Juana, indigena maya e migrante, prigioniera in Messico

Nell’agosto del 2014 la donna, partita dal Guatemala, cadde nelle mani dei coyotes in Messico. Rapita e sequestrata dai suoi carcerieri, per la polizia è lei stessa parte dell’organizzazione criminale nonostante fosse costretta a lavorare per i suoi aguzzini. Da allora si trova in prigione senza conoscere altro che poche parole di spagnolo. Una storia di misoginia, razzismo e discriminazione.

di David Lifodi

                      Foto: Francisco Simón Francisco – Desinformemonos

Juana Alonzo, indigena maya Chuj, si trova in carcere, in Messico, dall’agosto2014, per un reato che non ha commesso. La donna, all’epoca trentacinquenne, partì da San Mateo Ixtatán, in Guatemala, per raggiungere gli Stati uniti come molti suoi connazionali.

In fuga dalla crisi economica e dalla violenza dilagante nel suo paese e in tutto il Centroamerica, Juana raggiunse fortunosamente il Messico, ma cadde, insieme ad altre migranti, nelle mani dei coyotes. Catturata e sequestrata in un’abitazione abbandonata nella città di Reynosa (stato del Tamaulipas), dove era costretta a lavorare per suoi carcerieri, la donna credette che l’incubo fosse finito con l’arrivo della polizia messicana ma, al contrario, invece di soccorrerla, gli agenti la ritennero tra le menti del rapimento delle migranti con le quali aveva viaggiato.

Da allora Juana si trova nel carcere di Reynosa, senza poter parlare con la sua famiglia e senza potersi difendere poiché non parla spagnolo. Di recente, i familiari della donna e i suoi amici hanno percorso a piedi gli oltre 300 chilometri che separano San Mateo Ixtatán dalla capitale, Città del Guatemala, per consegnare all’ambasciata messicana una lettera firmata da 5.000 persone e da una quarantina di organizzazioni nazionali e internazionali, tra le quali Promotores de la Liberación Migrante e Organización de mujeres Ixtatecas de San Mateo Ixtatán, per chiederne la sua immediata scarcerazione.

Al momento dell’arresto, Juana è stata torturata dalle forze di sicurezza dello stato del Tamaulipas, minacciata dagli agenti che le hanno puntato contro armi da fuoco e, successivamente, interrogata senza la presenza di un avvocato e di un interprete, fino ad essere costretta a firmare una dichiarazione auto-accusatoria, estortale grazie al fatto che parlava soltanto l’idioma maya Chuj.

La missiva consegnata alle autorità messicane, in particolare al giudice Andrés Escamilla González, al pm Irving Barrios Mojica e a Romeo Ruiz Armento, ambasciatore del Messico in Guatemala pone l’accento sulla gravità di una carcerazione sancita senza alcuna prova e sulla violazione dei diritti di Juana come migrante, frutto del razzismo e della volontà di condannarla a prescindere poiché non parla lo spagnolo e quindi non ha alcuna possibilità di difendersi.

Finora le istituzioni messicane e guatemalteche non si sono mai adoperate per risolvere una vicenda che, per Juana, ogni giorno che passa assume sempre più i contorni di un incubo. Del resto, è stato lo stesso diplomatico messicano Abel Escartín, di fronte alla sua ambasciata a Città del Guatemala, ad ammettere candidamente: “No tengo opinión, no conozco el caso”.

Hanno senza dubbio ragione i familiari di Juana a sostenere che la sua carcerazione si deve alla “colpa” di essere donna e indigena.

Nel settembre 2021 il Gruppo di lavoro sugli arresti arbitrari in seno alle Nazioni unite ha dichiarato che la privazione della libertà imposta a Juana contravviene la Dichiarazione universale dei diritti umani e il Patto internazionale dei diritti civili e politici. Juana meriterebbe non solo di essere scarcerata, ma avrebbe il diritto di ottenere un adeguato risarcimento per quanto ha subito e sta continuando a subire.

L’attenzione sul caso di Juana da parte dei familiari e delle organizzazioni popolari non è mai venuto meno. Lo scorso 8 marzo una delegazione di donne raggiunse il Consolato messicano a Quetzaltenango, da San Mateo Ixtatán, per chiedere la libertà della donna ed evidenziare la discriminazione e la misoginia che le indigene migranti sono costrette ad affrontare sulla propria pelle.

Il Messico non ha alcun interesse ad occuparsi del caso perché la detenzione di Juana, se valica i confini dei due stati, metterebbe il paese in cattiva luce. Juana Alonzo ha denunciato che, solo dopo 4 anni di carcere, avendo imparato uno spagnolo base, ha capito quali fossero le accuse contro di lei, a partire da quella di far parte del gruppo di polleros che, secondo la polizia, avrebbe sequestrato altre donne migranti.

Migrar no es un delito, tampoco ser mujer indígena, ribadiscono i concittadini di Juana, ricordando che tutta la popolazione di San Mateo Ixtatán crede nella sua innocenza, spera che presto il suo incubo finisca e che la donna possa tornare presto libera.

David Lifodi
Sono nato a Siena e la mia vera occupazione è presso l'Università di Siena. Nel mio lavoro "ufficioso" collaboro con il sito internet www.peacelink.it, con il blog La Bottega del Barbieri e ogni tanto pubblico articoli su altri siti e riviste riguardo a diritti umani, sindacalismo, politica e storia dell’America latina, questione indigena e agraria, ecologia.

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