Joker, i tassisti solitari, Dioniso, Michael Moore e il cuculo
Meglio il sogno o l’ebbrezza ? Fabrizio Melodia – l’Astrofilosofo – nella 163esima puntata di «Ci manca(va) un Venerdì» si chiede se fidarsi degli angeli urbani… o dei codici nucleari
«Cosa ottieni se metti insieme un malato di mente solitario con una società che lo abbandona e poi lo tratta come immondizia? Te lo dico io cosa ottieni: ottieni quel cazzo che ti meriti» afferma Arthur Fleck, interpretato dal mai troppo bravo Joaquim Phoenix, in «Joker» di Todd Phillips – vincitore del Leone d’Oro come miglior film alla Mostra del cinema di Venezia – ispirato in modo assai libero al noto personaggio della DC Comics, eterno e ridanciano clown, autentica nemesi di Batman, il quale, come sappiamo, ride poco.
Lodi e polemiche hanno fatto seguito a questo film. Non una da poco la seguente: «È un esplicito, laborioso e superfluo omaggio al classico di Scorsese e De Niro Re per una notte, con un tocco di Taxi Driver. Perciò ha vari momenti in cui è un po’ come questi film ma non è altrettanto bello» scrive il noto critico cinematografico britannico Peter Bradshow.
«Devo smetterla di citarmi addosso» direbbe Woody Allen, mai scevro dai paragoni lungimiranti fra i suoi stessi film e la consapevolezza, corroborata da critici sagaci e competenti: insomma il rischio è fare sempre lo stesso verboso film, magari un po’ meglio oppure un filino peggio.
Vabbè, ad Alessandro Manzoni non hanno mai fatto problemi per essersi ispirato all’ «Ivanohe» di Walter Scott, oppure a Ludovico Ariosto di aver saccheggiato e riscritto Matteo Maria Boiardo. E il buon Platone rubò le chiacchiere da piazza di Socrate mentre Plauto copiò di stecca commedie originali greche come quelle di Menandro. I latini la chiamavano contaminatio, noi la chiamiamo “doppiaggio”… nel migliore dei casi.
Eppure l’osservazione di Bradshow apre una strana possibilità ovvero che Joker e Travis Bickle, protagonista di Taxi Driver (interpretato da Robert De Niro) possano incontrarsi e quasi parlarsi, dialogando come vecchi amici in un ospedale psichiatrico, certo entrambi con la camicia di forza, ma non stiamo a sottilizzare.
«State a sentire stronzi figli di puttana io ne ho abbastanza, ho avuto anche troppa pazienza e non ho intenzione di… State a sentire stronzi, figli di puttana io ne ho abbastanza, ho avuto anche troppa pazienza, ho avuto anche troppa pazienza, ho avuto anche troppa pazienza con voi sfruttatori, ladri, drogati, assassini, vigliacchi. Ho deciso di farla finita, ho deciso di farla finita, ho deciso di… sei morto» urla infuriato Travis Bickle.
Il tassista non riesce a dormire, come un’ombra vaga con il suo taxi per la città, quando va bene gira in metropolitana per sfinirsi, subisce di tutto, vede davanti ai propri occhi l’inferno depravato della città. E cosa fa? Come recita il bellissimo taeser del film «In ogni strada di questo Paese c’è un nessuno che sogna di diventare qualcuno. È un uomo dimenticato e solitario che deve disperatamente provare di essere vivo». E lo prova facendosi giustizia da solo ma fa anche del bene. Riesce a recuperare Iris, una ragazzina caduta in un brutto giro. Un angelo del bene, alla fine: in fondo ha fatto fuori solo – ma questo “solo” è accettabile? – la feccia della società. E’ quello che tutti noi potremmo (vorremmo?) diventare: giustizieri divini che un giorno entrano in armeria e si preparano a scatenare l’inferno verso i corrotti. O no?
A conti fatti, Joker senbra essere di tutt’altra pasta: a Travis Bickle risponderebbe se gli ha per caso dato di volta il cervello o se qualcuno è volato sul nido del cuculo, tanto per stare in tema, visto che lui ci volò.
È come il marpione McMurphy, interpretato dallo strepitoso Jack Nicholson, che appunto nel film «Qualcuno volò sul nido del cuculo» (espressione anglosassone che indica qualcuno andato via di testa) si fa rinchiudere in manicomio per non lavorare e scopre alla fine che i dottori sono i veri pazzi e trattano tutti con profonda disumanità: «Ma che cosa vi credete di essere, vacca troia? Pazzi? Davvero? Invece no. E invece no. Voi non siete più pazzi della media dei coglioni che vanno in giro per la strada, ve lo dico io».
Ti crediamo, McMurphy. Come crediamo – forse – che anche per il giustiziere Travis Bickle ci sia stato un lieto (agrodolce?) fine.
Per Joker non esiste il lieto fine, perché a lui non potrebbe importare di meno l’ottenere giustizia, Joker è un Dioniso che, dopo aver molto sofferto e molto bevuto, assurge a vera divinità del Caos, dove Travis Bickle invece voleva stabilire un po’ d’ordine nelle cose del mondo, magari dormendo anche un poco.
Batman, il Cavaliere Oscuro, sembra più simile a Travis Bickle, o a McMurphy, proprio per il senso di “giustizia” che lo fa ammantare dell’abisso della paura: eccolo indossare l’Oscurità, farsene mantello e portarla a coloro che vivono nella violenza e nella tragedia.
«Chi combatte i mostri deve fare attenzione perché potrebbe diventarlo lui stesso. E quando getta uno sguardo sull’abisso per troppo tempo, l’abisso prima o poi getta uno sguardo su di lui» profetizzava tal Nietzeche in «Al di là del bene e del male».
Joker non vuole portare giustizia, non ha camminato sul filo teso fra la bestia e l’Oltre Uomo (semore “Nicce” nostro) con l’abisso sotto di lui a chiamarlo: se Batman è Apollo, Joker è un Dioniso con il vizio della barzelletta sagace, un Socrate che ha scordato la maieutica e si ubriaca di simil cicuta.
Come non rimanere fulminati da queste riflessioni: «I Greci, che esprimono e in pari tempo nascondono nei loro dèi la dottrina segreta della loro visione del mondo, hanno eretto a duplice scaturigine della loro arte due divinità: Apollo e Dioniso. Questi due nomi rappresentano, nel regno dell’arte, due stili opposti. Essi procedono l’uno accanto all’altro, quasi sempre in lotta tra loro, e solo una volta, nel momento della fioritura della “volontà” ellenica, appaiono fusi: nell’opera d’arte della tragedia attica. In due diversi stati, in effetti, l’uomo raggiunge il sentimento estatico dell’esistenza: nel sogno e nell’ebbrezza. La bella parvenza del mondo del sogno, in cui ogni uomo è pienamente artista, è la madre di ogni arte figurativa e, come vedremo, anche di una metà importante della poesia. Noi godiamo della comprensione immediata della figura, tutte le forme ci parlano; non c’è niente di indifferente e di non necessario. Ma anche nella vita più fervida di questa realtà di sogno, abbiamo ancora una sensazione balenante della sua illusorietà; solo quando questa cessa cominciano gli effetti patologici, in cui il sogno non ristora più e la forza risanatrice naturale di quello stato viene meno»: sempre Nietzsche («La visione dionisiaca del mondo» in «Verità e menzogna», nella traduzione di Sossio Giametta).
Realtà di sogno, la menzogna che ristora e quando essa viene meno, ecco che i farmaci menzogneri non funzionano più e allora arriva solo la sofferenza, la quale in qualche modo deve finire o essere trasformata. Ne sai qualcosa nevvero Joker? Facci sentire la tua voce: «Ho sempre pensato che la mia vita fosse una tragedia ma ora mi rendo conto che è una cazzo di commedia».
Commedia, per come la vedeva il commediografo inglese Christopher Fry, «non è una via di fuga dalla verità ma dalla disperazione».
Quindi dalla disperazione esplode il Caos dionisiaco, arriva Joker e con il suo arrivo ecco anche Batman.
Che fine faranno? Non è dato saperlo, Alan Moore nella graphic novel «The killing Joker» ci lascia con una dionisiaca barzelletta di Joker raccontata a Batman – se volete leggerla è qui sotto – e una bella risata di entrambi.
Io invece vorrei lasciare la solita (inconcludente) conclusione al cineasta Michael Moore: «Ci hanno detto che è violento, malato e moralmente corrotto. Ci hanno detto che la polizia sarà presente a ogni proiezione questo weekend in caso ci siano “problemi”. Il nostro Paese è in preda alla disperazione, la Costituzione è a pezzi e un pazzoide proveniente dal Queens ha accesso ai codici nucleari – ma per qualche motivo è di un film che dovremmo avere paura. Io proporrei il contrario: il pericolo più grande per la società sarebbe se non vedeste il film. Perché la storia che racconta e i problemi che affronta sono talmente profondi e necessari che se distogliete lo sguardo da questa grande opera d’arte vi perderete il dono dello specchio che ci offre. Sì, c’è un clown turbato in quello specchio, ma non è da solo – noi siamo lì, di fianco a lui».
UNA BARZELLETTA O FORSE UNA METAFORA
C’erano due matti in un manicomio e una notte decidono di scappare, allora si arrampicano in cima al tetto del manicomio e scoprono che basta un salto per atterrare sul tetto del palazzo di fronte per arrivare nella città illuminata dalla Luna. Il primo matto salta di là senza problemi ma il suo amico non vuole fare il salto, ha paura di cadere. Allora il primo matto ha un’ idea e gli dice: <<Ehi! Io accendo la pila e la metto fra i due tetti tu cammini sul raggio di luce e arrivi tranquillamente qua!>>. Il secondo matto scuote la testa e rispondee: <<Ma che ti credi? Non sono mica matto, lo so che quando sono a mezza strada spegni la luce!>>.