali cariche esplosive erano disposte in casse munite di cartelli regolamentari con su la dicitura “materiale altamente pericoloso. Da manomettere soltanto da parte di personale altamente qualificato». Ossia da artificieri. Da queste casse i cartellini erano stati tolti. «Nostro figlio, che era stato assunto e lavorava in qualità di manovale, ignaro del pericolo, fu investito dallo scoppio di una di quelle vere e proprie bombe e morì nel giro di qualche ora. Fu aperta una inchiesta che i Gasparotto riuscirono a far insabbiare; anche quello che doveva essere il nostro avvocato di fiducia fece scadere i termini legali a nostra insaputa». Avevo chiesto alla moglie di Maurizio, Antonella, che all’epoca aveva solo vent’anni (erano sposati da nove mesi) da che cosa fosse stata determinata la scelta di Maurizio di lavorare alla Reime, se avesse espresso qualche preoccupazione per i rischi possibili… «Non si può parlare certamente di una scelta ma piuttosto di un ripiego dopo mesi di inutile ricerca di un posto di lavoro. Mio marito aveva studiato fino alla quarta geometri ma non aveva concluso e senza diploma non trovava nessuno disposto ad assumerlo. Maurizio pur di lavorare si sarebbe accontentato di un posto qualsiasi ma purtroppo l’aveva trovato soltanto in quella fabbrica maledetta. Io mi accorgevo che si preoccupava per quella situazione. Diceva sempre: “Faccio il peggior lavoro che esista” e poi spiegava: in una fabbrica di armi, “di bombe” sottolineava. E questo glielo sentivo ripetere spesso quando ne parlava con altri. Con me non lo dichiarava quasi mai esplicitamente perché ogni volta io lo scongiuravo di cambiare lavoro. Ma lui rispondeva “E dove lo trovo un altro lavoro?”. Maurizio aveva chiesto dappertutto ma sembrava veramente difficile, quasi impossibile. Poco tempo prima della sua morte era capitato a un suo amico un piccolo incidente senza conseguenze (era scoppiata una spoletta) ma che aveva rinnovato le mie paure. In quella occasione lo avevo supplicato di rimanere a casa, di non tornare in quella fabbrica. Anche lui aveva paura, più di quanto mi lasciasse intuire. Ogni sera, quando usciva da quei cancelli, ripeteva: “Ringrazio Dio che anche oggi sono vivo”. Ma questo io l’ho saputo solo dopo la sua morte. A me non lo diceva, temeva che mi preoccupassi ancora di più. Sapeva che avevo già tanta paura perché lui era la cosa più importante della mia vita e non auguro a nessuno di provare quello che io sto provando ancora oggi, a distanza di tanto tempo. Anzi quello che abbiamo provato tutti, in particolare i suoi genitori. Era il loro unico figlio ed era una persona che non meritava questa morte orribile».
Allora le chiesi quale fosse stato l’atteggiamento dei proprietari della Remie dopo la tragica morte di Maurizio. «Praticamente tutto l’interessamento e l’aiuto da parte dei proprietari si è limitato ad una lettera di condoglianze inviatami dalla madre del titolare Gasparotto, in cui mi diceva che evidentemente questa era la volontà divina, che ormai mio marito era in cielo e che mi era vicino: tante parole per poi concludere che “se avevo bisogno” lei abitava in via Roma 60. Non so di quale “bisogno” parlasse e comunque io con loro non ho mai voluto avere rapporti anche se hanno raccontato falsamente di esserci stati vicini e di averci “pagati”. Sostengo invece che hanno mostrato soltanto tanta indifferenza e cattiveria: come quando i compagni di mio marito hanno deposto un mazzo di fiori sul luogo dove è accaduto il fatto e loro (dopo il 3 ottobre dell’85, quando Maurizio era stato mandato all’estremo limite del cortile della fabbrica, da solo, a compiere un lavoro altamente pericoloso come quello di scaricare il propulsore per l’eiezione dei seggiolini di aerei militari n.d.r.) impietosamente lo hanno fatto togliere. Io penso che non ci si comporta così di fronte alla morte di un ragazzo di 23 anni, sposato da nove mesi. Inoltre non ritennero opportuno sospendere il lavoro nemmeno per un’ora di lutto, niente. Dopo soli due mesi hanno fatto normalmente la festa di Santa Barbara, protettrice degli artificieri. Certamente per loro Maurizio era uno qualsiasi, soltanto uno dei loro operai, ma io penso che un essere umano non dovrebbe comportarsi così cinicamente».
Dopo la morte di Maurizio dovevano passare quasi due anni prima che scoppiasse il caso della ora Remie-Junghans. Una nuova denominazione. Infatti la Remie aveva affittato bunker e capannoni alla nota multinazionale. La convivenza era ottima al punto che spesso le due ditte si prestavano anche gli operai, divenendo in pratica una sola fabbrica. Le due aziende occupavano rispettivamente 80 dipendenti. La Junghans era già famosa per le sue spolette e i suoi traffici con i razzisti di Pretoria, ampiamente documentati a suo tempo dalla rivista Nigrizia. Come venne poi confermato da un’inchiesta, la Junghans era anche in ottimi rapporti con le aziende del gruppo Borletti (quelle della Valsella) e non era raro che a Rosà arrivassero commesse per timer e spolette.
Campagna antiapartheid nell’Alto Vicentino
In relazione alle prime campagne antiapartheid, per il boicottaggio nei confronti del Sudafrica, nel bassanese viene a crearsi un movimento “contro le produzioni di morte” della Remie-Junghans, considerata complice del regime di Botha. Tra l’altro questo movimento riuscì a far riaprire l’inchiesta sulla morte di Maurizio. Un appello in tal senso viene sottoscritto da una quarantina di medici, tra cui Paolo Benciolini dell’Istituto di medicina legale e Giuseppe Giuliani, primario della divisione chirurgica dell’ospedale di Cittadella, dove era morto il giovane operaio. Evidentemente non tutti erano convinti che si trattasse di una “tragica fatalità”. Secondo gli esponenti dell’Assemblea di lotta contro la Remie-Junghans questi «incidenti, assai numerosi se si parla di circa 40 morti dal dopoguerra, sono in diretto rapporto con la mancanza totale di norme di sicurezza, la discrezionalità assoluta di assunzioni e licenziamenti, la mobilità selvaggia (tra le due fabbriche, n.d.r.)». Pochi giorni dopo si registrava una seconda manifestazione (10 giugno 1987, giusto 30 anni fa) e l’Ufficio Istruzione del Tribunale di Padova formalizzava la riapertura dell’inchiesta per la morte sul lavoro dell’operaio Maurizio Giaron.
La stessa inchiesta che si cercò nuovamente di insabbiare nel 1992. Dopo averli rintracciati, a distanza di anni, ho chiesto ad alcuni esponenti della “Assemblea” perché a suo tempo si fossero accaniti in particolar modo contro la Remie. In fondo era solo una delle tante fabbriche del genere… Risposta: «Per noi la situazione della Remie-Junghans era emblematica; sia per i livelli di sfruttamento che per tipologia della produzione, dato che era inserita in un sistema militarista e che era direttamente in rapporto con il regime sudafricano. Naturalmente non è stata l’unica (in quel periodo la Remie aveva chiuso, almeno temporaneamente n.d.r.): nel solo Triveneto le fabbriche di questo tipo si contavano a decine ma in genere era difficile avere una chiara visione del problema». Invece «delle fabbriche di Rossano si era parlato dopo la morte di Maurizio Giaron e questo “omicidio bianco” aveva portato a conoscenza dell’opinione pubblica la vera natura dell’attività che si svolgeva dietro quei fili spinati… Diciamo che per noi è stato giusto individuare nella Remie-Junghans tutta la negatività della produzione di armamenti. Questa resta una questione di principio, al di là delle dimensioni della fabbrica e della consistenza numerica degli addetti».
E, a proposito di addetti, come vi eravate rapportati con il problema di garantire il posto di lavoro agli operai? «Innanzitutto non dimentichiamo che in queste due fabbriche le garanzie del posto di lavoro erano già blande per conto loro… La Remie non ha poi chiuso per causa delle nostre manifestazioni. Erano anni che entrambe facevano cassa-integrazione… Una parte dell’Assemblea per esempio aveva proposto ancora nel 1987 di destinare ad altro uso il miliardo che il Comune spendeva per l’Opera-Estate. Si sarebbe potuto impiegarlo per garantire il reddito agli operai e intanto chiudere le fabbriche cominciando a riconvertirle, ad individuare altri committenti, civili e non militari. Contro il ricatto occupazionale noi proponevamo il reddito garantito. Noi non siamo mai stati contro gli operai ma soltanto contro le produzioni di morte».
Nel 1992, quando l’inchiesta rischiava nuovamente di venir insabbiata, avevo risentito anche la mamma di Maurizio, Regina Piovesan. Era sicuramente grata ai membri dell’Assemblea contro la Remie per essere riusciti, tramite un avvocato di Padova, ad ottenere la riapertura dell’inchiesta. «Ma – aggiungeva – ancora non sappiamo se questo processo sarà mai celebrato, in quanto i proprietari hanno assunto fior di avvocati per riuscire a smantellare, con cavilli e argomentazioni, tutto quello che c’è di vero e reale e cioè la morte di mio figlio dovuta al loro disprezzo della vita altrui e alla loro avidità di ricavare quanto più potevano dalla loro fabbrica di morte, mettendo a tacere la coscienza per il profitto, con cinica determinazione».
Nel frattempo l’affresco si era arricchito di nuovi inquietanti particolari. Già nel 1988 era emerso che nel traffico di armi verso l’Iran c’era di mezzo nientemeno che «un ex ufficiale delle forze armate statunitensi, il cinquantacinquenne Mario Appiano, italo-americano, nato ad Asti, ex colonnello di Us Air Force». Era stato individuato dal giudice istruttore Felice Casson e dalla Digos veneziana nel corso di una inchiesta sui gruppi di studenti filokhomeinisti in Italia. L’anno prima era risultato coinvolto in quello che era stato definito “Irangate francese” (in cui erano compromessi sia uomini del Partito socialista francese che esponenti del centrodestra legati a Jacques Chirac). Nelle sedi delle sue società commerciali (Società europea armamenti e Consar, la prima con sede a Torino, la seconda a Roma) la Digos veneziana aveva sequestrato centinaia di telex. Contemporaneamente venivano ispezionati anche gli uffici di alcune aziende italiane, piemontesi e venete, note per la produzione di materiale bellico. Fra queste anche la Recupero esplosivi militari import-export (Remie) di Rosà, legata al gruppo torinese Erber e la Junghans di Venezia (dal 1987 controllata dalla Montedison, ma in precedenza di proprietà di una società italo-tedesca, la Diehl). Alle due società commerciali di Appiano e alle aziende di materiale bellico gli inquirenti veneziani erano giunti seguendo appunto le tracce di una decina di studenti iraniani filokhomeinisti (già raggiunti da comunicazione giudiziaria per associazione sovversiva e sospettati di aver creato una rete spionistica in Italia). I documenti e i telex sequestrati avrebbero confermato la continuità delle esportazioni di materiale bellico verso l’ Iran, anche se i porti di partenza sarebbero stati quelli quelli spagnoli, portoghesi e bulgari.
Va anche detto che a quanto sembra (come per la Simmel di Treviso, altra fabbrica di armi contestata dai gruppi antimilitaristi) il materiale bellico veniva contemporaneamente fornito anche all’Iraq.
Su quale fosse stata la conclusione della lotta contro la Remie, mi ha aggiornato in questi giorni un ex esponente dell’Assemblea di lotta di allora, spiegando che «il processo si tenne presso il tribunale di Padova e venne vinto, se si può usare questo termine visto che un ragazzo di 23 anni era rimasto ucciso. Il tribunale sentenziò un risarcimento sia ai genitori che ad Antonella, la moglie, per 100 milioni di lire». Subito dopo Regina Piovesan (è mancata un paio di anni fa) decise di fare una donazione di due milioni di lire a Radio Sherwood, l’emittente storica dell’Autonomia veneta che si era impegnata senza risparmio nel denunciare quanto accadeva alla Remie e dato pieno sostegno ai familiari di Maurizio nelle loro legittime proteste e rivendicazioni.