Jacinda Ardern e il nostro diritto al fallimento
di Roberto Loddo (ripreso da www.manifestosardo.org)
“Sono un essere umano. Diamo tutto quello che possiamo per tutto il tempo che possiamo, e poi arriva il momento. E per me quel momento è arrivato”. Mi hanno colpito nel profondo le parole della dimissionaria premier neozelandese Jacinda Ardern, parole che possono essere estese a qualsiasi dimensione della nostra società dominata dal grande culto dell’efficienza e della prestazione a qualsiasi costo.
E allora chi è che garantisce i diritti e la libertà delle persone che vivono l’esperienza del fallimento? Spesso ci dimentichiamo che più di quarant’anni fa i nostri servizi di salute sono stati travolti da una piccola rivoluzione, una lotta politica e culturale che ha portato all’approvazione della Legge 180 e al cambiamento radicale dei diritti umani e civili delle persone che vivono l’esperienza della sofferenza mentale. Il sogno interrotto di Basaglia è contenuto nei dettagli della mancata applicazione dei principi della deistituzionalizzazione. Per questo le persone che non funzionano più come vorremmo sono da un lato escluse dalle garanzie costituzionali ma dall’altro sono ancora oggi, di fatto, elemento costituente della società basata sull’esclusione sociale e sulla disuguaglianza.
Gli effetti delle disuguaglianze hanno prodotto una società tradita dalle promesse di benessere del neoliberismo in cui dovevamo essere tutti più felici lavorando di più e rinunciando a parte dei diritti sociali. Al contrario ci siamo ritrovati appiattiti in una società malata e contaminata da relazioni umane basate sulla violenza dove non sono le persone ad essere al centro dei bisogni dello stato ma solo i mercati e la finanza. Questo mondo spinge le persone a rimanere sole, isolate nell’egoismo e nell’individualità della mercificazione quotidiana, e non prevede, non consente, il tempo per il loro fallimento e non consente loro di avere nuove opportunità e nuove possibilità.
Senza il tempo per il fallimento siamo esseri divisi e separati da un ordine sociale basato dalla produttività e dall’efficienza. Sei giusto se produci e consumi e sei matto e sbagliato se non lo fai. E se non lo fai hai fallito, perché non hai diritto a seconde possibilità. Nel mondo per fatto per i giusti, il fallimento è declinato solo come insuccesso e sconfitta.
La relazione tra il tempo del fallimento e la salute mentale è ben visibile nella qualità sempre più insufficiente della presa in cura e nella mancata organizzazione dei servizi di salute mentale, nell’assenza di partecipazione e di consenso da parte di chi utilizza i servizi di salute mentale che diventano un non luogo verticale dove non c’è più spazio per praticare il rispetto dei diritti umani e dei diritti di cittadinanza. C’è solo un ambulatorio che cataloga le persone dispensando farmaci e terapie.
Non ci può essere diritto al fallimento se rimane solo l’appuntamento con lo psichiatra per la fiala depot, se rimane solo il ricovero nei reparti ospedalieri degli Spdc, se mancano i percorsi di presa in cura individuali orientati al miglioramento della qualità della vita, se mancano gli strumenti per il diritto all’abitare, al lavoro e alle relazioni sociali e affettive.
Non possiamo permetterci di fallire con poco personale nei Centri di salute mentale, con centri di riabilitazione diurna senza risorse, con tante persone che vivono la loro sofferenza restando tutto il giorno chiusi in casa con un intervento farmacologico che non è accompagnato da una riabilitazione e da un adeguato sostegno psicologico, con i familiari in balia di un carico enorme e senza prospettive future.
Non possiamo permetterci di fallire e senza il tempo per il fallimento non ci può essere crescita e nemmeno libertà. Siamo ingabbiati in una forma moderna di schiavitù, la schiavitù 2.0 di chi soffre ma deve stare in silenzio, di chi lavora ma rimane povero, di chi vive la negazione della propria identità. Nuovi schiavi obbligati a stare al mondo come esseri perennemente soddisfatti, sempre giusti e privi della possibilità di fare errori.
Una società nuova, basata sulla giustizia, sulla democrazia e sull’eguaglianza deve anche avere un tempo per il fallimento. Alle persone deve essere garantita per legge la possibilità di commettere errori, di perdere, di essere sconfitti, di ripensarsi, di avere dubbi e di prendere decisioni sbagliate. Dobbiamo avere il diritto di costruire percorsi di vita che crollano senza che ci sia una società che ci giudichi e che ci condanni. Il diritto al fallimento andrebbe inserito nella Costituzione.
Avere il diritto di praticare il fallimento significa avere la possibilità di essere antagonisti a questo sistema.