In Turchia ha vinto la paura e…
… e su Facebook peggio
Una intervista di Ilaria De Bonis al collettivo Turkey Purge (*) e una denuncia di Stefano Gallieni sulle censure della rete
Foto di Turkey Purge
Turkey Purge è un collettivo di giovani giornalisti turchi «diventati la voce libera della gente comune», come loro stessi si definiscono. Il lavoro di questi attivisti è molto utile oggi, nella Turchia del post golpe: il loro sito web aiuta a visualizzare i numeri e i dettagli della ‘purga’ del presidente-sultano, che sta annientando la libertà del paese. Inoltre traduce (in inglese) notizie che parlano di violazioni e arbitri contro le persone. Turkey Purge tiene desta l’attenzione su tutte le violazioni dei diritti umani.
Abbiamo rivolto ai giornalisti alcune domande per mail ed hanno risposto collettivamente, raccomandandosi di riferire soprattutto la loro “preoccupazione per il destino della gente comune”. Parlano di “una deriva autoritaria” che si sta allargando. Con la scusa del terrorismo Erdogan può far fuori chiunque: colpisce i funzionari, gli insegnanti, gli impiegati, i parenti dei giornalisti. Chi non è dichiaratamente col presidente, è contro di lui. Il risultato è che in Turchia domina la paura e la gente sta diventando “apolitica”.
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Che ne è della gente comune in Turchia in questo momento storico?
Questa cosa ci turba molto. Nessuno sembra preoccuparsi più di tanto delle migliaia di persone che vengono “punite” quotidianamente con l’accusa di terrorismo o sostegno al terrorismo. Il rischio di finire nel calderone dei sospettati gioca un ruolo fondamentale nel creare una società sempre più “apolitica”. Nessuno mette più in discussione la narrativa ufficiale. Mentre il governo punisce tutto ciò che percepisce come nemico, la gente prende per buono il pretesto di Erdogan nel dire che la sicurezza nazionale è sotto attacco.
C’è una paralisi sociale diffusa. Perché?
I cittadini comuni, soprattutto i più giovani, sono diventati apolitici, temendo possibili ritorsioni. I nostri amici e la gente che invia contributi a Turkey Purge dice di non essere più interessata a cosa dicono i leader politici. Per quello che ne sappiamo i cittadini comuni non leggono più i giornali e non guardano le news in tv. C’è anche un altro trend diffusissimo ed è l’anonimato quando si critica il governo.
I giovani giornalisti si nascondono dietro gli pseudonimi e sui social usano fake names. Perfino il New York Times usa pseudonimi per i suoi reporter in Turchia, come fa in Afghanistan e Siria. Allo stesso tempo gli impiegati pubblici e gli insegnanti, che siano giovani o veterani, non manifestano più opinioni, perché ogni mossa è monitorata dal governo. I funzionari statali possono tracciare gli account dei social media, controllare le e-mail e l’uso di internet per i propri dipendenti statali.
Com’è cambiata la vostra vita dopo il fallito golpe del luglio 2016?
Prima dell’estate ancora protestavamo per i nostri diritti, anche se sapevamo che avremmo dovuto pagare un prezzo per la nostra azione. Poi anche questa piccola porta aperta verso la libertà ci è stata completamente sbattuta in faccia. Come se lo stato d’emergenza del post-colpo di stato autorizzasse il governo a respingere qualsiasi opposizione al suo operato. Dal 15 luglio ad oggi nessuno ha più osato scendere in piazza.
La Turchia non è più un Paese per giovani e per gente mentalmente aperta. Molti nostri amici, soprattutto giornalisti e alcuni redattori, sono finiti in carcere con l’accusa di far parte di organizzazioni terroristiche. La zia di uno dei nostri redattori è in carcere, la madre di un altro si è vista rifiutare il visto di viaggio con la stessa accusa.
Cosa vi fa più paura oggi?
La Turchia sta attraversando i suoi tempi peggiori dal punto di vista del diritto, della legge: ad esempio il diritto ad un equo processo. Intellettuali, giornalisti, politici critici, uomini d’affari, celebrità, media ecc… tutti sono messi a tacere tramite minacce e carcere. Siamo seriamente preoccupati per le condizioni assolutamente arbitrarie che si subiscono in prigione.
(*) ripreso da «Comune Info» con le foto. (db)
Ocalan e la libertà secondo Facebook
di Stefano Galieni
Che due padroni trovino terreno comune di azione è scontato. Se i due in questione sono però il signor Zuckeberg creatore di Facebook e il sultano Recep Tayyp Erdogan, ufficialmente capo di Stato di quel carcere a cielo aperto che va sotto il nome di Turchia, può accadere che la decantata democrazia orizzontale dei social network venga tranquillamente trattata con gli stessi metodi con cui si garantisce la libertà di stampa e opinione in Turchia.
I fatti: il 10 febbraio scorso, a Milano, la sera prima della manifestazione nazionale per la libertà di Abdullah Ocalan e di tutte e tutti le persone detenute per motivi politici in Turchia, Rifondazione Comunista aveva organizzato un dibattito peraltro riuscito e propagandato per settimane proprio attraverso Fb.
Partecipavano oltre al segretario del Prc-S.E. la parlamentare Hdp e nipote del presidente del PKK, Dilek Ocalan, un suo collega dello stesso partito, Faysal Sariyildiz e gli avvocati Mahmut Sakar e Barbara Spinelli.
Poco prima dell’iniziativa veniva scattata una foto della sala vuota. Dietro il fondo, sul muro, campeggiava una foto di Abdullah Ocalan con accanto una bandiera curda, la foto che trovate QUI SOPRA.
Pochi giorni fa questa foto che veniva proposta su Fb veniva da ignoti segnalata in quanto “inappropriata”. Gli zelanti funzionari dell’immagine del maggior social network mondiale rimuovevano l’immagine accogliendo la segnalazione e comunicandolo con la seguente frase: “Abbiamo rimosto il post perché non rispetta gli standard della comunità di Facebook”.
Interessante notare come invece continuino a rispettare gli “standard della comunità”, pagine e profili sessisti, omofobi, razzisti e inneggianti al fascismo. Da “Benito Mussolini Duce d’Italia” celebrativo, al terrorizzante “Tutti i crimini degli immigrati” ai tanti profili in cui si manifesta odio verso stranieri, fedeli di altre religioni, donne, omosessuali e a seguire una caterva di post puntualmente e pubblicamente segnalati alla polizia postale ma mai rimossi in quanto considerati invece “confacenti a detti standard”.
Se la libertà di stampa in Italia, considerando gli strumenti ufficiali di informazione, ci vede nel mondo scendere perennemente di classifica quella social oltre ad avere dimensione globale, ridefinisce i criteri di “lecito” e “illecito” in base a quelle che sono le decisioni di oltre oceano.
E laddove oggi trionfa il dominio di Trump diviene inevitabile che “gli standard di comunità” non possano contemplare né Ocalan né tanto meno quanto attiene a formazioni considerate “eversive da sinistra”.
Non solo in quanto il PKK risulta ancora e per ragioni meramente strumentali è considerato da U.E. e U.S.A. all’interno delle “black list”, fra le organizzazioni considerate terroriste.
Ma anche e soprattutto perché il pensiero unico che si va riformando in questo scorcio di ventunesimo secolo non può accettare forme plurali, aperte e attive di partecipazione alla politica e l’immaginario collettivo che attraverso i social deve essere veicolato non può neanche suggerire l’esistenza di pratiche e situazioni diverse da quella dominante.
La sfida oggi passa anche attraverso queste sconfinate censure della comunicazione, selettive e gerarchiche, in cui chi ne fa uso è unicamente consumatore che non determina neanche la domanda ma è subalterno all’offerta.
Una ragione in più per ripubblicare la foto di quella bella serata di lotta.