Articoli di Daniela Bezzi (*) e di Marina Forti (**)
Breve ripasso di quasi otto mesi d’ininterrotta mobilitazione, che il nostro sito sta seguendo in effetti dagli inizi, spesso riproponendo l’autorevole opinione di un profondo conoscitore dell’India rurale come P.N. Sainath e attingendo ogni volta che è possibile dal magnifico Public Archive of Rural India(PARI ) il website da lui stesso fondato.
Era il 26 novembre scorso, quando dalle campagne del Punjab e dell’Haryana calarono verso la capitale indiana delle vere e proprie carovane di trattori per quella che venne chiamata Delhi Chalo, la ‘presa di Delhi’ appunto, da parte di migliaia di piccoli agricoltori determinati a far sentire le proprie ragioni circa l’inaccettabilità di quelle tre leggi frettolosamente approvate dal Parlamento indiano un paio di mesi prima, per velocizzare la liberalizzazione di un settore che nonostante la crisi, più volte denunciata in relazione ai tanti casi di suicidio, assorbe il 65% della forza lavoro del subcontinente – e da cui dipende di fatto la sussistenza di circa 900 milioni di persone.
Particolare non da poco: approfittando dello ‘stato d’eccezione’ che particolarmente in India si è venuta a creare con la pandemia, quella votazione era avvenuta senza alcun confronto con i sindacati, e persino ignorando il parere di alcuni governi locali, in primis appunto quello del Punjab.
La protesta dei contadini indiani riguarda tre leggi che sono state ratificate il 20 settembre scorso al Parlamento indiano, bypassando il normale iter procedurale: senza alcuna preventiva consultazione con i vari governi degli stati principalmente interessati, né con le organizzazioni sindacali.
In sintesi il nuovo quadro legislativo dovrebbe (nel punto di vista del Governo) introdurre una radicale modernizzazione nel settore agricolo dell’India, in tre specifiche aree:
– quella della commercializzazione dei prodotti agricoli, sostituendo al sistema dei “mandi” (ovvero mercati generali statali) una totale liberalizzazione
– quella dei prezzi e dei servizi agricoli
– quella della materie prime considerate essenziali
In pratica l’obiettivo sarebbe liberalizzare, con l’ausilio anche di piattaforme on line, un settore obiettivamente molto arretrato, in sofferenza da tempo (come testimoniano le decine di migliaia di suicidi per debiti ogni anno), caratterizzato da una proprietà terriera molto frammentaria (oltre l’86 per cento di chi lavora nell’agricoltura possiede appezzamenti di terra sotto i due ettari), e in qualche misura tutelato da una forte presenza dello Stato. Il “prezzo minimo di vendita statale” che il Fronte Contadino vorrebbe di nuovo garantito, rappresentava una minima tutela non solo rispetto alle fluttuazioni del libero mercato, ma anche in considerazione di condizioni climatiche sempre meno prevedibili.
Con la liberalizzazione da poco varata, i lavoratori del settore agricolo perderebbero anche queste minime tutele, e sarebbero alla mercé della grande distribuzione privata.
Una data non qualunque, quel 26 novembre, perché nello stesso giorno era previsto l’ennesimo sciopero generale del sub-continente: a incrociare le braccia in tutti i possibili settori, dai colletti bianchi del pubblico impiego agli addetti alle pulizie e alle più umili mansioni, furono in 250 milioni, numeri che solo l’India può permettersi contando anche sulla formidabile capacità organizzativa di una miriade di sindacati, che all’occorrenza riescono a stemperare le differenze in formidabili coalizioni.
Fu un Delhi Chalo per modo di dire perché arrivati alla periferia dell’immensa metropoli, in particolare a Singhu, i trattori vennero accolti dalle cannonate d’acqua delle forze dell’ordine, e le foto dei sikh con i loro meravigliosi turbantoni, tra loro parecchi anziani, letteralmente inzuppati nonostante il freddo di fine novembre, vennero riprese da parecchie testate non solo in India – e non fu una buona pubblicità per il Governo Modi.
E comunque i disagi degli inizi furono presto superati con la più formidabile organizzazione e fin dai primi momenti del suo sparso insediamento tutt’intorno a Delhi, il Kisan Andolan (movimento contadino) si presentò al meglio: una coalizione di decine di comitati e organizzazioni sindacali, compattamente uniti sotto la sigla del Samyukt Kisan Morcha, mirabilmente coordinati fra di loro nel più genuino spirito di comunità, sewa (= servizio), pratica del langar (condivisione del cibo). E talmente consapevoli del potere manipolatorio dei media da attrezzarsi fin da subito di un proprio canale live, il Kisan Ekta Morcha dal quale parlare dritto in camera, autoriprendersi nelle loro assemblee, e insomma farsi capire da chiunque avesse voglia di capire – e il messaggio continuamente ribadito era: noi da qui non ci spostiamo fino a che non verranno abrogate quelle tre leggi.
Una storia che per le sue componenti di maturità, consapevolezza, totale pacifismo nella resistenza, ci è sembrata fin da subito così importante e bella, da meritare un vero e proprio webinar, che intitolammo Trolley Times, anche per rendere omaggio all’omonima testata cartacea che un gruppo di giovanissimi media-attivisti avevano fondato per raccontare la straordinaria vitalità di questo movimento. Eravamo già verso la fine di marzo, e nonostante i molti momenti critici (per esempio il non piccolo tributo di vite umane, durante l’inverno più freddo che Delhi abbia sofferto da anni, per non dire degli scontri che il 26 gennaio avevano caratterizzato il Republic Day.
La morte del padre gesuita Stan Swamy scuote l’India
di Marina Forti
Il 5 luglio, dopo nove mesi di carcere, è morto l’anziano gesuita Stanislaus Lourduswamy, noto per le sue battaglie a difesa degli oppressi. Le autorità avevano accusato l’84enne di cospirazione. La contestata legge antiterrorismo ha consentito di prolungare la detenzione nonostante la falsità delle prove a suo carico
La morte di un anziano gesuita noto per la sua battaglia in difesa dei diritti degli adivasi, i “popoli originari” dell’India, e degli oppressi ha suscitato sgomento in India, dove la sua comunità e molti difensori dei diritti umani parlano di un “omicidio istituzionale”. Padre Stanislaus Lourduswamy, noto come Stan Swamy, aveva compiuto 84 anni in carcere. Era stato arrestato l’8 ottobre 2020 da agenti della National investigation agency (la polizia federale indiana), che lo avevano prelevato in un raid notturno dal suo alloggio nella comunità chiamata Bagaicha che lui stesso aveva fondato vicino a Ranchi, nello stato Nord-occidentale del Jharkhand. Accusato di attentare alla sicurezza dello Stato, era stato tradotto in un carcere di massima sicurezza a Mumbai.
L’anziano gesuita non è mai stato processato e molti sono convinti che le accuse nei suoi confronti non avrebbero retto davanti a un giudice, soprattutto dopo che le “prove incriminanti” erano risultate false. Ma una legge antiterrorismo duramente contestata (“Unlawful acts prevention act”) ha permesso alle autorità di prolungare all’infinito la detenzione preventiva, e le ripetute richieste di libertà provvisoria di padre Stan sono state respinte. Così, ancora prima di considerare le ragioni dell’arresto, resta un senso di sgomento per quei nove mesi di detenzione di un uomo anziano malato di Parkinson, privato di ogni assistenza personale: i magistrati di sorveglianza avrebbero lasciato cadere perfino la richiesta di una tazza con cannuccia, visto che non poteva reggere da solo un bicchiere. Il carcere era di fatto una condanna a morte.
Durante l’ultima udienza per la sua libertà provvisoria davanti all’Alta corte di Mumbai padre Stan aveva dichiarato che non gli restava molto da vivere, e chiedeva di finire i suoi giorni nella sua comunità. Gli è stato negato. Alla fine di maggio, per ordine della Corte suprema, era stato infine ricoverato in un ospedale cattolico di Mumbai, dove gli è stato diagnosticato il Covid-19, contratto in carcere, e dove è morto il 5 luglio 2021.
“Questa non è una morte naturale ma l’omicidio istituzionale di un animo gentile commesso da uno stato inumano”, scrivono in un lungo comunicato alcuni attivisti della comunità di Stan Swamy, insieme a compagni e parenti di altre quindici persone tuttora in carcere con le stesse accuse dell’anziano gesuita: avrebbero cospirato per sovvertire lo Stato d’intesa con il partito armato maoista. Si tratta del cosiddetto “caso Bhima Koregaon”, dal nome di un villaggio del Maharashtra (lo Stato che ha per capitale Mumbai) dove nel 2018 una manifestazione per commemorare un’antica rivolta dei dalit (i “fuoricasta”, quelli una volta chiamati intoccabili, lo scalino più basso della scala sociale indiana) si concluse con grandi violenze. Padre Stan Swamy non era là e neppure gli altri quindici attivisti sociali, avvocati del lavoro, difensori dei diritti umani arrestati un anno fa: ma tutti sono stati accusati di aver istigato quelle violenze. I giudici hanno parlato addirittura di un complotto per uccidere il primo ministro indiano Narendra Modi.
Poco prima di essere arrestato, padre Stan Swamy aveva registrato una dichiarazione in cui confutava le accuse contro di lui. La polizia federale aveva già perquisito la sua comunità e sequestrato il suo computer, e stava costruendo un’accusa nei suoi confronti fondata su una montatura, diceva. In quella dichiarazione, padre Stan parlava tra l’altro del suo lavoro per denunciare l’alienazione delle terre e dei diritti dei gram sabha (gli organismi rappresentativi locali), e lo sradicamento degli adivasi. Parlava di arresti indiscriminati di migliaia di giovani nativi, accusati di essere “maoisti” solo perché “mettono in dubbio e resistono all’ingiusta alienazione e sradicamento dalle terra”. Giurista di formazione, nel 2017 l’anziano gesuita aveva avviato un’azione legale in difesa di alcuni adivasi che languivano in carcere da anni senza processo con l’accusa di essere dirigenti maoisti. Questo, diceva Stan Swamy, potrebbe essere il motivo principale per cui è stato messo sotto accusa.
Del resto, l’esistenza stessa della comunità Bagaicha era una sfida: un luogo “aperto ai giovani delle comunità adivasi, ai dalit, ai movimenti popolari in genere” spiegava padre Stan Swamy (cfr www.terraterraonline.org/blog/india-proteste-dopo-larresto-di-stan-swami-il-gesuita-che-difende-i-tribali/) quando l’ho visitata nel 2011. Vi ospitava assemblee popolari e incoraggiava i giovani adivasi a mettere per iscritto le loro storie, oltre a fare un attivo lavoro di consulenza legale e di informazione sui diritti delle popolazioni native. Aveva cominciato a documentare come lo sfruttamento di risorse minerarie e altri progetti di sviluppo (“parola usata a vanvera”, diceva) si risolvano nella cacciata delle comunità più povere dalle loro terre: “E chi perde la terra, perde e basta”. Diceva che la Chiesa “non può restare in silenzio” davanti all’ingiustizia.
Che le accuse contro padre Stan Swamy e gli altri detenuti del “caso Bhima Koregaon” fossero una montatura sembra confermato dall’analisi compiuta da un’agenzia di indagini forensi di Boston, Arsenal Consulting, pubblicata lo scorso febbraio dal Washington Post e ripresa anche dai media indiani. Su richiesta della difesa degli imputati, gli esperti avevano esaminato i computer sequestrati a padre Stan e ad altri imputati, e dimostrato che decine di lettere e altri documenti vi erano stati inserito in cartelle nascoste usando un malware, incluse lettere in cui si parlava di come procurare armi, o di uccidere il primo ministro Modi.
“Siamo indignati che padre Stan abbia dovuto pagare con la vita per questa montatura fatta in malafede”, dice il comunicato diffuso da attivisti e amici dopo la morte del gesuita. “Padre Stan non meritava di morire così, imprigionato con false accuse da uno stato vendicativo”. Padre Stanislaus Lourduswamy (era il suo nome completo) era nato a Tiruchirappalli, presso Madras (oggi Chennai), nel 1937, ed è stato per 51 anni in prete che aveva fatto propria la battaglia di adivasi e fuoricasta per “jal, jangal e zameen”. Cioè acqua, foresta e terra. Rifiutava di essere “spettatore silenzioso”.
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