Intervista ad Angela Davis
di Livia Bloom
(tratto dal più ampio servizio «Angela Davis on Free Angela & all political prisoners»per «Film maker magazine» del 15 settembre 2012; traduzione di Maria G. Di Rienzo. «Free Angela…» è un documentario sulla vita di Angela Davis diretto dalla regista Shola Lynch.)
Livia Bloom (LB): Come sei stata coinvolta nella creazione del documentario?
Angela Davis (AD): Shola Lynch è in amicizia con mia nipote (l’attrice Eisa Davis, che interpreta Angela in alcune ricostruzioni del film, nda). Mi ha proposto l’idea e io ho ci ho pensato su. C’è voluto un po’ per convincermi (ride). Abbiamo avuto parecchi colloqui e alla fine mi sono detta che poteva essere una cosa buona. A volte è importante per una persona giovane avere nuove prospettive da cui guardare gli eventi storici. Ma sin dall’inizio ho detto a Shola: «Questo è il tuo film, questa è la tua visione di quel periodo». Abbiamo discusso e discusso ma alla fine il documentario è lavoro suo.
Non sono interessata a far conoscere alla gente altri particolari della mia vita, mi interessa invece che si dia riconoscimento al potere della campagna che si sviluppò attorno al mio caso. Moltissime persone vi parteciparono e si identificarono con la mia storia. E’ importante trasmettere alle nuove generazioni che è possibile unirsi e provare solidarietà e senso di unione attraversando confini etnici, economici, di genere e nazionali. Ci sarebbe bisogno di usare un po’ di questo, oggi.
LB: Nel titolo del film si nominano i prigionieri politici. Cosa significa, per te, “prigioniero politico”?
AD: Un prigioniero politico è qualcuno che è in galera per le sue convinzioni o per le sue appartenenze. Mumia Abu-Jamal, per esempio, è ancora in prigione. Vi è comunque una definizione più vasta per “prigioniero politico”, se ci pensiamo su. Gli Usa, ovviamente, sono il Paese con più carcerati al mondo. La prigione è diventata la soluzione, in mancanza d’altro, per problemi che dovrebbero essere risolti dalle istituzioni scolastiche, dai servizi sanitari, dalla disponibilità di alloggi, eccetera. Il concetto di “prigioniero politico” non può rimanere statico.
Quando la campagna attorno al mio caso cominciò a svilupparsi, io ed altri compagni arrivammo alla conclusione che essa non doveva essere concentrata su di me come persona, ma sulla più ampia questione della repressione politica. Fu per questo che l’organizzazione collegata alla campagna si chiamò «Comitato nazionale unito per la liberazione di Angela Davis e di tutti i prigionieri politici». Non appena fui libera, cominciammo subito a lavorare su altri casi. Da allora si può dire che ho lavorato costantemente sui diritti dei carcerati, sugli imprigionamenti politici e sulle implicazioni razziste del sistema carcerario.
LB: In che modo tu eri una prigioniera politica?
AD: Ero coinvolta in un certo numero di organizzazioni politiche: ero stata attiva nelle Pantere Nere, ero stata attiva nel Comitato nonviolento di coordinamento degli studenti (Sncc) ed ero iscritta al Partito Comunista. Quando fui licenziata dal mio incarico di insegnamento all’Ucla, la causa fu la mia appartenenza al Partito Comunista. Questa affiliazione e il retroscena con le Pantere Nere mi resero un bersaglio assai facile per le accuse di omicidio, rapimento e cospirazione che mi vennero fatte. Ed è un fatto che ai potenziali giurati del mio processo fu chiesto se credevano io fossi una “prigioniera politica”. Il giudice principale non voleva quelli che pensavano io lo fossi: disse loro che ero in prigione per reati di criminalità comune. Naturalmente gli Usa non hanno una categoria per i prigionieri politici, per cui le persone incarcerate a causa delle loro convinzioni politiche sono sempre accusate di reati comuni. Sino a oggi, si continua a dire che non ci sono prigionieri politici negli Stati Uniti, perché noi abitiamo in un Paese in cui gli individui hanno libertà di parola e di affiliazione politica. Quando sono stata licenziata perché ero iscritta al Partito Comunista ho scoperto che non era così.
La seconda volta mi licenziarono per le mie attività a sostegno dei Soledad Brothers (George Jackson, Fleeta Drumgo e John Clutchette, che erano carcerati nella prigione di Soledad, nda) e me lo dissero senza tergiversare: mi mandavano via perché svolgevo «attività inadatte a una docente». Non dovevo parlare durante le manifestazioni o fare politica fuori dal campus. Il che, naturalmente, è ridicolo.
Quando insegnavo all’Ucla c’era chi sosteneva che, essendo io comunista, avrei indottrinato i miei studenti invece di insegnare. Ma io ho sempre messo in pratica il principio di dire ai miei studenti quali erano le mie convinzioni e le mie affiliazioni politiche e di chiedere loro che si scegliessero autonomamente le proprie. «Questo è ciò che credo» dicevo loro: «Non vi sto domandando di unirvi a me, ma dovete sapere in cosa credo per potere giudicare da voi stessi i miei commenti su qualsiasi argomento».
LB: Non ricordo uno solo dei miei insegnanti di storia essere così chiaro sulle sue opinioni politiche.
AD: Be’, ma io insegnavo marxismo, perciò… (ride) Ero stata assunta per parlare di un soggetto in cui ero coinvolta, a livello pratico, da molto tempo. Non ho mai visto Marx come un filosofo che ci aveva informati di come sarebbe stata la rivoluzione e di che mondo avremmo visto dopo il capitalismo. Ci ha invece fornito un modo per capire il mondo in cui viviamo, per capire sino a che punto le economie politiche si insinuano in tutti gli aspetti della nostra vita. Era vero cinquant’anni fa quando io incontrai Marx per la prima volta, ma oggi, con l’impatto del capitalismo globale, è ancora più vero. Per usare un termine accademico, il capitalismo “sovradetermina” tutto. Potresti dire che persino i sogni delle persone sono sogni del capitalismo. Vedo studenti che vogliono essere “professionisti” prima ancora di aver imparato ciò di cui hanno bisogno: la loro convinzione è che il mercato è tutto.
Una volta eravamo più capaci di distinguere con chiarezza il capitalismo dalla democrazia. Adesso, in tutto il mondo, la gente pensa che “democrazia” sia un sinonimo di “capitalismo”. Paesi del sud del mondo, a esempio in Africa, hanno completamente trasformato le loro economie in economie capitaliste, anche se la maggior parte della loro popolazione vive in povertà abietta, e non ha senso avere un’economia del profitto quando stai tentando di soddisfare i bisogni di così tante persone. Dobbiamo lavorare su questa faccenda. E’ la ragione per cui il movimento Occupy ha fatto irruzione nel suo specifico modo: era un’indicazione che c’è bisogno di trovare un nuovo vocabolario per parlare pubblicamente del capitalismo. Ora è possibile parlarne, criticare il capitalismo in una maniera che era impossibile solo cinque anni fa.
LB: E il femminismo c’entra, in qualche modo?
AD: Io vedo il femminismo come un modo per comprendere l’interconnessione di genere, razza, classe, sessualità, economia e trans-nazionalismo. Il femminismo è non solo i diritti delle donne, ma una delle strategie più importanti per aiutarci a capire le questioni che ho nominato e le maniere in cui esse sono legate l’una all’altra.