Incontro con Prospero Gallinari
Dall’altra parte della repressione:le donne dei detenuti politici in Italia
intervista – del 1995 – di Gianni Sartori
Questa intervista risale al 1995. In teoria avrebbe dovuto uscire sulla rivista «Frigidaire» ma per ragioni varie (la mancata uscita del mensile per due-tre numeri consecutivi) era poi finita nel dimenticatoio. In seguito (1996) trovò momentanea ospitalità su «La Fucina», opuscolo ciclostilato del Collettivo vicentino Spartakus. Per quanto “datata” è una testimonianza sconosciuta ai più e forse non priva di interesse. Un tassello per storicizzare quel periodo, gli anni settanta e per contribuire all’assunzione di una autentica memoria storica. Buona lettura.
Prima di rispondere alle domande Prospero Gallinari [nota 1] vuole fare una breve premessa, ricordare che «oggi, 1995, circa 150 compagni, rinchiusi nelle galere italiane, subiscono ancora la vendetta di uno Stato che non esiste più». Aggiungendo che «insieme alle vite dei prigionieri in qualche modo lo Stato ha sequestrato anche le vite dei loro familiari».
L’occasione per questo incontro è stata la presentazione del libro «DALL’ALTRA PARTE: L’odissea quotidiana delle donne dei detenuti politici» (Feltrinelli, 1995) presso il Centro sociale Autogestito YA BASTA! di Vicenza. Autrice del libro, insieme a Gallinari, Linda Santilli [NOTA 2] che però non era a Vicenza quel giorno. In compenso era presente Sante Notarnicola [NOTA 3].
Colpisce in questo vostro libro come la repressione si sia scatenata anche sui familiari, sulle donne dei prigionieri. Quindi su soggetti completamente innocenti, anche secondo i parametri istituzionali.
«Mi spiace che qui con noi non ci sia Linda; sicuramente da donna, soggetto centrale nella raccolta delle testimonianze, avrebbe potuto fornire un punto di vista, un angolo di lettura particolare su quello che le donne hanno subito. Linda non ha vissuto direttamente gli anni settanta, essendo nata nel 1966, ma forse proprio per questo è animata da una grande curiosità, da una forte spinta a conoscere una storia che per la sua generazione rischiava di rimanere sconosciuta, manipolata. Quando lo abbiamo pensato io ero ancora in carcere e da parte di molti compagni detenuti c’era una certa titubanza, quasi imbarazzo. Devi pensare che tutti noi sapevamo che, per poter accedere alle visite, queste donne dovevano spogliarsi, sottoporsi a perquisizioni intime… c’era quindi una sorta di rimozione».
Quali sono state le principali ragioni per voler comunque pubblicare questo libro?
«Innanzitutto una ragione personale, privata. Io ho vissuto quindici anni di carcere, carcere speciale, ospedali…E in tantissime occasioni ho sentito queste donne vicine. E’ stato un modo di dire “Grazie”. Una seconda ragione è per il modo in cui queste donne hanno saputo misurarsi con questa esperienza. All’inizio è un’esperienza subita, in quanto madri, sorelle, mogli o nipoti… Non sono militanti, non sono quello che si definisce “soggetto politico”, ma sono costrette a confrontarsi con la dimensione della repressione, della violenza di Stato. Pensa per esempio al rapporto con le carceri speciali: il problema delle perquisizioni, le mille umiliazioni subite; dover percorrere migliaia di chilometri…».
Eppure quello che sembra emergere è una grande capacità di confrontarsi con l’istituzione carceraria da parte di molte di loro…
«Rispetto al carcere, al problema dei detenuti politici, le donne sono state sicuramente il soggetto forte, quelle che hanno saputo resistere. I comitati dei familiari cercavano di comunicare, di rendere pubblico ciò che avveniva nelle carceri (i pestaggi, per esempio); ma erano soprattutto le donne che si assumevano questo compito. Emerge spesso anche nelle testimonianza; tante volte la madre di un prigioniero politico ci ha confessato: “...mio marito non ce l’ha fatta, ha delegato a me…”. Le donne si sono dimostrate la parte più viva, più concreta».
Mi dicevi che all’inizio le testimonianze raccolte erano un centinaio. Come mai avete scelto di pubblicarne solo undici?
«Abbiamo scelto undici storie emblematiche, in grado di rappresentarle tutte. Sia le diverse figure sociali (c’è la madre, la compagna, la figlia, la nipote…) che le diverse realtà sociali e culturali. Abbiamo cercato di ricoprire la realtà di tutta l’Italia dal punto di vista geografico: da Torino ad Avellino, dalla Lombardia alla Calabria. Inoltre le vicende narrate attraversano tutto il percorso della storia dei detenuti; c’è per esempio la testimonianza di Angela, sorella di Mario Rossi della “22 Ottobre”, quindi prima della nascita delle BR o dei Nap. Ritroviamo culture diverse, modi diversi di esprimere il rapporto; differenti non per intensità ma per il modo di esprimerlo. In qualche modo abbiamo operato una “selezione” (usando una brutta parola). Sono undici capitoli, undici “racconti stimolati” (non interviste) per parlare sia a se stesse che all’esterno. Racconti che si intercalano, viaggiano nella storia personale, nella vita; non chiusi dal rituale delle domande-risposte».
Come cominciano queste storie?
«Quasi sempre cominciano con l’arresto del congiunto. E fin dall’inizio, dal primo squillo di campanello, dalla porta sfondata o da quando vanno in questura, queste donne hanno l’esatta percezione del destino a cui vanno incontro. Per la prima volta alcune di loro sembrano aprire gli occhi su una realtà fino a quel momento ignorata. Subiscono le prime umiliazioni, i primi ricatti per incidere sul comportamento del parente arrestato. Inizia un’odissea con passaggi e percorsi diversi, ma con uno sbocco simile. Da un progressivo accumularsi di ribellione nei confronti di qualcosa che non riescono a comprendere, deriva una presa di coscienza. Queste donne si sono chieste perché dovessero subire intimidazioni, umiliazioni dato che quello che esprimevano nei confronti dei prigionieri era solo un legame affettivo. Ben presto tra loro nasce una forte solidarietà, non solo di tipo “familistico”. C’è una precisa presa di coscienza; capiscono che la repressione non riguarda solo chi è in carcere, ma ognuna di loro, cominciano a sentirsi parte in causa. Con la costruzione degli organismi dei familiari dei detenuti inizia la ricerca di strumenti per ottenere qualcosa».
Queste donne come reagiscono sul piano politico? A chi si rivolgono?
«Occorre premettere che in genere non si tratta di donne militanti; alcune votano PCI, ma comunque non sono extraparlamentari. Il loro primo referente è la sinistra istituzionale, i partiti, i giornali, i parlamentari. Pensano di trovare un aiuto e invece tutte, indistintamente, scoprono di trovarsi di fronte a un muro, vengono respinte. I concetti espressi, i percorsi, le situazioni sono diversi, ma l’impatto è praticamente identico per tutte. La repressione vissuta non è solo quella indiretta, quella del figlio o del compagno che viene pestato. E’ anche, come ho detto, anche quella subita in prima persona con le perquisizioni tramite denudamento [NOTA 4]. E si trovano di fronte una sinistra istituzionale che semplicemente non vuole fare i conti con questa realtà. Se trovano appoggio è presso quei gruppi di giovani che costituiscono il Movimento. Come ho potuto verificare, molti di quelli che cominciarono in quel modo la loro esperienza politica, con la solidarietà ai familiari dei prigionieri politici, sono poi confluiti nei Centri Sociali. Nelle varie storie ritroviamo un percorso politico simile: da un problema affettivo alla costruzione di rapporti, all’assunzione di responsabilità. Il loro non è un linguaggio da militanti, non è politichese. Mamma Clara racconta che fino ad allora conosceva solo il suo quartiere, dove andava a fare la spesa. Per poi ritrovarsi a parlare all’Università, a spiegare ai giovani che cosa realmente accadeva nelle galere del nostro paese. Il loro è stato un percorso di trasformazione e collettivizzazione; ognuna è diventata “madre di diversi figli”».
E questa, mi sembra di capire, è stata anche la tua esperienza personale…
«Quando ero in ospedale la mia famiglia era in difficoltà, ma sono stato seguito, aiutato dalle madri di altri compagni. Quello della salute dei compagni era diventato un problema collettivo. Lo stesso sentimento viene espresso quando Clara nella sua testimonianza parla della rivolta di Trani e dei pestaggi contro i detenuti. Appena giunta la notizia partono insieme, anche quelle che non hanno il figlio o il marito a Trani [NOTA 5]».
Il linguaggio del libro è semplice, non”politico”… E’ un pregio o un limite?
«Tempo fa ne parlavo con Pino Cacucci e, appunto, gli dicevo che forse quello raccontato dal libro è un racconto “a lato” che non aveva carattere politico. “Guarda – mi ha detto Pino – che molti hanno capito la Seconda guerra mondiale non dai libri di storia ma dal Diario di Anna Frank”. E’ quindi la storia di quelli anni vista da chi non era militante, ma comunque stava al nostro fianco».
Alla fine per tutte queste donne [NOTA 6] c’è una specie di bilancio…
«Un altro elemento in comune è che da tutti questi racconti emerge un bilancio complessivamente positivo. Sono storie di donne che hanno saputo raccogliere. Pur conoscendole, io stesso sono rimasto colpito dal tono con cui le vicende vengono raccontate; mi ha colpito il carattere, la forza, la positività del loro percorso. Mentre quelle dei militanti in qualche modo “apparivano” (magari distorte, ma apparivano, entravano nella storia) le vicende. Le esperienze di queste donne rischiavano di finire nell’anonimato, di andare a eludersi, chiuse nel privato. Invece alla fine ogni storia è diventata comunicazione. Per tutte loro, dopo questa violenza subita, c’è un bilancio, ed è positivo. Queste donne sono cresciute nel loro rapporto con la società, non subiscono, sono protagoniste, si sono arricchite. Anche nel caso limite di Angela che è stata addirittura sequestrata e violentata, perché smettesse di andare dal fratello all’Asinara. Spesso c’è una trasformazione nei ruoli familiari. E’ un bilancio fatto da donne che dicono: “Ora sono più forte, oggi ho capito la mia condizione”. In tempi di individualismo, di incapacità di comunicare, mi sembra significativo questo percorso che, da una dimensione puramente affettiva, attraverso una presa di coscienza, diventa collettivo, fatto di progettualità, di capacità e volontà di trasformazione. C’è una frase del libro che penso valga per tutte: “…nelle difficoltà di questa esperienza io mi ritengo fortunata per un motivo molto semplice, che ho imparato a vivere, a differenza di molte altre persone che invece sopravvivono».
QUALCHE CONSIDERAZIONE FINALE
Riletto a distanza di anni “Dall’altra parte” rimane un libro fin troppo denso, amaro, che fa star male. Scova e denuncia le fin troppe rimozioni in merito all’universo carcerario (o concentrazionario) italico degli anni settanta e ottanta.
Solo un confronto. Forse in Italia si son pubblicati molti più libri (e con molte più recensioni benevole, magari sull’Avvenire) sui prigionieri e sulle prigioniere repubblicani irlandesi (non su quelli baschi però). Libri spesso premiati e presentati nelle scuole, pure in quelle medie. Invece le prigioniere e i prigionieri nostrani rimangono, anche a distanza di anni, sostanzialmente “dannati”, esclusi. Qui l’impasto di cultura cattolica e perbenismo funziona a senso unico, non alternato. Un occhio di riguardo per i cattolici irlandesi (anche se praticavano la lotta armata) e la condanna morale (“al rogo”, soprattutto se donne) per chi nel nostro Paese ha osato far uso degli stessi mezzi. A meno che poi non si sia “pentito” ovviamente.
Vorrei anche dire (così, a spanne) che alcuni atteggiamenti radical-chic pro Irlanda di personaggi che poi esprimevano disprezzo per gli insorti proletari (o proletarizzati) mi ricordavano quelli di certa sinistra spagnola verso i baschi (o di certa sinistra turca verso i curdi). Magari inconsapevolmente stavano comunque difendendo la loro “rendita di posizione”. Nel primo caso sociale, nell’altro quella legata alla loro identità privilegiata (sicuramente uno spagnolo gode di maggiori garanzie all’interno dello Stato denominato Spagna rispetto a un basco; così come un turco gode comunque di maggiori garanzie all’interno dello Stato denominato Turchia rispetto a un curdo). Ricordo una giovane neolaureata, già impegnata in difesa dei diritti umani in Irlanda del Nord e destinata a una certa fama come scrittrice, dare in escandescenze vedendo sul muro di una fabbrica la scritta “CURCIO LIBERO!”. Certo le differenze c’erano, eccome! Ma i metodi usati dai governi britannico e italiano furono sostanzialmente molto simili e devastanti. Così come quelli applicati nella penisola iberica contro la sinistra indipendentista basca.
Non ho mai condiviso ideologia (sostanzialmente m-l con derive staliniste) e metodi (quasi una caricatura di Stato della peggior specie: tribunali, prigioni, interrogatori, condanne a morte…) dei gruppi armati italiani. Umanamente parlando, un disastro. Nessuna nostalgia e nemmeno rimpianti. A conti fatti, non poteva andare altrimenti. Tuttavia, per quanto critico, ero comunque consapevole che certe scelte esprimevano l’estremo sussulto di una ben nota “rabbia antica” quella di infinite “generazioni senza nome che urlavano vendetta”. Il disperato tentativo di opporsi non solo allo «stato di cose presente» ma anche a quanto si stava ulteriormente profilando all’orizzonte: ristrutturazione, militarizzazione, “modernizzazione”, ulteriore controllo e sfruttamento, degrado sociale e ambientale, guerra etc. Qualcuno disse (cito a memoria) che facevano “le cose giuste nel modo sbagliato”. Altri (anarchici, autonomi, eco-luddisti…) praticavano forme di lotta altrettanto radicali ma non cruente. Anche se alla fine, tanto per non sbagliare, lo Stato colpì un po’ tutti, indistintamente: familiari, amici, parenti e conoscenti compresi, come si è visto. Citando ancora (o forse parafrasando?) il buon Guccini:“Io penso che questa mia generazione” sia stata forse l’ultima, almeno per ora, che ha potuto illudersi di insorgere, ribellarsi, fare la Rivoluzione. Poi il buio di una notte senza luna (dire “grande freddo”sarebbe riduttivo, oltre che scontato).
[NOTA 1] nato nel 1951 a Reggio Emilia, Prospero Gallinari è stato un militante della Brigate Rosse fino alla loro estinzione. Condannato a tre ergastoli, dopo quindici anni di detenzione in carceri speciali, tornò in libertà per gravi ragioni di salute. E’ deceduto nel 2013.
[NOTA 2] Linda Santilli è nata all’Aquila nel 1966. All’epoca della pubblicazione del libro si occupava di storia contemporanea, principalmente di questioni sociali delle minoranze, delle donne, delle diversità.
[NOTA 3] Figlio di immigrati meridionali, militante comunista nella Torino operaia degli anni sessanta (partecipò alla rivolta di Piazza Statuto nel 1962) entrò poi a far parte della banda di Pietro Cavallero. In carcere aderì alle Brigate Rosse. Autore di alcuni libri di poesie (molto belle) e di un’autobiografia: «L’evasione impossibile» (pubblicata da Feltrinelli negli anni settanta e riproposta recentemente da Odradek).
[NOTA 4] Un vero e proprio “stupro di Stato”. Così vennero definite in Irlanda del Nord le “strip-searching”.
[NOTA 5] Da leggere attentamente, nella nota a pagina 29, l’ articolo di Laura Grimaldi sui fatti di Trani (da «Il manifesto» del 29 gennaio 1981): «…le donne… trasmettono altri comunicati attraverso l’Ansa, ma anche su questi cala la nebbia. Notte e nebbia (…). Nacht und Nebel nelle carceri speciali. Notte e nebbia nelle coscienze…».
[NOTA 6] Senza far torto a nessuna delle donne intervistate (e nemmeno a quelle non citate, la maggioranza) vorrei segnalare la vicenda di Angela, sorella di Mario Rossi, sequestrata e violentata con modalità analoghe a quelle utilizzate dai fascisti con Franca Rame. Della Grimaldi ricordavo il libro che aveva scritto alla fine degli anni settanta in disperata difesa del figlio con sulla copertina l’immagine del partigiano iugoslavo, quella “incriminata” perché l’avevano trovata a casa del figlio ma siccome compariva anche nei volantini di un gruppo armato… gli inquirenti avevano dedotto che il ragazzo ne facesse parte. Mi ha poi colpito sapere della morte in un incidente automobilistico, insieme ad altri due compagni, di Valeria Scialabba (la sorella di Roberto, brutalmente assassinato dal fascista Valerio Fioravanti nel 1978) mentre si recavano a Voghera per la manifestazione del 9 luglio davanti al supercarcere femminile. Non sono riuscito a leggere fino in fondo la testimonianza della mamma di Alberto Buonoconto: una storia terribile che purtroppo conoscevo già (vedi il libro di Franca Rame “Non parlarmi degli archi, parlami delle tue prigioni», uscito nel 1984).