Jean Luc Picard, in dialogo con l’altro
Un’intervista impossibile – di Fabrizio (Astrofilosofo) Melodia – a bordo della Enterprise Ncc 1701-D
E’ una strana sensazione quella che prende quando ti senti lentamente scomporre a livello subatomico, come un leggero formicolio, unito a un brivido interrotto da un momentaneo oblio che dura l’esatto istante di un respiro mozzato.
Per un breve istante il pensiero si ferma, un insano oblio si fa strada nella mente, una paura atavica s’insinua nel midollo, quella di non rivedere più il giorno.
Eppure tutto ha una fine, i pensieri riprendono, la sudorazione si riforma, il leggero tremolio alle mani si ripresenta. Il tenente addetto al teletrasporto dell’astronave mi invita a seguire il consigliere, una donna stupenda, mora e riccia, che con sguardo gentile e modi aggraziati mi dà il benvenuto.
La seguo docilmente, so che sta sondando i miei pensieri, ma non mi faccio problemi. Il mio pensiero prima di addentrarmi per i corridoi color panna e grafite, è dedicato al mio traduttore di realtà, il marchingegno donatomi dal mio Ordine, in grado di aprire varchi crono-dimensionali verso altri mondi. Mi sarà facile dopo lasciare il luogo dove mi trovo, la nave stellare Enterprise NCC 1701-D.
E’ il fiore all’occhiello della Federazione dei Pianeti Uniti: essa è arrivata a scoprire luoghi oltre ogni immaginazione, a combattere battaglie (non volute) mentre condivideva le gioie e i dolori del proprio equipaggio.
Il consigliere suona alla porta dello studio del mio interlocutore, una autentica leggenda per la flotta stellare; non per nulla ho deciso di raccogliere la sua testimonianza, preziosa per l’archivio del mio Ordine. Io sono un Astrofilosofo, i membri del mio Ordine sono reclutati ai quattro angoli del Multiverso, mandati dal Guardiano dell’Eternità a osservare, raccogliere e riferire.
La porta si apre e il mio interlocutore si alza in piedi, mi tende la mano, che stringo saldamente. Una bella stretta, schietta e sincera, di un uomo colto e gentile, anche se dal carattere indomito e dalla curiosità sfrenata.
Il capitano Jean Luc Picard, della Uss Enterprise, mi fa accomodare alla sua scrivania: dietro ha una parete letteralmente tappezzata di modelli in scala di varie astronavi, da un lato edizioni di pregio di tomi finemente rilegati, dall’altro posso vedere una finestra con il cosmo a fare da sfondo.
Sorseggio il thè, rigorosamente Earl Grey, che mi offre insieme agli immancabili croissant.
Prendo dalla tasca il mio taccuino dalle copertine nere rigide, pronto a prendere appunti. E inizio.
Sono davvero onorato di fare la sua conoscenza, capitano. Per favore, vorrebbe brevemente presentarsi ai miei lettori?
«Certamente. Sono il capitano Jean Luc Picard, della nave stellare Uss Enterprise, classe Galaxy. Sono in servizio su questa nave ormai da sette anni, sono di origine francese, la mia famiglia coltiva vigneti e produce dell’ottimo vino artigianale. Sono appassionato di archeologia e sono un bibliofilo incallito. A volte sono un po’ scostante e fino a non molto tempo addietro soffrivo di una strana idiosincrasia nei confronti dei bambini, non riuscivo a sopportarli. Ho conosciuto nuove forme di vita, alcune pacifiche altre meno. Alcune davvero singolari, come il signor Q, del Continuum da cui prende il nome, una sorte di giocosa divinità. Altre davvero letali, come i Borg, gli utenti finali, che tutto assimilano e tutto nullificano alla loro Collettività. Amo i croissant e andare a cavallo».
La ringrazio molto, Capitano. Da quel che vedo, la Prima Direttiva della Federazione dei pianeti uniti pone il suo fulcro riguardo alla non interferenza con le altre forme di vita che progressivamente andate a incontrare durante i vostri lunghi viaggi. In ogni incontro avete dovuto fare i salti mortali per instaurare buoni rapporti con ciò che è diverso dall’umano, spesso con evidenti problemi linguistici, nonostante i traduttori universali che portate implementati nella vostra gola. Quanto è importante la comprensione reciproca per chiunque voglia intraprendere il cammino che porta alla pace, alla concordia e all’amore universale?
«Nessuna pace è mai stata raggiunta o è mai stata duratura senza la base del dialogo e della condivisione dei propri mondi interiori, del riconoscimento delle proprie identità andando oltre ogni possibile interesse o tornaconto personale».
Nel mondo da cui provengo vigono le leggi dell’economia capitalista e del fondamentalismo religioso più reazionario: questa sua affermazione non le sembra un’utopia irraggiungibile?
«No! La comunicazione è una questione essenzialmente di pazienza e immaginazione. A prescindere da ogni questione, è la sola via che permette di ricucire queste ferite».
Lei parla di linguaggio e di comunicazione: com’è stata la sua esperienza con il Diverso, con entità che parlano a esempio per metafore derivanti dal loro mondo mitologico, simbolico?
«Lei si riferisce alla mia missione con i Tamariani. Ho condiviso la necessità della sopravvivenza insieme al loro capitano Dathon, sul boscoso pianeta di El-Adrel. Il capitano Dathon aveva capito perfettamente che per poter comprendere il loro linguaggio, fatto di metafore e simbolismi figurativi, dovevo condividere con lui le medesime immagini, con un orizzonte e un significato comuni. Così abbiamo condiviso la stessa metafora mitologica, collaborando per aiutarci a vicenda nella dura lotta per la sopravvivenza, riscoprendo il significato più profondo di amicizia e comprensione. La morte del capitano mi ha fatto capire quanto siamo legati, cioè troppo, alle nostre strutture linguistiche sintattico-grammaticali. Pensiamo, con molta arroganza e presunzione, che solo esse possano essere referenti corrette di qualcosa».
Si riferisce al modo della scienza?
«Sì. In un mondo completamente dominato dalla scienza, è abolito ciò che appare evocativo e poetico, a favore del modo di descrivere obbiettivamente la realtà».
E’ qualcosa di simile a una prigione di parole? Una gabbia che abbiamo costruito per pensare e imprigionare il mondo in una rete di leggi ed espressioni matematiche?
«Precisamente. Il nostro primo dovere è una scienza dell’anima, una scienza che ristabilisca la comunicazione fra la nostra anima e quella dell’Altro».
Si potrebbe dire che bisogna essere un’idea: le individualità non devono essere soppresse o annullate da una volontà egoistica e meschina. Ma gli esseri umani non somigliano più intimamente a lupi che sbranano i loro simili?
«Concordo sul fatto che abbiamo l’anima del lupo: nel passato gli umani erano affetti dal sacro furore della Verità incarnata nelle Idee monumentali, come dimostra l’uso che fanno della loro cultura fondante».
Non è assurdo pensare che gli uomini riescano ad andare oltre la loro natura di belve e a cambiare il proprio animo?
«Come quel popolo alieno ci ha insegnato, è necessario imparare a vincersi. L’unico mezzo è il decentramento della propria personalità verso un universale che comprende ogni loro cosa, il loro sentire, il loro vivere, il loro stesso pensare logico: l’unica strada che abbia permesso una così grande comunanza e il raggiungimento di uno spirito comune.
Non guardare al proprio interesse o al proprio prestigio o all’orgoglio, all’accrescere la propria potenza personale per dominare, alla sovrabbondanza della volontà che si manifesta nel volere a tutti i costi se stessa, al proprio perpetuo mantenimento vitale, ma puntare a capire e farsi capire, di comunicare: una volontà di pace e non di potenza perpetuata all’infinito.
La pace è l’inizio non il fine ultimo».
Il dialogo dunque è fondamento stesso della pace senza il quale essa è una condizione puramente ideale e magari veicolo, pretesto della più assurda barbarie?
«Gli ingegneri etici operano per portare la pace con la forza della tecnologia e del dominio, ma i Tamariani invece sono pronti a tutto per stabilire rapporti e amicizia duratura. La loro filosofia è quanto di più alto può esprimere l’ideale democratico concretizzato, ovvero che tutte le idee possono sussistere senza che una di esse formi un terribile anello cancrenoso.
E’ un linguaggio che non si cristallizza e non rende pietra morta il dialogo con l’altro, ma è fecondo e permette di giungere a un avanzamento di entrambi gli interlocutori. Non più una guida che prende per mano e porta sulla retta via il perplesso, ma due “cercatori” che si prendono per mano e percorrono la via comune della conoscenza. E’ stato solo con il confronto e il ritrovarsi fra simboli comuni o molto simili che si sono potute sviluppare vera conoscenza e vera amicizia, che vuol dire rispetto e dialogo».
Questo significa che non ci possono essere degli assoluti che si contrappongono: sono le persone con le loro idee, i loro miti, le loro speranze, le loro paure, i loro pregiudizi ad avventurarsi nel dialogo cercando di creare un territorio comune senza essere fraintesi o fraintendere?
«Vero. Il solo modo di parlare con l’altro è cercare di condividerne il modo di vedere: non solo scambiarsi gli occhiali, ovvero la struttura grammaticale della lingua, ma anche gli occhi, il sostrato mitico che sta alla base della sua cultura e del suo stesso modo di pensare. E allora imparare a viaggiare insieme, a scoprire nuovi mondi, a vivere nell’amicizia e nel rispetto reciproco, prescindendo dai propri interessi personali, dal proprio tornaconto, dal proprio orgoglio e soprattutto lanciarsi in questo gioco del superare i rispettivi ostacoli alla conoscenza e quindi al modo di relazionarsi».
La vecchia trappola di rinchiudersi e considerare l’altro o come uguale a sè oppure come incomprensibile. Per gli esseri umani la condanna a non conoscere il dissimile?
«I Tamariani soltanto nel dialogo riconoscono il vero raggiungimento della sapienza e solamente quando essi hanno la possibilità di stabilire un contatto ritengono di aver raggiunto la saggezza; perché è solo in questa interazione dialettica, in questo continuo scambio di vedute, di parole, d’immagini vivide ed esemplari che si può giungere a farle proprie».
Si deve necessariamente farle vivere per creare una nuova immagine, un nuovo mito primordiale?
«Sì. Esse deve appartenere realmente all’altro e non per imposizione ma per condivisione vissuta, per mezzo di un viaggio personale».
Entrambi i “cercatori” devono tenersi per mano, camminando verso la via della comprensione e della compassione reciproca?
«Di nuovo sì. L’anima dei viaggiatori raggiunge il pieno governo di sé, la felicità: essa consiste nel togliere i veli della diffidenza, dell’incomprensione, della paura e incamminarsi insieme verso la condivisione dei valori cioè la via maestra di ogni pace. Una pace non imposta dall’economia, dalle armi, dalla paura, ma realmente voluta e condivisa nel profondo».
E’ necessario creare la volontà di pace attraverso l’insegnamento di un linguaggio comune?
«Non solo. Occorre creare una lingua comune ma deve essere un linguaggio semplice, basato sui segni, quindi un modo di comunicare che imponga una costante attenzione a ciò che l’altro ha da dire, che garantisca la comprensione attraverso l’immediatezza dei segni perché essi sono immagini, simboli che racchiudono – come bene ci hanno fatto capire i Tamariani – tutta la complessità del pensiero e la trasmettono in modo immediato e complesso all’altro il quale, condividendone il linguaggio ma soprattutto l’immaginario collettivo, non ha difficoltà ad afferrarne il concetto.
Il mediatore Riva ha dato una grande lezione di tipo platonico a tutti quanti, consacrando probabilmente la sua intera esistenza a insegnare un linguaggio comune ma anche il modo di rimettere in ordine la propria anima una volta che era stata spazzata via».
Lei intende quando, durante una difficile mediazione tra due fazioni in lotta da millenni, il suo Coro venne ucciso dai dissidenti che non volevano in alcun modo la pace?
«Esattamente. Riva era muto, il suo Coro era formato da tre persone telepatiche che ne interpretavano il pensiero e le emozioni. Riva comprese allora che, una volta tagliate tutte le possibilità di comunicazione, si trovava nella stessa condizione di quel popolo devastato dalla guerra, nella totale impossibilità di comunicare per far cessare gli scontri. Capì che il solo modo di tramutare il suo netto svantaggio in una chance vincente, era riunire insieme i rappresentanti delle fazioni e insegnare loro il proprio linguaggio, quello dei segni. In questo modo ognuno avrebbe imparato ad ascoltare l’altro e a parlarci».
Alla fine, la pace è solo un terreno che permette ai semi di germogliare? Qualcosa di instabile e che tutti siamo chiamati a rinnovare?
«In un certo senso è proprio così. Niente di quello che conquistiamo è stabile, tutto può cambiare in un attimo e dobbiamo sempre essere pronti a rimetterci in gioco, a vivere in continuo questo cambiamento, a essere aperti al dramma esistenziale. E soprattutto capire che, per raggiungere questo, non siamo soli».
Non siamo soli… che belle parole. Purtroppo nel mondo da cui provengo esistono incomprensioni e rancori, all’ombra di un finto benessere in abitazioni che sembrano caserme armate. E’ difficilissimo persino farsi aprire la porta per chiedere sale in prestito. Devo convincermi che questi scogli siano superabili?
«E’ la sola strada percorribile. Si devono unire le diversità in un nuovo linguaggio e quindi in una comprensione degli opposti, in una via che mantenga le identità ma, contemporaneamente, le faccia ritrovare in un terreno comune. E’ solo nei rapporti umani che si vince la guerra con la pace; non con la rabbia né tanto meno con l’orgoglio ma con la forza dell’amore che apre il dialogo con l’altro. La pace è l’inizio, non il fine ultimo».
Ringrazio cortesemente il capitano Jean Luc Picard per il tempo che mi ha concesso e vado via, felice di aver fatto la sua conoscenza. Scortato, sempre dalla bella Consigliera di bordo, verso la sala del teletrasporto ritorno sulla conversazione appena conclusa, alle possibilità concrete di instaurare un dialogo proficuo, basato sulla fiducia reciproca e su valori condivisi. Ripenso a quel passo di Soren Kierkegaard: «Cos’è che rende un uomo grande, ammirato dal creato, gradevole agli occhi di Dio? Cos’è che rende un uomo forte, più forte del mondo intero; cos’è che lo rende debole, più debole di un bambino? Cos’è che rende un uomo saldo, più saldo della roccia; cos’è che lo rende molle, più molle della cera? È l’amore. Cos’è che è più vecchio di tutto? È l’amore. Cos’è che sopravvive a tutto? È l’amore. Cos’è che non può essere tolto, ma toglie lui stesso tutto? È l’amore. Cos’è che non può essere dato, ma dà lui stesso tutto? È l’amore. Cos’è che sussiste, quando tutto frana? È l’amore. Cos’è che consola, quando ogni consolazione viene meno? È l’amore. Cos’è che dura, quando tutto subisce una trasformazione? È l’amore. Cos’è che rimane, quando viene abolito l’imperfetto? È l’amore. Cos’è che testimonia, quando tace la profezia? È l’amore. Cos’è che non scompare, quando cessa la visione? È l’amore. Cos’è che chiarisce, quando ha fine il discorso oscuro? È l’amore. Cos’è che dà benedizione all’abbondanza del dono? È l’amore. Cos’è che dà energia al discorso degli angeli? È l’amore. Cos’è che fa abbondante l’offerta della vedova? È l’amore. Cos’è che rende saggio il discorso del semplice? È l’amore. Cos’è che non muta mai, anche se tutto muta? È l’amore, e amore è solo quello che mai si muta in qualcos’altro» (da «Discorsi edificanti»). Il mio ultimo pensiero, prima che il teletrasporto mi riporti al punto di partenza, è che probabilmente avremmo tutti bisogno di qualcosa di cui possiamo godere solo in minima parte, dovendola dividere con la sua sorella Morte.