Kalende dickiane
di Paolo Arena (*)
C’è qualcuna/o che passa in “bottega” che ancora non conosce Philip Dick? Magari sì. E probabilmente qualche dickiana/o non ha letto «Giù nella cattedrale».
1. Trame
In una futura societa’ ad elevato controllo, un uomo – Joe Fernwright – e’ un riparatore di vasi di ceramica ormai disoccupato a causa della sostituzione delle suppellettili con quelle di plastica: di produzione industriale, eterne, impersonali.
Rassegnatosi ad una vita di inutilita’ ed impossibilita’ a realizzarsi ancora, gli accadono due fatti in sospetta contemporaneita’: ha dei guai legali e riceve la proposta di trasferirsi su un altro pianeta per poter tornare ad operare il suo mestiere. La proposta arriva da un essere alieno detto Glimmung, che gli si manifesta in maniera spettacolare come un’entita’ misteriosa e potente in cerca di aiuto per un’impresa eccezionale.
Costretto a partire dalle sue questioni legali, Joe incontra altri viaggiatori di altri pianeti che hanno ricevuto un simile ingaggio “forzato”. Gia’ durante il viaggio pur non avendo ancora chiaro l’obiettivo della proposta, i lavoratori cercano di organizzarsi sindacalmente, condividendo le loro conoscenze su (o “sul”) Glimmung e sul pianeta di destinazione, il “pianeta del Contadino” sul quale qualcuno e’ gia’ stato. Ogni viaggiatore sembra avere un talento professionale specifico, anche se magari obsoleto od estremamente specialistico.
Si scopre dunque che la missione e’ quella di sollevare la cattedrale Heldscalla, sommersa nel misterioso oceano del pianeta, in fondo al quale pero’ si aggirano anche strane entita’ metafisiche ed inquietanti doppi-negativi di ogni entita’.
Fernwright e gli altri (creature umanoidi, insettoidi, molluschi bivalve senzienti eccetera) iniziano ad interrogarsi sul senso della missione, considerando la ritrosia del Glimmung a dare altre informazioni ed a lasciarli esplorare.
La cattedrale sommersa rappresenterebbe un certo culto dei tempi antichi, che il Glimmung vorrebbe riportare in vita (anche rischiando che questo sia incompatibile con la propria esistenza).
Sul pianeta inoltre esiste un libro profetico e contraddittorio, le Kalende, che annuncia diversi destini nei quali l’impresa o parte di essa sono infruttuose.
Joe fraternizza con un’umanoide aliena da cui si sente attratto e cerca di interessarsi alla missione al contrario di altri tra gli specialisti che iniziano ad essere scontenti o avere dubbi: il Glimmung gli ha promesso che potra’ tornare a realizzarsi aggiustando le ceramiche della cattedrale riemersa e gli ha messo a disposizione un nuovo laboratorio all’avanguardia.
Al desiderio di Joe di immergersi nell’oceano per vedere le ceramiche pero’ il Glimmung e’ restio a concedere autorizzazione e sostegno, come se in quello strano abisso oscuro ci fossero altri segreti che sia meglio lasciare sopiti, ed in effetti e’ proprio cosi’: Joe e la donna si immergono nelle tenebre dell’oceano e prima di scorgere la cattedrale incontrano una specie di doppio/fantasma dello stesso Joe che lascia loro una sorta di (infausta) profezia sui destini loro individuali e della missione.
Anche la cattedrale ha un suo doppio e anche lo stesso Glimmung. Questo doppio Glimmung e’ sconfitto perche’ l’esistenza sembra sia permessa ad uno solo dei due, ma questa nemesi potrebbe tornare a manifestarsi per un definitivo scontro.
A questo punto non resterebbe che dare il via all’operazione di sollevamento della cattedrale, ma il gruppo degli specialisti e’ diviso e poco motivato, mentre il Glimmung sta combattendo contro il proprio doppio.
Inoltre c’e’ il rischio di non distinguere tra la Cattedrale reale e quella alternativa, ammesso che questa distinzione abbia senso.
Alla fine dello scontro il Glimmung e’ ferito ma vittorioso (anche se non si capisce bene su cosa e quali implicazioni abbia) e decide di operare quanto prima il sollevamento, pur mancandogli le forze necessarie – con o senza la collaborazione del gruppo.
Glimmung quindi assimila il gruppo di specialisti, includendoli all’interno della propria (indefinita) conformazione fisica, per integrarne le capacita’. Infatti nonostante il potere del Glimmung e’ necessaria la collaborazione del gruppo e la congiunta volonta’ dei singoli per poter riuscire nell’impresa. Che non riesce: occorrera’ in futuro un nuovo tentativo con la partecipazione di coloro che vorranno ritentare.
Alla fine Joe deve fare i conti col resto della propria vita e con la ritrovata voglia di agire: su suggerimento di una delle creature aliene decide di mettersi alla prova nel suo nuovo laboratorio ed invece di riparare qualcosa di guasto tenta di creare un nuovo vaso.
2. L’opera
“Guaritore galattico” (Galactic Pot Healer) e’ un romanzo di P. K. Dick del 1969. E’ una delle opere meno conosciute e per certi versi e’ anomala in quanto a struttura e temi trattati, pur presentandone alcuni di quelli cari all’autore.
Intanto e’ un romanzo stranamente lineare, privo di quegli intrighi spaziotemporali e multidimensionali di altre opere in cui le realta’ e le percezioni di esse si confondono, moltiplicano, sovrappongono, negano persino: ha una storia che procede dall’inizio alla fine e lo stile e’ quello chiaro di certa fantascienza convenzionale che usava una costruzione semplice per consentire complesse descrizioni di fatti richiedenti un cospicuo sforzo di immaginazione costruttiva (creature ed entita’ bizzarre, luoghi alieni minuziosamente tratteggiati, lunghi ragionamenti eccetera). La materia della narrazione nascosta dietro la fantascienza (impastata con essa, a dire il vero) e’ pero’ complessa e profonda, seppure graviti attorno a pochi fondamentali concetti: la ricerca di un senso della propria esistenza (e di un proprio ruolo nel cosmo), le molteplici sostanze che si celano dietro una singola apparenza, la somiglianza di certe intenzioni delle creature le piu’ disparate, l’inevitabile doppiezza di ogni entita’ ed essenza (e della doppiezza stessa), l’ambiguita’ aporetica dell’idea di predestinazione e molto altro.
Ad un primo approccio appare un racconto tipico di certa vecchia narrativa ai confini del pulp, tutta mostri spaziali, utopie (distopie) stereotipate e complesso di divinita’ dell’autore, ma non e’ cosi’. Anche il fatto che gli accenni all’opera presenti in rete si fermino alla descrizione iniziale dell’America distopica in cui Fernwright vive indicano un approccio stereotipato al Dick poco letto, poco compreso e molto citato persino ormai nell’Accademia, dove e’ chic mostrarsi aperti a certa “fringe literature” nonostante non faccia piu’ colpo su studenti annoiati – salvo poi allontanarsene quando essa si dimostri irriducibile ai propri schemi mentali e politici, liberatoria ed eccessiva, per cosi’ dire critica della critica.
In realta’ l’aspetto della societa’ totalitaria e’ solo un cappello all’opera che e’ fuori dal catalogo dei lavori sociopolitici dickiani ed e’ piu’ individuale, introspettiva, orientata al rapporto dell’uomo con se stesso e con altri singoli – intimista quasi nell’esporre dubbi e paure di uno pseudo-artista (che ripara ma non sa creare, nonostante le due attivita’ richiedano le stesse competenze, ri-assembla l’esistente come l’artista d’avanguardia degli anni sessanta trasforma i rifiuti in altre cose, ri-sensa l’esistente o quanto meno ripristina il deteriorato), e romantica nel porre l’individuo di fronte all’impresa titanica e forse impossibile di (ri)dar forma all’informe, di affrontare la selva oscura medioevale/romantica compiendo il viaggio di purificazione, rinascita, realizzazione con le tappe classiche del dubbio, dell’incontro, della scoperta della verita’, della disposizione al sacrificio ed infine del superamento della prova (anche se qui questi aspetti si ammantano e si confondono e si travestono da altro).
Il romanzo infatti si articola come una tradizionale “quest” che la letteratura fantastica contemporanea eredita dall’epica classica. Alla fine del viaggio (nello spazio, in fondo ad un oceano mistico, dentro se stessi e persino dentro altre creature come il Giona biblico) Joe da “homo restaurator” diviene “homo faber”, uomo facitore di cose, quell’uomo che la buona cultura liberale americana considera l’unico in grado di realizzarsi da se’ la propria fortuna e liberta’ di cittadino ed individuo, capacita’ che gli e’ stata tolta con l’ipermeccanizzazione, il controllo sociale eccetera. Come se l’uomo fosse tale solo se in grado di plasmare il mondo con le proprie mani, per quanto virtuali o condivise in una gestalt/societa’ che e’ somma di singoli piu’ che amalgama di materia un tempo umana ed ormai indistinguibile, come la societa’ ipermoderna della forza lavoro generica, fatta ancora di teste, sangue e braccia ma ormai subumane e sottomesse.
3. Il principio ispiratore
Ma allora cos’e’ / chi e’ questo Glimmung che ispira la missione, che tende a voler realizzare un’impresa tanto titanica quanto inspiegabile e forse inane, che e’ tanto potente quanto paradossalmente non lo e’?
Se ha degli aspetti divini o demiurgici, Dick li stempera subito assegnandogli carattere e loquela piu’ che umane e persino vizi ed insolenze (ad esempio pur essendo eterno ed onnipotente esso ha una segretaria); sprona gli individui ad agire in grande per se’ stessi e per il proprio vissuto, ma cooperando, integrandosi in una nuova forma.
Glimmung organizza le energie intellettuali ed individuali, ma le fagocita letteralmente, pur mantenendone l’identita’; e’ una gestalt, non una societa’ o comunita’, ma un “condividuo”, un nome collettivo, un’entita’ multipla, fisica ma astratta, forse quello che in estetica si definirebbe “l’informe” e che nella fisica potrebbe ricordare la condizione della radiazione-luce e quindi della complicata doppia esistenza di energia e materia, forse di causa ed effetto poiche’ in fondo questi uomini agiscono perche’ c’e’ qualcosa che li unisce e la cosa ad unirli e’ il fatto che agiscano insieme. Luce dicevo, poiche’ forse il Glimmung e’ bagliore nella lingua della filosofia e della scienza moderne: quella luccicanza che ispira, guida, unisce e avvolge tutti. Forse acceca certo poiche’ sappiamo che il Glimmung ha un doppio negativo (“nero”) anche se ad un certo punto abbiamo il dubbio che possa essere lui quello negativo e non l’altro con cui si batte o che addirittura possano essere la stessa entita’ o ancora avere forme di coesistenza parziale.
Infatti quando incontriamo il doppio/fantasma di Fernwright e veniamo a sapere della doppia cattedrale tutto si moltiplica, le moltiplicazioni si fanno sequenze di operazioni e cioe’ elevamenti a potenza, ma le moltiplicazioni sono sequenze di addizioni, cose che si sommano ad altre (anche se in somma negativa): a questo punto pero’ con tutte queste realta’ parimenti possibili come agire? E se il Glimmung fosse la luce alla fine del tunnel (spaziale) e ci illuminasse convincendoci ad agire semplicemente facendo ognuno cio’ che sappiamo fare (per gli altri, per il bene comune) e che ci e’ stato impedito di fare?
Resta comunque il dubbio sull’identita’, sull’uguaglianza, sulla possibilita’ di agire il futuro e le due domande si trovano a coincidere: che fare?/chi siamo? Siamo cio’ che facciamo e il Glimmung/principio ispiratore a questo intende muoverci.
4. La cura
Ma perche’ Fernwright e’ un “guaritore” di ceramiche e non un “riparatore”?
Abbiamo detto che e’ il Glimmung ad ispirarlo alla creazione, ma qual e’ il senso di quella parola, riferita all’attivita’ di Fernwright?
Cosa si intravede nella lingua usata e cosa filtra nella traduzione/tradimento? Possiamo avere delle suggestioni al riguardo. Essendo appunto la letteratura e la comunicazione suggestione, sollevamento nell’altro ricevente di una funzione creativa in parte autonoma dal messaggio iniziale, sollevamento da un indefinito (un oceano oscuro appunto), siano la cattedrale, le ceramiche e il vaso nuovo (per quanto orribile, “awful” come ci viene detto) che Fernwright decidera’ di creare da zero, ma anche un’opera letteraria, modellata dall’esistente con parole e concetti esistenti eppure nuova – creare e’ impossibile in senso laico, e’ sempre ordinamento dell’esistente, per quanto magari a livello molecolare, niente passa dalla non esistenza all’esistenza a parte la vita nei suoi stati primigeni cellulari. Nel mondo di Fernwright ogni aspetto della vita e’ meccanizzato, industriale, “di plastica”, immodificabile se non nello stato di deterioramento definitivo, digitale nel senso di avere solo due stati possibili quello di esistente e quello di non piu’ esistente, senza quegli stati intermedi tra la nascita/fabbricazione e la morte/distruzione che potrebbero essere la vita dei viventi e l’usabilita’ funzionale per le cose inanimate. Nella societa’ industriale avanzata l’induzione del bisogno di nuovi prodotti riempie lo spazio vitale fisico e mentale di cose che non hanno altra funzione se non quella di essere prodotti/merce, oltre naturalmente alla funzione neanche troppo latente di invadere con l’ingombro e di colonizzare la nostra anima, disfare la nostra ecologia della mente, sottomettere la nostra energia vitale eccetera. Cose insomma che si limitano ad esistere, sempre piu’ numerose come un’infezione che si moltiplica annientandoci o come cellule impazzite che cambiano letteralmente la sostanza di cui siamo fatti, ci sostituiscono progressivamente con doppi inanimati ma funzionali alla vita del Sistema.
Se il prodotto del nostro lavoro contiene come sappiamo parte della nostra energia vitale esso e’ vivo e potremmo quasi parlare in un lato senso positivo di feticismo, poiche’ saremmo circondati da cose vive, che non ci appartengono ma sono noi e per questo dovremmo guarirle (“to heal” in inglese) poiche’ sono estensioni del nostro essere e quindi guariremmo noi stessi e il mondo che ci circonda, ognuno facendo cio’ che sa fare, l’uno accanto all’altro, diventando l’uno prosecuzione dell’altro, essendo una forma doppia io/noi che sia sommatoria di individui ma anche nuova entita’ (societa’) collettiva con nuove caratteristiche. Guarire (to heal) che e’ quindi curare: due termini che in inglese hanno la stessa parola se riconosciamo invece a “to care” il senso piu’ lato di “aver cura di”, “to heal” quindi e’ parola che e’ tentativo ma che ha la riuscita in se’, poiche’ il seme e’ gia’ la pianta: o lo si mette o no, o si cura o non lo si fa, ma una volta che si cura si guarisce.
Ecco perche’ secondo me Fernwright e’ un “healer” e non un “fixer” (aggiustatore, tecnico): non e’ un manipolatore di materia di tipo fordista, cioe’ un uomo/macchina che manipola con indifferenza estraniante qualunque cosa abbia davanti a se’, e che pero’ sara’ presto sostituito proprio da una piu’ efficiente macchina inorganica ed inanimata e da cose che non valga piu’ la pena siano riparate; Fernwright guarisce (guariva) le cose umanizzate intrise di forza vitale del vecchio metodo produttivo: guarire, cioe’ ri-dare la vita e’ dare la vita, rifare e’ fare, e quindi alla fine egli prende coscienza della propria potenza creatrice e se ne riappropria.
Poi certo potremmo scherzare dicendo che in inglese il sostantivo “fix” e’ il nome colloquiale di una “dose” e che “to need my fix” vuol dire “ho bisogno della mia dose”, la mia dose di caffe’, di droga, di sesso, di consumo: quella dose da cui i cittadini alienati dipendono sempre di piu’ perche’ “aggiusta” il fatto che altrimenti ci manchi qualcosa (che ci e’ stato tolto) e allora lo sistemiamo: una spintarella per svegliarsi, un dopato attimo di relax, un simulacro di relazione umana eccetera; come se nascessimo rotti e una “fix” vendutaci da uno spacciatore ci sistemasse; e’ possibile che questa parola “fix” omessa rumorosamente nell’opera abbia un senso? Mi sarebbe piaciuto chiederlo all’autore. Ed infine termineremmo lo scherzo ricordandoci che “pot” in angloamericano e’ il nome colloquiale della marijuana e che forse oltre ad un “pot healer” (guaritore di vasellame) c’e’ una “healer pot” (erba guaritrice): uno scherzo certo, ma il tasso di fantasia sfrenata che compone il lato ludico del romanzo fa pensare alle fantasie spaziali della psichedelia e della cosiddetta “ala creativa” di quegli anni. Questa la mia suggestione e Dick e’ un ispiratore di suggestioni: getta le sue ottime idee nella mischia e spesso e’ il lettore a doverle sustanziare, tanto sono incomplete, piccole saporite gemme che stimolano il gusto ma raramente saziano, idee come dolcetti che “uno tira l’altro”.
5. La cattedrale risollevata
La cattedrale e’ sul “pianeta del contadino”: ma “plowman” e’ piu’ un “aratore”, quindi e’ forte il senso di semina/raccolta e seme/pianta, come nel detto “chi semina (una cosa), raccoglie (la stessa cosa)”, e penso al rapporto seme/pianta della nonviolenza gandhiana sulla stessa intima natura dei due e quindi sull’impossibilita’ di fare altro che cio’ che si fa, sulle conseguenze delle proprie azioni; ma anche “aratore” nel senso di attesa della maturazione, attesa che non e’ inazione, e anche molto collegato al senso dell’opera e’ questa semina: il rapporto tra l’uomo e quel mistero ctonio che fa spuntare nutrimento e vita dalle fertili tenebre del sottosuolo (l’inconscio? L’indefinito cosmico ai confini tra organico e inorganico?), la vita che si insinua attraverso l’inorganico/terra e viene alla luce – un ciclo che si ripete da eoni e su scale le piu’ diverse: dal submicroscopico dove chimica e biologia, organico e inorganico, sono appena distinguibili, al mega-macroscopico di fantascientifiche e incommensurabili creature di energia che hanno trasceso la materia come noi la intendiamo ed esistono a livelli einsteiniani/cartesiani di esistenza in cui energia e’ uguale a materia con il cogito a coesistere in entrambe, due concetti ormai interscambiabili (tre anzi: energia uguale cogito uguale materia, materia pensante che potremmo chiamare vita solo per comodita’, ma oltre la vita – quattro anzi: energia, cogito, materia, uguaglianza; piu’ di quattro anzi, considerando gli intermedi sottintesi); energia, pensiero, materia che coincidono “Tutto in un punto” per dirlo con le “Cosmicomiche” di Calvino.
In questo senso quindi la Cattedrale potrebbe essere il fine, il principio ed il mezzo stesso, se la vediamo come anima/esistenza, poiche’ forse il fine della vita e’ la vita stessa, fragile appunto come porcellana viva da “curare”, e la reazione a questo fatto puo’ essere di delusione opprimente (considerando che “delusion” in inglese vuol dire “illusione”), ma anche di entusiasmo liberatore e appunto creativo, perche’ la missione e’ la missione in se’, cosi’ come il fine di un viaggio e’ il viaggio stesso piu’ che la destinazione.
Allora le Kalende, la misteriosa e instabile profezia cosmogonica contro cui operano i protagonisti, diventano forse il dubbio, l’ignoto, la paura che tutto sia gia’ deciso per quanto avvolto nell’imperscrutabile, la tentazione dell’inazione, la sottomissione a forze misteriche metafisiche/religiose o socio/politiche: il padrone, il dio, il sistema, la gerarchia, la Tecnica.
Il principio ispiratore che e’ il Glimmung allora ci spinge a spezzare queste costrizioni, a voler essere noi a fare, a decidere. Le Kalende sono la pazza profezia di demiurghi impazziti in preda alle quali si cade in uno stato di torpida accettazione, ma alle quali resistendo ostinatamente si rischia di vagare in una inconcludente “iactatio” che disperde le nostre energie vitali – ne’ assecondare la corrente ne’ combatterla a priori, ma andare in profondita’ a cercare qualcosa che si trovera’ solo quando un istante prima di riemergere vedremo il nostro volto nello specchio della superficie rovesciata del mare e per un istante saremo noi il nostro stesso riflesso, il nostro doppio; per questo le Kalende mutano, poiche’ sono specchio dell’animo umano (e alieno, ovviamente).
6. Lavoratori di tutta la galassia uniamoci
Opera suggestiva, al confine tra fantascienza tradizionale e sperimentazione, ricca di citazioni letterarie, psicanalitiche, politiche, musicali. Forse non la piu’ riuscita: oscura, incompleta, sicuramente “di fantasia”, nel senso che usa la tavolozza del fantastico per dipingere un panorama realistico dell’uomo postmoderno e della sua paura in una societa’ (galattica) contorta, che paralizza, rimuove, schiaccia e soffoca tanto i terrestri quanto i viventi di altri pianeti – cosi’ come ad esempio si vedono durante la narrazione del viaggio in astronave quando ci sembra (e lo scopriamo alla fine) – che per il superamento di certe angosce ed il riappropriamento della propria energia vitale creatrice sia necessario ormai unire le proprie forze e fondare una associazione intergalattica dei lavoratori.
(*) ripreso da «Telegrammi della nonviolenza in cammino» (numero 1971, 30 aprile 2015) con una lunga nota qui sintetizzata: «Paolo Arena, critico e saggista, studioso di cinema, arti visive, weltliteratur, sistemi di pensiero, processi culturali, comunicazioni di massa e nuovi media, e’ uno dei principali collaboratori del Centro di ricerca per la pace e i diritti umani di Viterbo e fa parte della redazione di “Viterbo oltre il muro. Spazio di informazione nonviolenta”, un’esperienza nata dagli incontri di formazione nonviolenta che per anni si sono svolti con cadenza settimanale a Viterbo. Philip K. Dick (1928-1982), autore di racconti e romanzi di fantascienza (o di speculative fiction, o come altrimenti li si voglia catalogare), e’ uno dei piu’ interessanti narratori statunitensi della seconda meta’ del Novecento».
Il guaritore di vasi…..grazie….è un libro bellissimo e inquietante allo stesso tempo.
Si lui non ripara guarisce e rende alle ceramiche non solo l’aspetto ricostruito ma ridona la luce .
è bellissimo quando tutti quanti per riuscire a risollevare la cattedrale vengono inglobati dal Gilmmurg solo uno sforzo collettivo ed ognuno con le proprie specificità riuscirà a far riemergere la cattedrale. QUALCUNO POI RESTERÀ PER SCELTA DENTRO IL GLIMMURG. …NON JOE….che proverà a costruire dalla materia il suo primo….acerbo e senza equilibrio. …primo vaso.
grazie….vanja