Intervista a Yewande Omotoso
di Valentina A. Mmaka
Una scrittrice sudafricana che sa raccontare l’esile filo che lega uomini e donne alla condizione di marginalità in un Sudafrica moderno che cerca ancora un riscatto dal suo tormentato passato.
Un romanzo che irrompe con eleganza, scritto da una giovane promettente scrittrice: Yewande Omotoso è un’autrice di grande immaginazione e con uno stile genuino. Nessuna parola potrebbe essere più pertinente e rappresentativa di quelle pronunciate dal grande Nurudin Farah sul primo romanzo della scrittrice sudafricana «Bom Boy», pubblicato da «Modjaji Books». Yewande è stata finalista del Sunday Times Fiction Award e vincitrice del South African Literary Award per l’opera prima. Quale migliore introduzione per una giovane autrice al proprio debutto. Senza dubbio Yewande Omotos è una scrittrice insolita, divisa tra la sua professione di architetto e quella letteraria. Incontrarla è come accostarsi a un fiume che scorre veloce verso il mare in cerca di spazio aperto. Occhi curiosi che sembrano cercare la profondità di quelli dei suoi interlocutori, sorriso contagioso, l’entusiasmo e l’avvolgente musicalità della sua voce sono come una seconda pelle.
Nata alle Barbados, cresciuta in Nigeria e in Sudafrica, Yewande vanta una famiglia di artisti, dal padre, Koled Omotoso, scrittore e intellettuale nigeriano ad Akin Omotoso, attore, regista e produttore cinematografico di successo.
Cape Town è la città co-protagonista insieme a Leke, il personaggio di «Bom Boy». La città vibra sotto i passi di Leke, il suo procedere per le strade della città, rivela il disagio interiore di chi, come lui, non riesce a trovare un ruolo nella società in cui vive. Lo sfondo è il moderno Sudafrica, un Paese che ancora “in between” il passato e il futuro, sperimentando un presente con tutte le sue complessità sociali, culturali, politiche ed economiche dove la vita richiede una buona dose di coraggio e di responsabilità, e dove, ancor più qui che altrove, l’identità e la coscienza di sé sono mete difficili da raggiungere senza un punto di riferimento. Leke che inizialmente conduce una esistenza marginale e limitata, incapace di rispondere alle richieste della sua società, alla fine ci racconta un’altra storia con un finale aperto di possibilità e di speranza. Yewande Omotoso narra, attraverso una narrazione seducente, l’esile filo che lega la vita degli uomini ai margini, su come sia facile sentirsi dislocati, persi anche nel proprio Paese-città-famiglia in mancanza di una forte percezione della propria identità
VALENTINA A. MMAKA – Yewande, tu porti con te l’esperienza di vivere fra culture diverse: sei nata alle Barbados, cresciuta in Nigeria e dal 1992 vivi in Sudafrica. In che modo queste culture sono riflesse nella tua scrittura e come convivono in te?
YEWANDE OMOTOSO – Vivendo tra culture, penso che le differenze non vadano considerate una minaccia ma il suo opposto, un’opportunità di crescita. Tendo a scrivere di persone che vivono in un Paese straniero, che non appartengono a esso o quanto meno non riescono a sentirsene parte, visitatori o persone la cui relazione con l’ambiente della storia è appena sfiorata. Tuttavia poiché ho vissuto gran parte della mia vita in Sudafrica, soprattutto a Cape Town, per me è il luogo più facile per ambientare le mie storie. A mano a mano che il tempo passa spero di acquisire sufficiente conoscenza e un pizzico di coraggio in più per ambientare storie anche in Nigeria o alle Barbados, ma non è possibile, come scrittrice, inventare familiarità con un luogo se non ce l’hai.
VALENTINA A. MMAKA – Credi che il concetto di identità sia collegato all’idea di radici, a uno specifico luogo geografico? Cos’è l’identità per te?
YEWANDE OMOTOSO – L’identità è un insieme complesso di molteplici esperienze, intendimenti e proiezioni, speranze per il futuro. Sì, ritengo che un legame con un luogo geografico specifico possa formare una parte dell’identità di ciascuno anche se questo può non essere valido per tutti. Infatti il rifiuto di una connessione a una specificità geografica può anch’esso formare l’identità. Devo essere sincera, non penso troppo all’identità come un topos, per me è un po’ come un’ombra (piuttosto che un abito). E’ qualcosa di organico, che è formato dal risultato delle mie culture, esperienze, del modo in cui sono cresciuta. Sai che la tua ombra è lì, e che a una specifica ora sei consapevole della sua presenza, ma non senti il bisogno di dilungarti su di essa.
VALENTINA A. MMAKA – Edward Said, nel suo bellissimo «Orientalismo», citando il monaco sassone Hugo di San Vittore (XII secolo) scrive: «L’uomo che trova dolce il luogo natale è ancora un tenero principiante; quello per cui ogni suolo è come il suolo nativo è già più forte; ma perfetto è quello per cui l’intero mondo è un Paese straniero». Come ti relazioni a questa citazione? Credi che ti rappresenti?
YEWANDE OMOTOSO – Mi ricorda una interessante dicotomia su cui spesso rifletto, puoi appartenere e non appartenere al tempo stesso. E l’ “appartenere” è un concetto così ricercato dall’essere umano perché dà il beneficio della comodità, della sicurezza e dell’affinità. La cosa interessante della citazione è che propone come migliore opzione quella di eterno outsider, ovvero colui che non appartiene davvero a nessun luogo. Personalmente io mi relaziono con tutti e tre gli uomini citati e mentre resto affascinata dalla classificazione di Said, ho dei dubbi su quale mio stato esistenziale corrisponda all’uno e all’altro. A questo punto della mia vita, trovo la questione troppo complessa per avere certezze.
VALENTINA A. MMAKA – Sei arrivata a Cape Town nel 1992, due anni prima che il Sudafrica dichiarasse la fine dell’apartheid. Qual è stato il tuo primo impatto con il Paese da bambina e come ti relazioni al Sudafrica di oggi? Ti sei mai sentita “diversa” provenendo dalla Nigeria da una famiglia multiculturale come la tua?
YEWANDE OMOTOSO – A 11 anni del Sudafrica sapevo che era un Paese a cui non piacevano le persone nere. Dopo un periodo di confusione iniziale in cui cercavo di capire perché mio padre voleva farci vivere lì, ho allungato lo sguardo a qualcosa di diverso, di nuovo. Abbiamo vissuto a Belville, in un Holiday Inn per i primi mesi mentre i miei genitori cercavano una casa da comprare e una scuola in cui mandare me e i miei fratelli. E’ stato uno shock culturale, non riuscivo a capire pienamente cosa fosse successo nel Paese prima del nostro arrivo, era come se fossi entrata in una stanza dopo che due persone avevano litigato. Cosa era successo prima che arrivassi? L’orrore dell’apartheid mi era sconosciuto. Non riuscivo a inserirmi e ci sono voluti tre anni prima che mi facessi degli amici. Oggi il Sudafrica è la mia casa, alcuni dei miei migliori amici sono sudafricani e sono molto partecipe al futuro di questo Paese come qualunque altro sudafricano. Vedo me stessa come qualcuno in grado di prendere parte e contribuire a farlo crescere.
VALENTINA A. MMAKA –Puoi raccontarci tre buoni motivi perché il Sudafrica è un buon Paese dove vivere?
YEWANDE OMOTOSO – Innanzi tutto è un Paese con una storia unica. Come scrittrice, come del resto chiunque altro, è incredibile vivere in uno spazio così complesso in termini di relazioni umane e assistere in prima persona ai cambiamenti del Paese. Testimoniarne i successi e imparare dagli errori, aiutare a renderlo migliore. E’, in secondo luogo, un paese bellissimo: «straordinario oltre ogni immaginazione» per citare Alan Paton. Infine il Sudafrica fa rima con il futuro, la lotta alla corruzione sta funzionando in qualche ambito del Paese; ci sono grandi infrastrutture, le autostrade, l’Hi-tech senza contare i servizi basilari come acqua ed elettricità, tutte cose che in altri Paesi africani non possono essere dati per scontati.
VALENTINA A. MMAKA – Hai mai pensato di vivere in un altro Paese?
YEWANDE OMOTOSO – Sì, ci penso spesso. Ho uno spirito avventuroso e non mi costerebbe alcuna fatica viaggiare e vivere in altri Paesi, senza un luogo specifico in mente. Tuttavia il Sudafrica è per me il Paese giusto, qui vive la mia famiglia.
VALENTINA A. MMAKA – Quando hai iniziato a scrivere? A chi devi il tuo dono affabulatorio? A tuo padre, alla Nigeria o a qualcos’altro?
YEWANDE OMOTOSO – Ho vivo il ricordo di quando scrivevo a mano piccoli libri illustrati da mia cugina. Avrò avuto circa sette o otto anni. Le storie erano pessime! Credo comunque che crescere in una casa di scrittori e lettori, con tutti i libri che i miei genitori leggevano a me e ai miei fratelli alla sera, abbia avuto la sua influenza.
VALENTINA A. MMAKA – Quali scrittori consideri i tuoi padri e/ o madri letterarie?
YEWANDE OMOTOSO – Ho letto molto Rosa Guy da ragazza fino a quando nel pieno della mia adolescenza ho scoperto Toni Morrison. Libri come «So Long A Letter» di Mariama Bâ hanno avuto un impatto notevole su di me. Poi ci sono scrittori africani e caraibici come Zee Edgell (Beka Lamb), George Lamming o il poeta Martin Carter che considero importanti.
VALENTINA A. MMAKA – Tutti abbiamo un libro (sicuramente più d’uno) che in qualche modo ha cambiato la nostra percezione della vita, puoi dirci qual è stato per te?
YEWANDE OMOTOSO – «Yoruba Girl Dancing» di Simi Bedford che devo aver letto per la prima volta a 11 anni. E’ uno dei miei libri preferiti, leggendolo ho avuto la sensazione che la mia storia fosse stata scritta.
VALENTINA A. MMAKA – Nelle culture africane e in quelle caraibiche lo storyteller permea la vita quotidiana della gente. C’è stato qualcuno nella tua infanzia o adolescenza che ti raccontava le storie? Ne ricordi qualcuna in particolare che ti ha colpita tanto di desiderare di diventare una scrittrice?
YEWANDE OMOTOSO – I miei genitori erano grandi narratori. Ricordo le serate in cui mio padre ci riuniva tutti e cominciava a raccontare storie in inglese ma anche in yoruba. Non so se nell’ascoltare quelle storie, percepivo il desidero di diventare una scrittrice. Ricordo però che amavo quei momenti, ascoltare e in fondo sembra quasi che la scrittura fosse già una possibilità della mia vita.
VALENTINA A. MMAKA – «Bom Boy» ha ricevuto grande favore dalla critica e dai lettori. Quando hai incontrato il tuo personaggio Leke per la prima volta?
YEWANDE OMOTOSO – Nel 2008 pensai a un personaggio che doveva vivere ai limiti della società, una persona eccentrica. A poco a poco, frequentando questa idea, è saltato fuori Leke. Ma le cose non sono sempre così semplici, infatti Leke è diventato Leke solo molto tempo dopo. Inizialmente il personaggio si chiamava Femi, era un tipo violento, tanto da essere capace di rubare e usare violenza contro una donna. Negli anni, cercando di capire questa persona, ho scoperto che il suo vero nome era Leke e che in fondo non era poi così violento, era più che altro solo e in mezzo ai guai.
VALENTINA A. MMAKA – Leke è il tipo di personaggio che si può trovare in qualunque tipo di società moderna. Quando la sua madre adottiva muore, è come se il mondo esterno fosse troppo grande per affrontarlo, è come se l’unico modo, l’unico linguaggio che conosce è venire associati con i perdenti della società, i disperati, i negletti. Cosa rende Leke privo di strumenti per affrontare il mondo da uomo?
YEWANDE OMOTOSO – Non sono certa di saperlo. Cosa rende chiunque di noi impreparato rispetto alle richieste del mondo? Penso che il mondo fosse pericoloso per Leke, una sorta di minaccia. Sembra essere uno che intimorisce gli altri, uno che spaventa, ma in realtà è lui che è terrificato tanto da vivere in un contesto marginale proprio per poterlo tenere sotto controllo. Se sua madre fosse vissuta, se avesse potuto sentirsi al sicuro, forse le sue esperienze sarebbero state diverse. Sarebbe un po’ come dire che se riuscisse a imparare di più su se stesso, sul suo patrimonio identitario, troverebbe una sua stabilità.
VALENTINA A. MMAKA – Non pensi che in una società complessa come quella sudafricana che manifesta ancora segni di disagio socio economico, esista un rischio reale che i giovani possano sempre più assomigliare a Leke imitando le sue scelte, incapaci di affrontare la realtà in cui vivono. Pensi che i giovani sudafricani siano positivi riguardo al loro futuro?
YEWANDE OMOTOSO – Non credo di essere in grado di parlare a nome della gioventù sudafricana. Tuttavia essere giovani è sempre stato complicato! Cerchi di capire, fai errori. Sicuramente il senso di perdita di identità, forse l’assenza di un modello con cui interagire, la tendenza a vagabondare come forma di estraniamento, sono tutti elementi che portano tanti giovani a vivere e diventare come Leke, persone disconnesse dalla loro storia personale e da se stessi.
VALENTINA A. MMAKA – Avresti scritto «Bom Boy» se non fossi vissuta in Sudafrica? La storia di Leke avrebbe potuto calzare in Nigeria, non trovi? Quanto conta il luogo nel contesto di una storia?
YEWANDE OMOTOSO – Penso che i luoghi siano molto importanti nella narrazione. Non so se avrei scritto «Bom Boy» se non avessi vissuto in Sudafrica, ne dubito. Credo che avrei scritto qualcos’altro. La storia di Leke è specifica all’idea di vivere “lontano”, ai margini della società diversamente da chi vive riconosciuto all’interno di una comunità.
VALENTINA A. MMAKA – Dopo l’apartheid, il Sudafrica ancora fatica a promuovere nuovi autori, soprattutto donne e scrittori neri. Come vivi il fatto di essere una donna nera in Sudafrica? Quali sono le principali difficoltà nell’essere considerata per il tuo lavoro e nel trovare spazi in cui confrontarti con altri scrittori?
YEWANDE OMOTOSO – E’ una domanda difficile. In molti modi mi sento una privilegiata, anche perché non penso spesso al pregiudizio come a una ragione per la quale una cosa accada o non accada. Non sono del tutto cosciente del mio essere una scrittrice nera. Io sono me stessa innanzi tutto, il resto sono dettagli. Detto questo, sì, va fatto molto di più di quanto già non si faccia per promuovere le giovani scrittrici che vivono lontano dalle città, che non possiedono necessariamente un vocabolario (e parlo per tutte le lingue di questo Paese). Queste sono donne con storie incredibili da raccontare, dobbiamo trovare sempre più modi per nutrire queste voci e farle uscire allo scoperto. Mi sento responsabile di questo al pari del governo, degli editori, degli altri membri della comunità letteraria.
VALENTINA A. MMAKA – Hai frequentato un Corso di scrittura creativa presso la Cape Town University e la scorsa estate hai partecipato al Farafina Writing Workshop in Nigeria insieme ad altri scrittori africani sotto la guida di autori del calibro di Binyavanga Wainaina e Chimamanda Ngozi Adichie. Molti che hanno pubblicato il loro primo libro a seguito di un corso di scrittura, hanno rivelato, ricordando il loro esordio, che il contesto in cui la loro opera prima aveva preso vita era troppo “artificioso”. L’idea di dover scrivere sotto pressione confrontandosi con un gruppo eterogeneo di persone, ciascuna con un proprio diverso giudizio critico sul lavoro svolto, a molti è parso poco aderente al mestiere di scrittore. Qual è stata la tua esperienza? Cosa ti ha lasciato l’esperienza di Farafina?
YEWANDE OMOTOSO – Ho frequentato entrambe i laboratori successivamente alla pubblicazione di «Bom Boy». Il Caine Prize Workshop e il Farafina Workshop sono due tipologie di laboratorio molto diverse dal punto di vista organizzativo. Il Caine ti chiede di realizzare una breve storia in dieci giorni mentre il Farafina non è così fiscale. Il Caine senza dubbio mette il partecipante sotto pressione, una volta sottoposta la storia non può più essere modificata e una volta pubblicata è impossibile ritirarla, perciò si deve lavorare sodo affinché il risultato finale sia eccellente e l’autore non debba pentirsene. Ho imparato molto al Caine in termini di editing, scrivere, riscrivere e riscrivere nuovamente fino a trovare la forma giusta. Il Farafina workshop tuttavia è stata una esperienza davvero speciale, forse per la mia grande ammirazione verso Chimamanda, e anche per il fatto che si è svolto in Nigeria, il mio Paese. Ho amato di questo laboratorio l’assenza totale di tensione, non era necessario produrre un testo finito in un tempo limitato, si dedicava molto tempo alla discussione e alla riflessione sulla scrittura, agli esercizi pratici che ci venivano assegnati e alle molteplici letture che ci affidavano. A parte Chimamanda e Binyavanga, che hanno condiviso le loro idee e commentato i nostri lavori, ho incontrato ben 21 giovani scrittori che come me hanno partecipato al laboratorio. Con molti di essi sono diventata amica. In entrambe le esperienze il gruppo di discussione intimidiva ma un amico scrittore un giorno mi ha detto che ciò che realmente conta per diventare bravi è mettere da parte il tuo ego ed essere disposto a confrontarti con altri migliori di te e non smettere mai di imparare.
VALENTINA A. MMAKA – Tu sei un architetto e scrivi. Hai più volte raccontato di come tuo padre ti abbia suggerito di intraprendere una professione che ti desse l’indipendenza economica in modo da non dover dipendere dall’universo maschile, consiglio che ti diede sapendo tuttavia che questo non ti avrebbe impedito di realizzare il tuo grande sogno di diventare scrittrice. Cosa consigli a chi desideri scrivere?
YEWANDE OMOTOSO – A parte leggere, leggere e leggere (leggere più di quanto si scrive) ci vuole una dose di coraggio. Può intimorire creare e presentare al mondo qualcosa a cui hai dedicato il tuo cuore. Bisogna senz’altro coltivare una certa disciplina e sviluppare un livello di organizzazione. Infine una delle cose che ritengo preziosa è trovare un lettore, qualcuno in cui si ha fiducia (magari un altro scrittore) a cui far leggere cosa scrivi e che sappia dare un giudizio critico senza lesionare la fiducia nel nostro lavoro.
VALENTINA A. MMAKA – Conosci qualche autore italiano?
YEWANDE OMOTOSO – Sì, sono un’ammiratrice di Italo Calvino, «Le città invisibili» è stata una delle letture assegnateci alla facoltà di Architettura. Ho amato molto anche «Il barone rampante».