Il nostro tempo è adesso

A Roma si è formato un coordinamento di giornalisti precari esterno alla Fnsi, il sindacato unico ufficiale. Siamo riusciti in poco tempo a far sapere a lettori e cittadini che c’è chi guadagna tre euro ad articolo senza che l’editore violi la legge. Ci sono anche le nostre speranze, perchè la precarietà ancora non è riuscita a piegarci del tutto. Questo testo è stato letto in piazza al termine del corteo romano “Il nostro tempo è adesso” del 9 aprile scorso.

Quando abbiamo iniziato sentivamosempre la stessa cantilena: “Se non hai gli appoggi giusti puoi sognartelo il posto di lavoro”. Ce lo dicevano perché sognavamo il mestiere più bello del mondo, almeno per noi. Ce lo dicevano perché noi volevano essere giornalisti: essere e non fare, essere perché volevamo che quel mestiere ci desse di che vivere.

Noi siamo quelli cocciuti, perché chi diceva: senza raccomandazione non vai avanti, aveva ragione. Ma noi lo abbiamo fatto lo stesso, con l’incoscienza di chi pensa che l’impegno e la dedizione alla lunga possano premiare. Abbiamo sbattuto la faccia e continuiamo a sbatterla contro una realtà che premia tutto ma non il merito e non la bravura. Ci siamo laureati, abbiamo fatto scuole di giornalismo costosissime per le nostre famiglie: centinaia di professionisti sfornati ogni anno per un mercato che non potrà mai assorbirli. A oggi nel settore del giornalismo ci sono 24mila collaboratori con contratti atipici o senza contratto a fronte di 20mila stabilizzati. Gente che viene pagata nel migliore dei casi 50 euro lordi, nel peggiore anche 4 euro, sempre lordei e nelle maggiori testate nazionali senza alcuna tutela per il presente e tanto meno per il futuro.

Abbiamo provato ad affidarci al nostro sindacato, con mille speranze di giustizia sociale. Ma quando c’è uno stato di crisi nei i primi a essere sbattuti fuori siamo noi. E anche oggi che la FNSI aveva annunciato la sua presenza al nostro fianco, ci siamo ritrovati a sfilare da soli. Ancora un volta il ‘nostro’ sindacato ci ha ignorato.

Abbiamo imparato a diventare cinici davanti a direttori e a grandi giornalisti che si riempiono la bocca con condanne del precariato, salvo poi lavorare al fianco di stagisti, co.co.co. E collaboratori sottopagati.

Abbiamo imparato a ridere quando ascoltiamo i politici che si ricordano dei precari e dilavoro quando ci sono le elezioni o quando c’è una telecamera accesa: a loro diciamo che noi tutti ci ricorderemo di loro nell’urna elettorale.

Noi siamo quelli che vincono, che non riescono ad abituarsi a piazze come queste, che non riescono a trattenere l’emozione in giorni come questi.

Raccontiamo i fatti più importanti che accadono in Italia e nel mondo, alla sera siamo stanchi, arrabbiati, con pochi soldi in tasca ma con il cuore pieno della passione che ci spinge sempre nelle braccia di questo mestiere. Siamo giornalisti.

Ma siamo anche gli operai di Mirafiori, gli operatori dei call center, gli stagisti perenni, gli operatori sociali senza stipendio, i ricercatori senza futuro, i militari pronti per andare a morire perché altrimenti il pane a casa non lo porta nessuno. Siamo le storie di precariato che leggete ogni giorno sui giornali. Le viviamo sulla nostra pelle e le raccontiamo a tutti voi. E torniamo a casa doppiamente frustrati: perché quelle storie entrano a far parte di noi, e perché della nostra precarietà nessuno parla mai. E quando domani leggerete le cronache di queste manifestazioni, ricordatevi che nella maggior parte dei casi sono raccontate da precari.

Hanno voluto tenerci a bada, ma l’errore è stato grosso.

Siamo scesi in piazza senza vessilli, perché davanti alla precarietà noi siamo tutti uguali.

E siamo quelli che vincono, perché crediamo che questo Paese lo possiamo cambiare. Subito, da ora, da questa piazza: ce la siamo presa e non la lasceremo più.

ciuoti

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